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Interpretazioni del documento storico. Valore documentario e dimensioni letterarie, a cura di Dan...

Date post: 28-Dec-2015
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Atti del Colloquio scientifico Textus Testis (Padova, 17 novembre 2009),
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Interpretazioni del documento storico Valore documentario e dimensioni letterarie a cura di Dan Octavian Cepraga e Sorin Şipoş con una prefazione di Lorenzo Renzi Università degli Studi di Padova Dipartimento di Romanistica Universitatea din Oradea Facultatea de Istorie, Geografie şi Relaţii Internaţionale Editura Universităţii din Oradea Oradea, 2010
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Page 1: Interpretazioni del documento storico. Valore documentario e dimensioni letterarie, a cura di Dan Octavian Cepraga e Sorin Şipoş, Editura Universității din Oradea, Oradea, 2010.

Interpretazioni

del documento storico

Valore documentario e dimensioni letterarie

a cura di Dan Octavian Cepraga e Sorin Şipoş

con una prefazione di Lorenzo Renzi

Università degli Studi di Padova Dipartimento di Romanistica

Universitatea din Oradea Facultatea de Istorie, Geografie

şi Relaţii Internaţionale

Editura Universităţii din Oradea

Oradea, 2010

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Interpretazioni del documento storico: valore documentario e dimensioni letterarie, a cura di Dan Octavian Cepraga e Sorin Şipoş; con una prefazione di Lorenzo Renzi Atti del Colloquio scientifico internazionale: Textus Testis.Valore documentario e dimensioni letterarie del testo storico / Valoare documentară şi dimensiuni literare ale textului istoric, Padova, 17 novembre 2009

Pubblicazione realizzata con il contributo del Dipartimento di Romanistica dell’Università degli Studi di Padova

© 2010 by Editura Universităţii din Oradea © Dan Octavian Cepraga şi Sorin Şipoş, Responsabilitatea pentru conţinutul articolelor revine autorilor.

Descrierea CIP a Bibliotecii Naţionale a României Interpretazioni del documento storico : valore documentario e dimensioni letterarie ; a cura di Dan Octavian Cepraga, Sorin Şipoş ; con una prefazione di Lorenzo Renzi = Interpretarea documentului istoric : valoare documentară şi dimensiuni literare / vol. îngrijit de Dan Octavian Cepraga, Sorin Şipoş ; cu o pref. de Lorenzo Renzi. – Oradea : Editura Universităţii din Oradea, 2010 ISBN 978-606-10-0244-3 I. Cepraga, Dan Octavian (ed.) II. Şipoş, Sorin (ed.) III. Renzi, Lorenzo (pref.) 82.09 94(100)

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Indice

LORENZO RENZI, Parole introduttive …………...…………. 5

I. Testi e fonti ....................................................................... 13

ALVARO BARBIERI, Ideologia e persuasione: la parola dei capi in Geoffroy de Villehardouin ........................................ 15

FLORIN SFRENGEU, Istoriografie şi arheologie: informaţii din Gesta Hungarorum a lui Anonymus privind ducatul lui Menumorut şi cercetările arheologice de la Biharea ........... 38

DAN OCTAVIAN CEPRAGA, Storia, retorica e linguaggio del patriottismo: la battaglia di Călugăreni in Românii supt Mihai-Voievod Viteazul di Nicolae Bălcescu ..................... 53

SORIN ŞIPOŞ, Silviu Dragomir e la Securitate: le note informative del dossier di pedinamento (1957-1962) …….. 83

II. Metodi e letture ……………………………………….. 123

ALVISE ANDREOSE, Dalla voce alla scrittura: problemi di transcodificazione nella stesura della Relatio di Odorico da Pordenone ………………………………………….….. 125

BARBU ŞTEFĂNESCU, Însemnările olografe de pe cărţile bisericeşti - puterea de informare asupra sensibilităţii lumii rurale ……………………………………..…...…….. 141

MIRCEA BRIE, Registrele parohiale de stare civilă din Transilvania în a doua jumătate a secolului al XIX-lea. Semnificaţie documentară …………………………..…….. 164

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III. Concetti ……………………………………………….. 195

ROBERTO SCAGNO, Le nozioni di românism e suflet românesc nella cultura romena tra le due guerre mondiali e le loro derivazioni postbelliche ........................................................ 197

ANTONIO V. FAUR, Consideraţii în legătură cu termenii de bandiţi, duşmani şi terorişti utilizaţi de autorităţile comuniste împotriva adversarilor politici (1947-1950) ....... 205 RIASSUNTI / REZUMATE ......................................................... 217 BIOGRAFIE DEGLI AUTORI / BIOGRAFIILE AUTORILOR ............ 233

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LORENZO RENZI

Parole introduttive

La caduta del Comunismo ha permesso che si

riaprissero vecchie vie che collegano di nuovo, come hanno fatto per secoli, l’Europa centrale e orientale con quella occidentale e mediterranea. All’aeroporto di Venezia, di Verona, come di Roma e di Milano, le destinazioni di Cluj, Oradea e Arad sono abituali. E viceversa. I bianchi pulmini di Atlassib sono una presenza ormai familare sulle autostrade italiane, ungheresi e romene. I nuovi mezzi di comunicazione e la globalizzazione hanno immerso peraltro ben presto questi cambiamenti in un movimento più generale, che collega ormai, soprattutto, Europa e Asia. Anzi si può dire che tutto il mondo è connesso da una rete di comunicazioni, materiali e immateriali, il cui simbolo si chiama proprio rete, il Web. Su un versante più generale, si era appena realizzata l’unità dell’Europa nei suoi nuovi e più ampi confini, che nuovi problemi sono apparsi a minacciarne non già l’esistenza, che sembra assicurata, ma la rilevanza e la coesione profonda: ecco l’Europa dell’euro e quella senza euro, ecco la crisi finanziaria e economica del 2009 che si prolunga fino a oggi, e batte in maniera meno clamorosa ma più profonda proprio la parte meno forte. Ci si lamentava ieri perché il sogno dell’Europa si era realizzato infine come Europa dei mercanti, simbolizzato dall’euro, mentre non esisteva, e non esiste, un’Europa della cultura, un’Europa che parli politicamente agli altri continenti con una voce sola, né un’Europa sociale, né un’Europa militare. Ed ecco che già questi pensieri ci sembrano utopistici: esistono problemi meno generali ben più urgenti.

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Esiste un’Europa universitaria, è vero, ma tutti se ne lamentano. Gli accordi di Bologna hanno ricevuto diverse applicazioni nei vari paesi, e tra i primi ci sono stati proprio l’Italia e la Romania. Ma in genere con poca soddisfazione soprattutto dei principali agenti interessati, i professori, che sembrano dimenticarsi che Bologna ha portato con sé soprattutto l’autonomia degli Atenei, un regalo del quale, è vero, non è sempre facile fare buon uso. Solo il progetto Socrates-Erasmus, che aveva già mosso qualche anno fa più di 1 milione di studenti in confini ancora più ampi di quelli della Comunità Europea, ha buona stampa. Il progetto Erasmus è destinato all’insegnamento. Quanto alla ricerca, La Mecca per tutti gli europei restano gli Stati Uniti d’America, seguiti dall’Inghilterra. La ricerca rischia di avere una sola lingua, l’inglese. Il senso della parola ‘ricerca’ subisce del resto nel mondo attuale delle modificazioni impreviste, la cui portata è difficile da valutare.

In questo contesto tormentato, una ripresa di rapporti storici, dai quali avevo cominciato questo discorso, può passare quasi inosservato. Nel nostro caso si tratta di quelli tra l’Italia settentrionale, e in particolare il Nord Est, e la Romania, in particolare la Transilvania. Già dagli anni Novanta c’è stata una pacifica, ma imponente, invasione industriale a senso unico, dal Veneto alla Transilvania, con baricentro nella sua fascia occidentale. Produzione industriale, commercio, logistica, occupazione. Benissimo, ma non è tutto. Le iniziative culturali corrispondenti non sono certo state numerose. Tuttavia non sono nemmeno mancate del tutto, anche se la disattenzione dei media in materia è stata sovrana.

In un registro ideale delle iniziative culturali bilaterali, andrebbe collocato anche questo libro con il convegno che l’ha preceduto. Questo libro è frutto della collaborazione ormai consolidata tra le università di Oradea e di Padova, sorta per l’iniziativa di alcuni professori, ma il cui presupposto sono gli

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accordi istituzionali tra gli Atenei. Nato come incontro tra storici di Oradea e filologi di Padova, il tema della Giornata di studi padovana (che si è svolta il 17 novembre 2009) non poteva che essere interdisciplinare. Si è scelto di mettere a fuoco le molte valenze e dimensioni del documento storico. Intanto un secondo convegno, che si è già svolto a Oradea (dal 4 al 7 novembre 2010), ha avuto per soggetto la triade Storia, Letteratura, Politica.

Sfogliando le pagine di questo libro, che contiene gli atti del primo dei due convegni, si vede che il tema è stato quanto mai produttivo: il documento storico è stato messo in rapporto con la retorica (intesa come ars retorica), la filologia testuale, la lessicologia, l’antropologia, l’archeologia. I soggetti delle ricerche si estendono su un periodo molto lungo che va dal Medioevo al passato più recente, l’età comunista in Romania. Meno eterogenea è la localizzazione, che riguarda l’area rumena, a parte i due studi di Alvaro Barbieri e Alvise Andreose dedicati rispettivamente alla cosiddetta Quarta Crociata, deviata dai Veneziani da Gerusalemme a Costantinopoli, e al viaggio del francescano Odorico da Pordenone in Oriente. Questa volta l’Oriente europeo è superato, si va verso la Cina. Siamo in quest’ultimo caso, con Odorico come con il più famoso Marco Polo, veramente ai prodromi dell’attuale globalizzazione.

Non si può negare che il libro, così come si offre al lettore, si sviluppi in modo centrifugo. Ma certe costanti ritornano. La più rilevante mi sembra quella che è cronologicamente l’ultima: il Comunismo. Ma procediamo per ordine.

Lo studio di Florin Sfrengeu (Istoriografie şi arheologie: informaţii din Gesta Hungarorum a lui Anonymus privind ducatul lui Menumorut şi cercetările arheologice de la Biharea) mette in rapporto le risultanze delle cronache ungheresi con alcuni risultati della ricerca archeologica. Ci

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troviamo nel campo irto di insidie e difficoltà di un’età, come quella che si muove tra tarda antichità e Medioevo, che chiede alla storia di scoprire fatti poco conosciuti o di far luce su avvenimenti controversi prima, naturalmente, di poterli interpretare. La collaborazione tra tipi diversi di fonti si impone, e Florin Sfrengeu ce ne dà un esempio convincente.

Con il lavoro di Alvise Andreose, invece, siamo già dentro i confini di un periodo ben conosciuto, il Trecento: ma la sua relazione di viaggio (di poco posteriore a quella di Marco Polo) si addentra in terre e civiltà sconosciute. Andreose, che ha fornito nel 2000 un’edizione della versione toscana del viaggio di Odorico (Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell'Itinerarium di Odorico da Pordenone, Padova, Centro Studi Antoniani, 2000) conosce ogni piega di questo testo. Dietro al testo latino della redazione originale, eseguita da un confratello di Odorico, Guglielmo da Solagna, un udito filologicamente affilato come quello di Andreose può sentire la voce di Odorico che gli detta il testo non in latino, ma in volgare.

Il terzo tassello medievale è costituito dallo studio di Alvaro Barbieri, che legge e interpreta alcune pagine de La conquête de Constantinople di Geoffroy de Villehardouin (post 1207), quelle che contengono il discorso del vecchio Doge cieco Enrico Dandolo, decisivo per la deviazione della Crociata di Francesi e Veneziani a Costantinopoli. Barbieri si inserisce autorevolmente nel dibattito sull’interpretazione dei discorsi che costellano la storiografia antica e rinascimentale, e in realtà, come si vede qui, non mancano nemmeno nelle cronache medievali. Si tratta di riproduzioni, magari approssimative, di veri discorsi pronunciati dai protagonisti, oppure di opere create di sana pianta dallo storico? Alvaro Barbieri propone una chiave politica di lettura, che rende le parole del Doge, e in realtà tutta le messa in scena del suo

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discorso nella Basilica di San Marco, funzionale alla prospettiva storica (ma si potrebbe dire anche politica, cioè “di parte”) dello storico Villehardouin, che è stato anche un protagonista della storia che racconta.

Due lavori, quelli di Mircea Brie (Registrele parohiale de stare civilă din Transilvania în a doua jumătate a secolului al XIX-lea. Semnificaţie documentară) e di Barbu Ştefănescu (Însemnările olografe de pe cărţile bisericeşti - puterea de informare asupra sensibilităţii lumii rurale) trattano del mondo tradizionale romeno nella sua lunga durata. Il primo studio è un’epsosizione chiara dei metodi e della storia delle ricerche di demografia storica, in particolare del contributo che questa metodologia di studi, che oggi ha uno statuto scientifico riconosciuto sul piano internazionale, porta alla conoscenza della famiglia come cellula essenziale del mondo romeno tradizionale. Questo mondo è uno specchio fedele di quella società agricola che, fino a pochi decenni fa - come aveva notato tra i primi Mircea Eliade - si presentava come lo strato di base uniforme in tutta l’area euro-mediterranea e oltre. Su questo stesso tema incide in profondità lo studio magistrale di Barbu Ştefanescu, dedicato alla lettura delle glosse contenute a margine dei libri, prevalentemente di devozione, che circolano nell’ambiente contadino romeno tra il Cinquecento e la prima parte del Novecento. Un periodo molto lungo, ma durante il quale la mentalità colettiva è rimasta complessivamente stabile. È impossibile dare qui un’idea dei temi che lo studioso sa far emergere dalle glosse ai libri e di come queste glosse illuminino la mentalità della collettività, peraltro prevalentemente analfabeta, che accoglie e conserva con sé come un tesoro prezioso il libro.

Il contributo di Dan Octavian Cepraga (Storia, retorica e linguaggio del patriottismo: la battaglia di Călugăreni in Românii supt Mihai-Voievod Viteazul) illumina il discorso storico e patriottico di Nicolae Bălcescu alla luce della retorica.

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Non si tratta di questa o quella figura di parola o di pensiero. Cepraga lavora con le categorie maggiori della retorica antica, aristotelica, e di quella moderna, neoaristotelica (Perelman). Mostra persuasivamente, in particolare, come le descrizioni e le narrazioni in Bălcescu siano funzionali alla sua argomentazione politica. La storiografia patriottica di Bălcescu si risolve in testi splendidamente persuasivi, funzionali alla missione nazionale che il grande storico e patriota (storico-patriota) si proponeva. Bălcescu non ha cessato di essere letto in Romania né dopo la realizzazione dell’unità nazionale né dopo l’avvento del Comunismo. Naturalmente ogni età e ogni movimento di idee lo ha letto a modo suo e, si può anche dire, lo ha tirato dalla propria parte. Così, scrive Cepraga, «la fervida eloquenza patriottica e la spiccata componente messianica dell’opera hanno giocato un ruolo decisivo nella sua ricezione, favorendo, in particolare, l’orgia di manipolazione ideologica alla quale sono stati sottoposti gli scritti e la figura di Bălcescu negli anni del regime comunista».

Si arriva così al Comunismo in Romania, al quale sono dedicati in questo libro due contributi. A fare da ponte con il tema precedente si colloca un importante lavoro di Roberto Scagno, Le nozioni di "românism" e "suflet românesc" nella cultura romena tra le due guerre mondiali e le loro derivazioni postbelliche. Questo studio mostra come in Romania, come del resto in Germania e in Russia e in altri paesi, tra Ottocento e Novecento, e con particolare intensità nel periodo interbellico, si sono eretti in ideologia i ‘valori’ tradizionali del mondo rurale, non senza deformarli e strumentalizzarli, nella ricerca, a volte ossessiva, della specificità nazionale ed etnica. Nel Dopoguerra comunista, sostiene l’autore, queste tendenze ideologiche, benché del tutto incompatibili con il Marxismo, non cessano di essere attive.

Il primo studio che si muove all’interno del mondo comunista è quello di Sorin Şipos, dedicato allo storico e

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uomo politico Silviu Dragomir (Silviu Dragomir e la Securitate: le note informative del dossier di pedinamento, 1957-1962): basato sui rapporti della famigerata ‘Securitate’, mostra al microscopio le tecniche di osservazione e intervento della polizia politica del regime comunista in Romania. Attivo politicamente nel Partito Nazionale Cristiano, negli anni Trenta e Quaranta, Silviu Dragomir subisce all’avvento del regime comunista una carcerazione di 6 anni. Liberato nel 1955, viene sottoposto a una ‘rieducazione’ ideologica che lo riorienti politicamente verso il marxismo, secondo le linee di partito. Viene inserito ben presto in un organismo di ricerca storica a Cluj, dove può, seppure con limitazioni, continuare le proprie linee di ricerca storica precedente. La polizia progetta anche di arruolarlo come agente, ma a un certo punto desiste da questo progetto. È chiaro che le varie mosse degli agenti seguono una procedura precostituita, ma i pareri e le relazioni dei vari agenti che lo sorvegliano passo per passo sono tutt’altro che uniformi, e tradiscono perfino un diverso grado di convinzione e di accanimento. Şipos ci concede per un momento di poter entrare, come nel film Le voci degli altri di Florian Henckel, negli spazi segreti della Securitate, nelle sue stanze d’ascolto e perfino nelle discussioni interne. Ci fa intravedere persino, sempre come in quello straordinario film, la possibilità che, accanto a tanti fanatici e opportunisti, esista qualche securista buono!

Lo studio di Antonio V. Faur (Consideraţii în legătură cu termenii de bandiţi, duşmani şi terorişti utilizaţi de autorităţile comuniste împotriva adversarilor politici, 1947-1950), ci porta invece al cuore dell’anima sovietica e internazionalista del Comunismo romeno. Il campo semantico dell’avversario del Comunismo è studiato attraverso le diverse espressioni lessicali impiegate dai rappresentanti del Partito per designare gli avversari politici, rappresentati come mortali nemici e criminali. Il repertorio rumeno è parte integrante

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dell’arsenale politico e propagandistico che, fissato a Mosca, era a disposizione di tutti i partiti comunisti al potere (più sfumato e meno manicheo era quello dei Comunisti all’opposizione, come sanno i lettori italiani che hanno l’età anagrafica per ricordarsene). Una delle espressioni chiave, riportate da Faur, per designare l’anticomunista era ‘nemico del popolo’. È curioso osservare che questa espressione era stata usata dal grande commediografo norvegese Henrik Ibsen per il protagonista del suo dramma omonimo (1882). Qui il dottor Stockmann era in realtà un amico e benefattore della comunità in cui operava, ma veniva additato come ‘nemico del popolo’ dall’ipocrisia e dallo spirito speculativo dei suoi concittadini. Ma il dramma di Ibsen, nonstante il suo impegno sociale e la sua immensa popolarità europea, non doveva far parte del canone comunista. Così la langue de bois / limba de lemn aveva fissato in un cliché il significato letterale di questo sintagma e non il suo uso citazionale, che rovesciava il significato proprio.

Questi ultimi studi sono solo la punta visibile di una quantità di studi, molti dei quali di grande valore, che la cultura romena ha dedicato in questi ultimi anni al proprio passato comunista, e che disgraziatamente hanno poca possibilità di essere conosciuti, e che in molti casi difficilmente verrebbero veramente ‘capiti’, da chi non ha avuto un’esperienza diretta del Comunismo. Ma per colmare le difficoltà del dialogo non resta che continuare a parlarsi, come si è fatto nel Colloquio che sta alla base di questo libro.

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I.

TESTI E FONTI

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ALVARO BARBIERI

Ideologia e persuasione: la parola dei capi in Geoffroy de

Villehardouin

Che un testo storico – appartenente a qualsivoglia epoca o civiltà – sia proficuamente analizzabile tanto nel suo significato documentario quanto nella sua specificità letteraria potrebbe sembrare un asserto così banale da sfiorare il truismo. Per entro gli orizzonti epistemologici della modernità scientifica, siamo abituati a considerare ogni oggetto testuale come legittimo argomento di studio abbordabile da una pluralità di prospettive disciplinari, sicché, ad esempio, una scrittura cancelleresca medievale pubblicata e riguardata dall’erudizione settecentesca come fonte per la storia d’Italia o di Francia può rientrare oggidì nel dossier di un dialettologo. Esistono però alcuni testi che, per certe loro peculiarità, si situano in un punto critico d’intersezione tra le ragioni della storia e quelle delle scienze letterarie, reclamando l’incrocio dei due punti di vista e sollecitando pratiche di ricerca multiprospettica che valorizzino la portata del documento sia nella sua dimensione testimoniale che in quella – diciamo così – estetica e linguistica. Attorno a testi di tal genere si addensano gli interventi e le riflessioni confluiti nel presente volume.

All’interno della problematica che ho appena evocato, La conquête de Constantinople di Geoffroy de Villehardouin (post 1207) si pone come un caso di studio davvero paradigmatico. La natura documentaria e il pregio storiografico di questa cronaca in lingua d’oïl sono universalmente riconosciuti. In una recente, equilibrata rassegna della letteratura primaria sulla quarta crociata, Alfred J. Andrea ha

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ribadito la centralità della testimonianza di Villehardouin, generalmente più ricca, dettagliata e puntuale delle altre fonti1. Attore di primo piano della complessa vicenda che portò alla conquista di Costantinopoli da parte dell’armata franco-veneziana (1204), il Maresciallo di Champagne ci ha lasciato un resoconto dei fatti sorprendentemente preciso nei riferimenti cronologici e molto affidabile nelle stime quantitative. È probabile che l’esattezza nei dati numerici non sia estranea alle funzioni logistiche svolte dal cronista. Scritto da un ufficiale di rango elevato che partecipava ai consigli di guerra con i capi dell’armata, il libro di Villehardouin si presenta come un informatissimo rendiconto dall’alto e dall’interno del potere, un referto particolareggiato che è stato e resta l’indispensabile base documentaria di ogni ragionamento sulla cosiddetta ‘crociata deviata’. Le ricostruzioni fattuali della spedizione franco-veneziana si fondano per lo più sui mémoires di Villehardouin, controllati e controbilanciati con lo sguardo dal basso di Robert de Clari, con le voci diversamente intonate delle cronache latine e, ovviamente, con il punto di vista bizantino di Niceta Coniata.

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la cronaca di Villehardouin soltanto nel suo statuto di fonte-principe per lo studio della quarta crociata. È noto, infatti, che La conquête de Constantinople è uno dei primissimi esempi di prosa oitanica e che proprio per questo occupa un posto importante nelle storie letterarie di Francia. Nei manuali universitari di letteratura francese medievale, l’opera di Villehardouin – assieme a quella di Robert de Clari – ha sempre un suo spazio nei capitoli 1 Donald E. Queller and Thomas F. Madden, The Fourth Crusade. The Conquest of Constantinople. Second Edition. With an essay on primary sources by Alfred J. Andrea, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1997, pp. 299-318. Sulla precellenza di Villehardouin si veda anche Marco Meschini, 1204: l’incompiuta. La quarta crociata e le conquiste di Costantinopoli, Milano, Àncora, 2004, Appendice. Le fonti della crociata, pp. 229-236.

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dedicati alla nascita della prosa d’arte agli inizi del Duecento2. D’altronde, il libro del Maresciallo di Champagne e i primi romanzi in prosa di materia bretone sono accomunati non soltanto da una forte rivendicazione di autenticità e verità, ma anche da vistose analogie nelle strutture frastiche e dall’impiego della tecnica narrativa dell’entrelacement3.

Insomma: spinti da motivazioni diverse, studiosi della letteratura anticofrancese e storici hanno consacrato ricerche approfondite ai mémoires di Villehardouin. Lo statuto scientificamente ancipite dell’opera, oggetto dell’interesse convergente di due prestigiosi rami dell’istituzione medievistica, trova puntuale conferma quando si consideri l’edizione di riferimento dell’opera, curata sì da un littéraire come Edmond Faral, ma apparsa in una collana intitolata «Les classiques de l’histoire de France au Moyen Âge»4. Tale duplicità di visuali e di approcci ha le sue ragioni profonde nell’interferenza tra referenti storici e modelli letterari rilevabile non solo nella Conquête de Constantinople, ma più in generale nella produzione storiografica oitanica e particolarmente nelle relazioni di crociata. È quanto ha osservato Alberto Limentani con uno dei suoi gesti critici pacatamente categorici5:

2 Michel Zink, Le Moyen Âge: littérature française, Nancy, Presses Universitaires de Nancy, 1990 (trad. it. La letteratura francese del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1992, da cui si cita), pp. 87-94; La letteratura francese medievale, a cura di Mario Mancini, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 360-364. 3 Ferdinand Lot, Il principio dell’«entrelacement» [1918], in Il romanzo, a cura di Maria Luisa Meneghetti, Bologna, il Mulino, pp. 299-311. 4 Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, éditée et traduite par Edmond Faral, 2 voll., Paris, Les Belles Lettres, 1961. 5 Alberto Limentani, Così parlò Enrico Dandolo. Registrazione storiografica ed elaborazione letteraria fra conquista di Costantinopoli e leggenda di Alessandro, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, t. II, Modena, Mucchi, 1989, pp. 717-726, p. 718.

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Nello studio della storiografia d’oïl, e specie di quella sorta e sviluppatasi nell’Oriente mediterraneo, si ripropone di continuo, e in termini più specifici, quel dilemma intorno alla natura dell’oggetto testuale, alla sua ambiguità fra denotazione di dati storici immediati e topica letteraria, che al romanista già si presenta, per il secolo precedente, nell’esame di canzoni di gesta, cronache in versi, ecc. Con il presente intervento vorrei mostrare che questa

natura ambivalente della cronaca di Villehardouin rende particolarmente remunerativi approcci e ipotesi di lettura in cui trovino spazio, secondo un modello di ricerca integrata, sia le istanze della storia che la dimensione letteraria. A questo scopo, concentrerò la mia attenzione sul ruolo assegnato alla parola pubblica dei capi della spedizione. I discorsi dei grandi baroni e, più in generale, la complessa fenomenologia dell’oratio recta nella prosa di Villehardouin sono già stati oggetto di analisi approfondite da parte di Jean Frappier, Peter M. Schon, Jeanette Beer e Gérard Jacquin6. Lasciando da parte gli aspetti più strettamente linguistici e la ritornante questione dei rapporti con la tradizione epica, mi restringerei qui a richiamare alcuni punti cruciali del dibattito critico che rivestono una notevole rilevanza nel quadro del mio ragionamento.

Per chi intenda mettere a fuoco l’intreccio dei fattori storici e delle dinamiche letterarie nella cronaca di

6 Jean Frappier, Les discours dans la chronique de Villehardouin [1946] e Le style de Villehardouin dans les discours de sa chronique [1946], in Id., Histoire, mythes et symboles. Etudes de littérature française, Genève, Droz, 1976, pp. 55-71 e 73-83; Peter M. Schon, Studien zum Stil der frühen französischen Prosa (Robert de Clari, Geoffroy de Villehardouin, Henri de Valenciennes), Frankfurt a. M., Klostermann, 1960, pp. 185-203; Jeanette M. A. Beer, Villehardouin, epic historian, Genève, Droz, 1968, pp. 82-97; Gérard Jacquin, Le style historique dans les récits français et latins de la quatrième croisade, Paris/Genève, Champion/Slatkine, 1986, pp. 401-485.

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Villehardouin, una questione nodale è rappresentata dal rapporto intercorrente tra le allocuzioni fissate nel testo e le parole effettivamente pronunciate dai capi della spedizione. D’altra parte, la credibilità dei discorsi pubblici leggibili nella storiografia delle epoche premoderne è un problema assai dibattuto e ben lungi dall’essere risolto. Qual è il grado di attendibilità degli storici dell’antichità e dei cronisti medievali allorché riportano l’allocuzione di un comandante al suo esercito o l’ambasceria di un messaggero? In che misura le nostre fonti rispecchiano le parole realmente dette? E quanto avranno pesato, invece, le convenzioni retoriche dei generi deliberativo ed epidittico? Insomma: siamo di fronte a documenti storici fededegni o ad artefatti stilisticamente elaborati ascrivibili quasi per intero alla fiction? Abbiamo a che fare con arringhe autentiche o fittizie? E ancora: che rapporto c’è tra le concioni dei capi inserite in una cronaca e le grandi orazioni di parata messe in bocca agli eroi delle chansons de geste e ben presenti nella retorica epica fin nei poemi italiani in ottave7? Come sempre accade nelle discipline idiografiche, che osservano i fatti nella singolarità delle loro determinazioni storiche, non è possibile generalizzare, ma si deve affrontare il problema caso per caso e testo per testo, con l’ovvia avvertenza che non sempre si riuscirà a fare chiarezza e che spesso bisognerà accettare ipotesi di lavoro sfumate e non univoche. Alcuni recentissimi contributi sulla adlocutio militaris prodotti nel settore dell’antichistica suggeriscono di superare la spinosa querelle sulla realtà storica dei discorsi alle truppe guardando alle poste in gioco ideologiche di cui tali discorsi si fanno

7 Fondati sulle risorse di un’eloquenza lussureggiante e sostenuta, le arringhe poste sulle labbra dei condottieri epici sono «vere e proprie cerimonie culturali», proprio come certi duelli regolati da un apparato normativo di complessa e sontuosa ritualità (cfr. Franco Fortini, Dialoghi col Tasso, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo e Donatello Santarone, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 82).

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portatori nelle opere che li tramandano8. L’antitesi tra veracità e finzione, tra fedeltà mimetica ed elaborazione artistica, sarà dunque da oltrepassare tenendo conto della tensione che si instaura tra vari elementi: le ritualità dei protocolli sociali e relazionali nel mondo antico, la cristallizzazione di genere del discorso esortativo apud milites, il peso della finzione letteraria, la riformulazione ideologica attuata nel testo inglobante. A patto di tener conto della complessa interazione di questi fattori, possiamo e dobbiamo utilizzare i discorsi di Tucidide e di Tacito come documenti storici. Non siamo lontani da quanto ha scritto magistralmente Luciano Canfora a proposito della parola pubblica fermata nel racconto storiografico classico: «Se [...] vogliamo farci un’idea di come parlavano Pericle, Alcibiade, Cleone, Nicia, Brasida, Atenagora siracusano ecc., dobbiamo ricorrere a Tucidide, che intuì l’importanza del ragionamento politico e della parola pubblica, e dei suoi effetti, come decisivo fatto storico»9.

Negli accompagnamenti esegetici che corredano la sua edizione, Edmond Faral ha mostrato la plausibilità storica di alcuni dei discorsi pubblici contenuti nella Conquête de Constantinople. Nei pochi luoghi in cui è possibile istituire il confronto con documenti cancellereschi, si riscontrano precise ed estese concordanze, che non possono essere il frutto del caso. Ad esempio, le formule di giuramento che sanzionarono l’accordo franco-veneziano per il nolo della flotta sono riprese con fedeltà, talvolta quasi alla lettera, nella cronaca di

8 Si vedano i contributi di Giancarlo Abbamonte, Lorenzo Miletti e Claudio Buongiovanni nel volume miscellaneo Discorsi alla prova. Atti del Quinto Colloquio italo-francese Discorsi pronunciati, discorsi ascoltati: contesti di eloquenza tra Grecia, Roma ed Europa (Napoli - S. Maria di Castellabate [Sa], 21-23 settembre 2006), a cura di Giancarlo Abbamonte, Lorenzo Miletti, Luigi Spina, Napoli, Giannini, 2009, pp. 27-86. 9 Luciano Canfora, Prima lezione di storia greca, Roma-Bari, Laterza, 20044, p. 57.

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Villehardouin10. Sempre secondo Faral, la precisione e la quantità dei materiali informativi riversati nella cronaca inducono a supporre che il Maresciallo di Champagne, data la sua posizione eminente, non soltanto tenesse sott’occhio un taccuino di note e appunti redatti durante la spedizione, ma avesse accesso a diplomi e carte ufficiali11. La disposizione ordinata delle notizie e la struttura saldamente compaginata del racconto fanno pensare ad una stesura posata, che puntella e integra i ricordi personali con l’ausilio di documenti scritti.

Sennonché, tolte queste poche evidenze positivamente riscontrabili, il corpus di orazioni pubbliche della cronaca non è verificabile nella sua attendibilità storica. L’unico dato certo è che, nella loro estrema brevità, le concioni attribuite al doge di Venezia e alle altre figure di primo piano coinvolte nella narrazione non possono costituire in alcun modo una trascrizione completa dei discorsi autenticamente pronunciati. Con ogni evidenza, il memorialista non riproduce verbatim le allocuzioni dei grandi della spedizione, ma le asciuga e le condensa, spremendone l’essenziale. Coerentemente con l’economia di mezzi e l’austerità espressiva che contraddistinguono il suo libro ad ogni livello, Villehardouin sintetizza il contenuto di un intero discorso nel giro di qualche rigo, concentrando a volte quella che dovette essere un’articolata argomentazione in una sola frase caratteristica e impressiva. Confrontando questi esiti con le tradizioni precedenti e coeve in lingua d’oïl, Frappier ha potuto avvicinare la Conquête de Constantinople alle prose romanzesche della Queste del Saint Graal e della Mort le roi Arthur. Queste opere prosastiche del Duecento modellano il discorso diretto con una sobrietà cui si contrappongono gli ampi sviluppi e il lussuoso ornatus delle allocuzioni contenute

10 Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, éd. Faral, cit., t. I, pp. 217-218. 11 Ivi, Introduction, pp. V-LXVII, pp. XIV-XVI.

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nella storiografia francese in versi, sia in Wace che in Benoît de Sainte-Maure. La tendenza all’essenzialità di Villehardouin sarebbe da un lato la conseguenza di una tecnica compositiva ancora insufficientemente smaliziata, dall’altro lato il riflesso di una poetica comune alle prose del XIII secolo, fondata su un ideale di eloquenza privo di eccessi retorici e senza ampollosità. È fuor di dubbio che queste considerazioni di Frappier siano preziose per collocare la Conquête de Constantinople nel contesto della letteratura francese del Duecento, ma ho l’impressione che la secchezza e il laconismo dei discorsi riportati da Villehardouin siano da riportare, su un piano più generale, alla speditezza narrativa tipica dei diari di guerra12. La rapidità compendiosa dello storiografo militare sfronda l’inessenziale, allineando solo le informazioni funzionali alla consequenzialità del resoconto.

L’altra delicatissima questione sollevata da Frappier nel 1946 e costantemente dibattuta negli studi successivi è quella che riguarda la progressiva rarefazione dell’oratio recta nella cronaca. Richiamo telegraficamente i termini della questione. Suddividendo i cinquecento paragrafi dell’opera in cinque blocchi da cento13 e calcolando le quote di testo in discorso diretto in rapporto alla narrazione, si ottengono i seguenti dati percentuali: 19,5%; 13,5%; 8%; 2,5%, 1,5%14. Come si vede, nella sezione iniziale dell’opera il peso del discorso diretto è pari all’incirca ad un quinto del totale, mentre si riduce a percentuali molto basse negli ultimi duecento paragrafi. Secondo Frappier15, l’impiego sempre

12 Sulla Conquête de Constantinople come memoriale di guerra, cfr. Beryl Smalley, Storici nel Medioevo, Napoli, Liguori, 1979, pp. 189-190. 13 Qui e di seguito, i riferimenti alla cronaca e le citazioni sono conformi al testo e alla paragrafatura della succitata edizione di Edmond Faral: Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, cit. 14 Questi dati quantitativi sono desunti da Schon, Studien zum Stil der frühen französischen Prosa, cit., p. 190. 15 Frappier, Les discours dans la chronique de Villehardouin, cit., pp. 69-71.

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meno frequente dell’oratio recta dipenderebbe dall’assunzione di un punto di vista più astratto e intellettuale, ossia da una visione storiografica più matura e capace di dominare la complessità delle situazioni politiche e degli eventi militari descritti. Determinato a costruire una narrazione fortemente coesa e imperniata su una ferrea concatenazione logica di fatti, Villehardouin tenderebbe a privilegiare lo stile indiretto, che si fonde nella narrazione senza spezzare il ritmo della sequenza evenemenziale. Il discorso diretto, che fa coincidere almeno convenzionalmente il tempo della storia con quello del racconto, produrrebbe infatti degli arresti, interrompendo la rettilinea progressione degli accadimenti e la loro rigorosa interconnessione sulla base di rapporti causa/effetto. Il diradarsi dell’oratio recta rispecchierebbe dunque un’opzione consapevole: quella di limitare il ruolo dell’eloquenza per mettere in primo piano le ragioni della storia. A questa proposta critica – sottile e intelligente come ogni idea uscita dalla penna di quel gigante della romanistica che è stato Jean Frappier – mi sembra però preferibile l’ipotesi avanzata da Gérard Jacquin16, che ha suggerito un convincente rovesciamento di prospettiva. La preferenza accordata all’oratio obliqua e l’uso limitato del discorso diretto nella seconda metà della cronaca sarebbero da attribuire meno ad un mutato atteggiamento di Villehardouin verso la sua materia che a un vero e proprio cambiamento di soggetto. La prima porzione dell’opera ha, infatti, una marcata impronta politico-diplomatica e riferisce un gran numero di trattative, accordi, controversie e ambascerie. Per contro, i §§ 300-500 fanno prevalere nettamente il racconto veloce degli spostamenti di truppe, dell’attività ossidionale e

16 Cfr. Jacquin, Le style historique, cit., pp. 477-485. Meno rilevanti le osservazioni di Schon e Beer: cfr. Schon, Studien zum Stil der frühen französischen Prosa, cit., pp. 190-191; Beer, Villehardouin, epic historian, cit., pp. 92-94.

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dei combattimenti. L’esiguità delle forze franco-veneziane e la loro dissociazione tra gli scenari europei della Tracia e lo scacchiere dell’Asia Minore costringono l’imperatore latino e gli altri capi dell’armata ad un frenetico attivismo e ad un continuo andirivieni da un fronte all’altro. La Conquête de Constantinople appare così spartita in due sezioni che corrispondono a due distinte modalità narrative: nei §§ 1-299 dell’opera predomina il registro politico-strategico dei negoziati, dei preparativi logistici e delle operazioni militari in grande stile; nei §§ 300-500 troviamo invece il registro spicciativo del bollettino di guerra, che mostra la drammatica situazione dei Franco-veneziani, inchiodati sulle rive del Bosforo e costantemente alle prese col problema irrisolvibile della carenza di effettivi. Strettamente connessa col primo di tali registri17, l’oratio recta compare di rado nel secondo.

Dopo aver fornito le coordinate preliminari della questione, vorrei offrire una campionatura di esempi atti ad illustrare la densità di implicazioni letterarie, riferimenti storici e significati ideologici sottesi alla parola pubblica dei capi nella Conquête de Constantinople.

Comincerei con la famosa allocuzione del doge al popolo veneziano riunito nella basilica di San Marco18:

17 La prima metà della cronaca assegna un ruolo di primo piano alla parola conflittuale e mediatrice: si pensi solo alla trattativa con i Veneziani per il nolo della flotta, ai tesi dibattiti sulle deviazioni verso Zara e Bisanzio o all’intimazione dei crociati all’insolvente Alessio IV. Nel mondo premoderno, l’impegno contrattuale, l’accordo giurato e vincolante, la pattuizione di un’alleanza e la dichiarazione di guerra sono momenti forti di negoziazione e di scontro che si esprimono tipicamente nelle pratiche dello scambio verbale. Non sorprende perciò che in queste porzioni di racconto l’oratio directa raggiunga i suoi picchi percentuali. 18 Qui e innanzi, la traduzione italiana riprodotta tra parentesi quadre è dedotta dalla seguente edizione: Geoffroy de Villehardouin, La conquista di Costantinopoli, a cura di Fausta Garavini, Milano, SE, 20082.

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64. Lors furent assemblé a une diemenche a l’iglise Saint Marc, si ere une mult grant feste, et i fu li pueple de la terre et li plus des barons et des pelerins.

65. Devant ce que la grant messe conmençast, li dux de Venise, qui avoit nom Henris Dandole, monta eu leteril et parla al pueple et lor dist: «Seignor, acompaignié estes alla meillor gent du monde et por le plus halt afaire que onques genz entrepreïssent. Et je sui vialz hom et febles, et avroie mestier de repos; et maaigniez sui de mon cors. Mes je voi que nus ne vos savroit si governer et si maïstrer con ge, qui vostre sire sui. Se vos voliez otrier que je preïsse le signe de la croiz por vos garder et por vos enseignier, et mes filz remansist en mon leu et gardast la terre, je iroie vivre ou morir avec vos et avec les pelerins».

66. Et quant cil oïrent, si s’escrierent tuit a une voiz: «Nos vos proions por Dieu que vos l’otroiez et que vos le façois et que voz en viegnés avec nos».

[64. Allora si raccolsero una domenica alla chiesa di San Marco, ed era grandissima festa, e c’era la popolazione del paese, e la maggior parte dei baroni e dei pellegrini.

65. Prima che cominciasse la grande messa, il doge di Venezia, che aveva nome Enrico Dandolo, montò sul pulpito e parlò al popolo e disse loro: «Signori, siete alleati della miglior gente del mondo e per l’impresa più nobile che mai gente abbia tentato. E io sono vecchio e debole e avrei bisogno di riposo; e sono infermo. Ma vedo che nessuno saprebbe governarvi e dirigervi come me, che sono vostro signore. Se voleste consentire a che io prendessi il segno della croce per difendervi e guidarvi, e mio figlio rimanesse al mio posto e difendesse il paese, andrei a vivere o morire con voi e con i pellegrini».

66. E quando questi ebbero inteso gridarono tutti ad una voce: «Vi preghiamo in nome di Dio perché acconsentiate, e facciate così e veniate con noi».] Incassata l’entusiastica manifestazione di consenso che

gli viene tributata dal popolo veneziano, il doge scende dal pulpito e va ad inginocchiarsi dinanzi all’altare per ricevere la

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croce, tra la commozione e il pianto di tutti gli astanti (§§ 67-68). Questa grande sequenza, che mette in primo piano i prestigi rituali della voce, è probabilmente la più riuscita scena collettiva di tutta la cronaca, sia per l’intensa concentrazione emozionale creata attorno all’avvenimento sia per l’impressione di solennità cerimoniale che scaturisce dai gesti e dalle parole di tutti i presenti. Un contributo decisivo alla produzione del pathos è dato dalla costruzione teatrale della sequenza, che sceneggia in forma drammatica il patto di fedeltà tra Enrico Dandolo e il popolo veneziano. All’orazione appassionata del doge risponde all’unisono il coro dei Veneziani riuniti in quel luogo altamente simbolico che è la Basilica di San Marco. Espediente antirealistico di ascendenza epica impiegato con frequenza da Villehardouin19, il discorso collettivo consiste di solito in una breve formula che si suppone pronunziata ad una sola voce da una folla di persone, per esprimere il pensiero o la volontà di un intero gruppo – un’armata, una schiera, una cittadinanza, ecc. – e sottolineare in tal modo una comunanza solidale di intenzioni o di sentimenti condivisi. Qui la vox populi, unitaria e unanime, è quella dei Veneziani, che ribadiscono la loro coesione identitaria, rinnovando altresì la loro fiducia verso il doge. I baroni francesi e i loro uomini restano sullo sfondo come testimoni muti e commossi del rito. A parte il ricorso a costrutti parallelistici («si governer et si maïstrer», «por vos garder et por vos enseignier») e l’abituale dilatazione iperbolica nel dire la difficoltà dell’impresa crociata («acompaignié estes alla meillor gent du monde et por le plus halt afaire que onques genz entrepreïssent»), la concione di Enrico Dandolo appare tutto sommato spoglia di orpelli retorici. L’elevatissima temperatura patetica del discorso è conseguita mediante

19 Sul discorso collettivo nella Conquête de Constantinople si veda soprattutto Frappier, Les discours dans la chronique de Villehardouin, cit., pp. 66-68.

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un’eloquenza della perspicuità che si appella meno all’elocutio che alla forza intrinseca degli argomenti e dei valori evocati: il senso del sacrificio personale, il patriottismo lagunare, l’importanza della posta in gioco, ecc. Alla mozione degli affetti concorre naturalmente l’ambientazione della scena: nemmeno un rigo è dedicato alla descrizione della Basilica di San Marco (le pause descrittive sono estranee al repertorio del nostro cronista militare), ma la sacertà del luogo, rinforzata dalla congiunzione con una festività liturgica («si ere une mult grant feste»), si riverbera sull’intera scena, proiettando sull’accordo con gli alleati transalpini un’aura di legittimazione religiosa. D’altronde, la magistrale regia del Dandolo ha congiunto in un’unica cerimonia di potente suggestione un atto eminentemente politico ed un altro di tipo rituale: la ratifica popolare dei patti franco-veneziani viene infatti a coincidere con la presa della croce da parte del doge.

Il rilievo assegnato all’evento non discende soltanto dall’ovvia esigenza di valorizzare uno dei momenti forti del racconto, ma rientra a pieno titolo nell’intenzione apologetica della cronaca di Villehardouin. È arcinoto che la Conquête de Constantinople può essere letta come un memoriale difensivo, che risponde punto per punto alle pesanti critiche rivolte contro lo stato maggiore crociato. L’attacco a Zara, la diversione a Bisanzio, la rinuncia a riprendere il viaggio verso la Terrasanta, l’acquiescenza nei confronti dei Veneziani e delle loro continue pretese, l’insaziabile cupidigia dei grandi baroni esercitata ai danni dei poveri cavalieri al momento di spartire il bottino: ecco le principali accuse mosse agli alti comandi dell’armata, accuse di cui si coglie un’eco precisa nel resoconto di Robert de Clari. Se leggiamo il libro di Villehardouin come una coerente e puntuale giustificazione delle scelte politico-militari fatte dai capi della spedizione, il discorso del doge nella Basilica di San Marco si carica di ulteriori significati. Il Maresciallo di Champagne si premura di farci sapere che,

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emulando il loro carismatico signore, i Veneziani si fanno crociati «a mult grant fuison et a grant plenté» (§ 68)20. La notazione è importante, perché permette di sottolineare il pieno coinvolgimento della Serenissima nel ‘passaggio’. Di qui in avanti i Veneziani non sono soltanto i fornitori della flotta oneraria: essi diventano a tutti gli effetti milites Christi, strettamente associati nell’impresa ai pellegrini francesi. Ma ciò che fa spicco nel nostro episodio è soprattutto la figura del doge, uomo ormai anziano e per di più cieco, e nondimeno provvisto di eccezionale energia fisica. L’arringa tesa e solenne del § 65 contribuisce a tratteggiare il ritratto morale del personaggio, ma è il § 67 a rivelarci il suo carisma, mostrandocelo in cima all’ambone di San Marco, mentre calamita lo sguardo della folla, ammaliata dalla strana bellezza dei suoi occhi spenti. La frase relativa «qui vialx hom ere et gote ne veoit», impiegata come formula epica e quasi con valore di epiteto ornante, introdurrà almeno tre volte, nel corso della cronaca, le apparizioni più significative del Dandolo21, che è indubitabilmente uno degli eroi di Villehardouin. Tanto con la parola come con l’azione, il doge non fa che palesare le sue virtù di condottiero prudente e, insieme, valoroso («sages et preuz», § 364). Questo panegirico di Enrico Dandolo, che ha nell’episodio della Basilica di San Marco uno dei suoi picchi patetici, rientra con ogni evidenza nelle strategie apologetiche messe in atto dal Maresciallo di Champagne per provare che era stato giusto e opportuno legare alla Serenissima le sorti della crociata. Membro della ristretta e prestigiosa ambasceria inviata a Venezia per trattare il nolo della flotta, Villehardouin ha un ruolo importante nei negoziati tra i baroni crociati e la

20 Lo straordinario carisma del doge e la sua capacità di stimolare, con la parola e con l’esempio, lo spirito di emulazione dei Veneziani sono illustrati in un celebre aneddoto di sapore epico raccontato ai §§ 173-174 della cronaca di Villehardouin. 21 Cfr. i §§ 173, 351 e 364, dove il cliché ritorna con minime varianti.

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Repubblica di San Marco. Non solo. Il Maresciallo appartiene al partito predominante che, in tutte le svolte decisive e gli snodi nevralgici della spedizione, sceglie di appoggiarsi agli alleati lagunari. È anche per tale ragione che la Conquête de Constantinople disegna un profilo glorificante del doge di Venezia22. In tale angolatura, assume valore simbolico quanto accade dopo la rovinosa sconfitta di Adrianopoli (14 o 15 aprile 1205), allorché le forze franco-veneziane rischiano di essere completamente annientate dai Valacco-Bulgari e dagli ausiliari comani di Giovanni Kalojan. Nel disordine della rotta, Villehardouin riesce a radunare i fuggitivi e gli scampati al disastro, organizzando un ripiegamento ordinato. In quel drammatico frangente, Villehardouin si assume il compito pericoloso di guidare la retroguardia e affida al Dandolo la testa della colonna (§§ 362-374). Autentico capolavoro di perizia tattica, la ritirata di Adrianopoli è presentata come l’impresa di due abili e sperimentati comandanti, che si stimano e lavorano in perfetta sintonia.

Gli studiosi di Villehardouin hanno osservato da tempo che la Conquête de Constantinople è pervasa da un punto di vista dicotomico che contrappone due schieramenti: da un lato ci sono i benintenzionati, che si sforzano in ogni modo di preservare la compattezza politica e l’unità militare della spedizione, contrastando con decisione le spinte centrifughe; dall’altro lato ci sono gli agenti dell’anarchia e della dissoluzione, che operano apertamente o nell’ombra per «despecier l’ost», ossia per minare irrimediabilmente la coesione del campo crociato23. Questa visione dualistica 22 Sulla celebrazione del doge e la «grandeur des Vénitiens» nei mémoires di Villehardouin, cfr. Jean Dufournet, Villehardouin et les Vénitiens, «L’information littéraire», 21, 1969, pp. 7-19 e Id., Les écrivains de la IV

e croisade. Villehardouin et Clari, 2 voll., Paris, Société d’édition d’enseignement supérieur, 1973, t. I, pp. 175-207. 23 Su questa costante quasi ossessiva della cronaca di Villehardouin, cfr. Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, chronologie et

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oblitera le sfumature e rappresenta la realtà storica secondo una logica che ammette solo i contrasti violenti di luce e ombra. In un saggio dedicato all’ideologia di Villehardouin, Paul Archambault ha parlato con ottime ragioni di «history in black and white», suggerendo che questa visione manichea possa trarre origine dalla mentalità tipica dei militari, i quali sono soliti rivestire il nemico dei simbolismi disforici della tenebra e del caos24. L’antitesi tra le forze dell’ordine e quelle dell’anomia assume di solito forma dialogica, cosicché i valori contraddittori e i punti di vista collidenti si polarizzano nel dibattito tra due posizioni in contrasto, con un forte effetto di messa in prospettiva. A più riprese, Villehardouin mette in scena il serrato conflitto di opinioni tra il suo partito – il cartello dei grandi baroni – e l’odiato clan dei ‘siriani’, cioè di coloro che si oppongono a qualsiasi diversione e insistono per un’immediata partenza alla volta della Terrasanta. Ebbene, in tutti questi casi, il Maresciallo di Champagne presenta la controversia in modo tale da deprezzare o silenziare le ragioni dei suoi avversari. La svalutazione degli argomenti messi in campo dai ‘siriani’ passa attraverso un’oculata gestione delle risorse retorico-stilistiche. Vediamo un esempio. Nel gennaio 1203, mentre l’armata sverna a Zara, giungono i messaggeri inviati da Alessio il giovane, che rivolgono ai pellegrini una proposta di accordo. Il principe greco chiede l’aiuto militare necessario a riottenere il trono di Bisanzio, promettendo in cambio enormi facilitazioni e favori. Tra i crociati si comincia a parlare della possibilità di fare rotta verso Costantinopoli. La discussione si accende e le posizioni

préface par Jean Dufournet, Paris, Garnier-Flammarion 1969, Préface, pp. 8-21, pp. 12-15; Geoffroy de Villehardouin, La conquête de Constantinople, présentation, établissement du texte, traduction, notes, bibliographie, chronologie et index par Jean Dufournet, Paris, GF Flammarion, 2004, Présentation, pp. 9-33, pp. 30-33. 24 Paul Archambault, Villehardouin: History in Black and White, in Id., Seven French Chroniclers. Witnesses to History, Syracuse (New York), Syracuse University Press, 1974, pp. 25-39, pp. 28, 32.

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ben presto si radicalizzano. Estrapoliamo dal testo i paragrafi che condensano il dibattito:

95. La ot parlé en maint endroit. Et parla l’abés de Vals, de l’ordre de Cystiaus, et cele partie qui voloit l’ost depecier; et distrent qu’il ne s’i accorderoient mie, que ce ere sor crestïens, et il n’estoient mie por ce meü, ainz voloient aler en Surie.

96. Et l’autre partie lor respondi: «Bel seignor, en Surie ne poez vos rien faire, et si le verroiz bien a cels meïsmes qui nos ont deguerpiz et il sont alé as autres porz. Et sachiés que par la terre de Babiloine ou par Grece iert recovree la terre d’oltremer, s’ele jamais est recovree; et se nos refusons ceste convenance, nos somes honi a toz jorz».

[95. Là si esposero diversi pareri. Parlarono l’abate di Vaux, dell’ordine di Cîteaux, e quelli del partito che voleva disgregare l’esercito; e dissero che non bisognava consentirvi perché questo significava andar contro a dei cristiani, e non era per questo che erano partiti, ma volevano andare in Siria.

96. E l’altro partito rispose loro: «Bei signori, in Siria non potrete far nulla e lo vedete bene da quelli che ci hanno abbandonato e sono andati ad altri porti. E sappiate che solo attraverso la terra di Babilonia o la Grecia potrà essere riconquistata la terra d’oltremare, se mai sarà riconquistata; e se rifiutiamo questo fatto, siamo per sempre maledetti».] Squalificati da una ‘didascalia’ introduttiva che li

presenta come fomentatori di divisioni e disordini, i ‘siriani’ parlano per primi: i loro argomenti sono riferiti dal cronista in modo estremamente conciso e in stile indiretto. I sostenitori della diversione verso Costantinopoli, che godono del vantaggio dell’ultima parola e possono dunque confutare le tesi dei loro avversari, non solo esprimono la loro opinione in modo più esteso, ma lo fanno mediante l’oratio recta, che conferisce alle loro ragioni maggior rilievo e incisività25. Non è 25 Cfr. al riguardo Frappier, Les discours dans la chronique de Villehardouin, cit., pp. 65-66; Jacquin, Le style historique, cit., pp. 468-469.

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difficile capire a quale dei due schieramenti vadano le preferenze di Villehardouin. Come si vede, le divisioni presenti nel campo crociato e le scelte personali dell’autore si traducono in precise strategie retoriche e discorsive, che si possono smontare con gli strumenti dell’analisi stilistica.

L’uso di contrapporre stile diretto e indiretto per enfatizzare un punto di vista a scapito di un altro è una tecnica che Villehardouin mette a frutto anche in altri passaggi della cronaca. Un caso patente è offerto dalla controversia che conduce alla rottura, poi ricomposta, tra il marchese Bonifacio di Monferrato e Baldovino di Fiandra, imperatore latino di Costantinopoli:

276. «Sire, fait il, novelles me sunt venues de Salenike, que la gent del païs me mandent que il me recevront volentiers a seignor. Et je en sui vostre hom, et la tieng de vos, si vos vuel proier que vos me laissiez aler; et quant je serai saissiz de ma terre et de ma cité, je vos amenrai les vïandes encontre vos et venrai appareilliez de faire vestre conmandement. Et ne me destruiez mie ma terre; et alomes, se vostre plaisirs est, sor Johannis, qui est rois de Blakie et de Bogrie, qui tient grant partie de la terre a tort». 277. Ne sai par cui conseil l’empereres respondi qu’il voloit aler totes voies vers Salenike et feroit ses autres afaires en la terre. «Sire, fait Bonifaces, li marchis de Monferrat, je te proi, des que je puis ma terre conquerre sanz toi, que tu n’i entrer; et se tu i entres, ne me semble mie que tu le faces por mon bien; et sachiez vos de voir, je n’irai mie avec vos, ainz me partirai de vos». Et l’empereres Baudoins respondi que il ne lairroit mie por ce que il n’i alast tote voie. [276. «Sire» egli dice «mi son giunte notizie da Salonicco che la popolazione di quel paese mi manda a dire che mi accoglieranno volentieri come signore. E io sono vostro vassallo in questa terra e l’ho avuta da voi, e ora voglio pregarvi di lasciarmi andare; e quando avrò preso possesso della mia terra e della mia città, vi verrò incontro con dei viveri e verrò pronto ad eseguire i vostri ordini. E non rovinatemi la mia terra; e andiamo, se vi piace, contro Giovanni re di Valacchia e di Bulgaria, che occupa a torto gran parte del territorio».

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277. Non so per consiglio di chi, l’imperatore rispose che voleva andare comunque verso Salonicco e che avrebbe sistemato gli altri suoi affari nel paese. «Sire» disse Bonifacio, marchese di Monferrato «poiché posso occupare le mie terre senza di te, ti prego di non entrarvi; e se vi entri, non mi sembra che tu lo faccia per il mio bene; e sappiate invero che non verrò con voi, anzi mi separerò da voi». L’imperatore Baldovino rispose che non avrebbe rinunziato ad andarvi per questo.] I due paragrafi sono modellati sullo stesso schema:

Bonifacio, le cui parole sono riferite in stile diretto, si rivolge all’imperatore per promettergli lealtà e auxilium, ma rivendica con fermezza i suoi diritti; le repliche di Baldovino, alquanto brusche e riportate in forma di oratio obliqua, ignorano le ragioni del Marchese e i protocolli del diritto feudale, secondo il quale un signore non poteva entrare nella terra dei suoi vassalli contro la loro volontà. Ancora una volta non vi sono dubbi su chi sia il destinatario delle simpatie del Maresciallo di Champagne, anche se la cronaca si premura di sottolineare che l’imperatore agisce sotto l’influenza di cattivi consiglieri (si vedano, al riguardo, anche i §§ 294-296). D’altra parte, era stato proprio Villehardouin, nel 1201, a proporre la candidatura del Bonifacio di Monferrato a capo della spedizione (§ 41), ed è proprio sulla morte eroica del Marchese, avvenuta nel 1207 per mano dei Bulgari, che si chiude la Conquête de Constantinople (§§ 498-500). L’ipoteca apologetica della cronaca torna a farsi sentire con forza: coonestando la linea di condotta di Bonifacio, Villehardouin difende la bontà delle proprie scelte26. Ma non è tutto. Dietro questa bella scena di corruccio e sdegno feudali, si può cogliere la presenza di un modello interdiscorsivo mai segnalato, ch’io sappia, nella letteratura critica. Il contrasto tra Baldovino e Bonifacio è certamente un

26 Cfr. Dufournet, Les écrivains de la IV

e croisade, cit., t. I, pp. 208-244, soprattutto alle pp. 230-235.

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fatto storico27, ma il modo in cui ce lo racconta Villehardouin ricorda da vicino la cosiddetta «epica della rivolta»28, ovvero le canzoni di gesta che narrano la ribellione di vassalli offesi o trattati ingiustamente dal loro re/imperatore. Come in altri casi, anche qui sarebbe ingenuo e fuori luogo indicare una fonte precisa: abbiamo piuttosto a che fare con la ripresa di un motivo epico di larga diffusione, saldamente inserito in una topica di genere. E ciò collima con quanto ha scritto Jeanette Beer nel suo Villehardouin, epic historian, dove si sostiene con buoni argomenti che l’influsso della chanson de geste si esercita sulla Conquête de Constantinople non come prelievo da testi specifici, ma come influenza diffusa di temi, immagini e coordinate ideologiche29.

27 Ne dà conto anche Robert de Clari, La conquête de Constantinople, éditée par Philippe Lauer, Paris, Champion, 1956 (I ed. 1924), capp. XCIX-CIV. 28 William C. Calin, The Old French Epic of Revolt: «Raoul de Cambrai», «Renaud de Montauban», «Gormond et Isembart», Genève-Paris, Droz-Minard, 1962. 29 Cfr. Beer, Villehardouin, epic historian, cit., pp. 43-56. Oltre a promuovere la transvalutazione eroizzante di eventi molto vicini nel tempo, lo stile epico permette a Villehardouin di proiettare sugli esiti discutibili della spedizione franco-veneziana un alone nobilitante e apologetico da chanson de croisade. Lo ha ricordato di recente Catherine Croisy-Naquet, ricapitolando la complessa questione dei rapporti intergenerici tra l’epica e le scritture cronachistiche nella Francia del Duecento. D’altra parte, la mutuazione di motivi e dispositivi formali propri alla chanson de geste è anche un modo di surrogare le manchevolezze di una storiografia in prosa ancora sprovvista di un solido statuto letterario. Ma occorrerà pure ribadire che «l’influence de la chanson de geste sur l’historiographie naissante en prose repose en grande partie sur les liens que le poème épique entretient avec la réalité historique» (Catherine Croisy-Naquet, Traces de l’épique dans l’historiographie au XIII

e siècle, in Palimpsestes épiques. Récritures et interférences génériques, sous la direction de Dominique Boutet et Camille Esmein-Sarrazin, Paris, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, 2006, pp. 203-216, p. 203). All’origine dell’epica c’è sempre una realtà storica, autentica o pretesa tale dalla comunità di uomini che vi impianta il proprio sistema valoriale.

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Il 13 aprile 1205, un contingente franco-veneziano è acquartierato davanti alla città di Adrianopoli. D’un tratto, come materializzandosi dal nulla, compaiono gli ausiliari comani di Giovanni di Valacchia, che effettuano fulminee scorrerie contro l’accampamento dei latini. Questi reagiscono con una carica ‘a fondo’. Applicando una tattica di finta fuga tipica dei Reitervölker delle steppe, i Comani dapprima si lasciano inseguire dalla cavalleria pesante francese per fiaccarne la resistenza, poi fanno un repentino dietrofront e contrattaccano energicamente. Disunite e sgranate, le schiere crociate si trovano in grave difficoltà e sono costrette a ripiegare verso il campo, lasciando sul terreno numerosi destrieri (§ 355). I grandi baroni si riuniscono allora in consiglio di guerra e danno disposizioni perché non si abbocchi più alle manovre di fuga simulata dei cavalleggeri di Giovanni Kalojan (§ 356). Quelli che si sono lanciati all’inseguimento dei Comani hanno agito «molt folement», hanno commesso una «grant folie». Studiando le concezioni del coraggio e della paura nella cultura cavalleresca, Alessandro Barbero ha mostrato come il lemma «folie» serva a designare, soprattutto nei testi dei memorialisti, un’azione militare avventata e controproducente. Nelle pagine delle cronache, informate dalla concreta esperienza della guerra e dal realistico pragmatismo dei professionisti delle armi, la «folie» temeraria dei cavalieri più impulsivi è costantemente censurata. L’imperatore e gli altri capi dell’armata raccomandano dunque di tenere le posizioni e di non rispondere alle provocazioni degli incursori di Giovanni di Valacchia. Sennonché, le precise disposizioni diramate dal consiglio di guerra restano lettera morta. Il giorno seguente, è proprio uno dei grandi feudali a trasgredire gli ordini. Incapace di frenarsi, il conte Luigi di Blois carica impetuosamente i cavalleggeri comani, ritrovandosi ben presto a mal partito e trascinando nella sua improvvida

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iniziativa l’imperatore Baldovino e una parte consistente delle forze crociate. È l’inizio della famosa disfatta di Adrianopoli.

359. Et il orent bataille d’autre gent que de chevaliers, qui ne savoient mie assez d’armes; si s’escomencent a esfreer et desconfire. Et li cuens Loeys, chi fu assemblez primiers, fu navrez en .II. los mult durement; et li Conmain et li Blac les conmencierent a envaïr; et li cuens ot esté chaüs, et uns suens chevaliers, qui ot nom Johans de Friaise, fu descenduz, si lo mist sor son cheval. Assez fu de la gent le conte Loeys ki li distrent: «Sire, alez vos en, quar trop malement navrez estes en .II. leus»; et il li dist: «Ne place Dam le Dieu que ja més me soit reprové que je fuie de camp et laise l’empereor».

[359. E avevano delle schiere composte di gente che non erano cavalieri, e non molto esperti nelle armi; e cominciarono a spaventarsi e cedere. E il conte Luigi, che si era scontrato per primo, fu ferito molto gravemente in due punti; e i Cumani e i Valacchi cominciarono a sopraffarli; e il conte era caduto; e un suo cavaliere, che aveva nome Giovanni di Friaize, scese a terra e lo mise sul suo cavallo. Ve ne furono molti di quelli del conte Luigi che gli dissero: «Sire, andatevene, perché siete troppo gravemente ferito in due punti»; ed egli disse: «Non piaccia al Signore Iddio che mai mi sia rimproverato d’esser fuggito dal campo e d’avere abbandonato l’imperatore».] Questo paragrafo veloce e movimentato ci restituisce

alcune istantanee della mischia: lo sbandamento di una schiera di sergenti inesperti, la caduta da cavallo di Luigi di Blois gravemente ferito, la coraggiosa manovra di rescosse che vale a Giovanni di Friaize una menzione speciale. Ma dopo che la macchina da presa ha colto le fasi concitate dell’azione, il flusso narrativo si arresta in uno scambio di battute che non stonerebbe in una lassa epica. Nella frase posta sulle labbra del conte si concentrano i valori della fortitudo guerriera e della fedeltà ai doveri vassallatici, ma soprattutto il timore, tipico della shame culture cavalleresca, di perdere per sempre il buon nome, disonorando sé e la propria stirpe. Luigi sceglie di

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restare e di morire, perché di lui non si canti una canzone di scherno. È l’ideologia della Chanson de Roland: «Or guart chascuns que granz colps i empleit, / Male cançun de nus chantét ne seit!» (vv. 1013-1014)30.

Mediante la nuda narrazione dei fatti, la cronaca indica in Luigi di Blois uno dei principali responsabili della rotta di Adrianopoli, ma ciò che rimane nel ricordo del lettore sono le sue ultime, memorabili parole. Così, grazie all’uso impressivo del discorso diretto, Villehardouin può rendere l’onore delle armi ad un grande feudale31. Portavoce del partito aristocratico, il Maresciallo di Champagne non dimentica mai la solidarietà di classe e non perde occasione per celebrare il comportamento eroico dei baroni francesi.

30 La chanson de Roland, édition critique par Cesare Segre, nouvelle édition refondue, traduite de l’italien par Madeleine Tyssens, glossaire établi par Bernard Guidot, Genève, Droz, 2003, p. 144. 31 Sulla figura di Luigi di Blois nella cronaca di Villehardouin, cfr. Dufournet, Les écrivains de la IVe croisade, cit., t. II, pp. 269-276.

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FLORIN SFRENGEU

Istoriografie şi arheologie: informaţii din Gesta Hungarorum a

lui Anonymus privind ducatul lui Menumorut şi cercetările arheologice de la Biharea

Pentru cunoaşterea societăţii maghiare şi a realităţilor zonei central şi sud-est europene, istoriografia maghiară dispune de câteva lucrări importante. În cadrul acestor izvoare narative se reflectă, după cum remarca Ioan-Aurel Pop, următoarele aspecte:

stadiul de evoluţie social-politică şi economică a ungurilor în preajma stabilirii lor în Pannonia, structura etno-demografică a Pannoniei la acea dată şi ulterior, expediţiile întreprinse de unguri în apusul, sudul şi estul Europei, conflictele cu unele state şi formaţiuni politice existente în zona pannoniană şi carpatică, transformările suferite de societatea ungară, de la nomadism la sedentarizare şi feudalizare, creştinarea ungurilor, colonizarea şi aşezarea unor străini în Ungaria, formarea statului ungar, succesiunea în cadrul dinastiei Árpádienilor, cuceririle întreprinse de unguri în detrimentul statelor şi popoarelor din jur etc.1 Analizată critic pentru prima dată de către Hóman Bálint,

istoriografia maghiară din secolele XII-XV are la origine două arhetipuri de geste: Gesta Ungarorum şi Gesta Hungarorum, ambele pierdute2. Primul arhetip prezintă evenimentele istoriei

1 Ioan-Aurel Pop, Românii şi maghiarii în secolele IX-XIV. Geneza statului medieval în Transilvania, ediţia a II-a, Cluj-Napoca, 2003, p.92. 2 St. Brezeanu, Romani şi Blachi la Anonymus. Istorie şi ideologie politică, în Romanitatea orientală în Evul Mediu, Bucureşti, 1999, p.138, unde sunt amintite două dintre studiile specialistului maghiar: B. Hóman, A szent László-kori Gesta Ungarorum (Gesta Hungarorum din epoca lui Ladislau cel Sfânt), Budapesta, 1925; Idem, La première période de l`historiographie

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ungare de la începuturile ei mitice până în anul 1091. Autorul necunoscut, probabil un cleric de cultură franceză şi italiană, se foloseşte de Cronica lui Regino, Annales Altahenses, tradiţiile de familie ale regilor Árpádieni şi cele ale nobilimii maghiare. Scrisă la sfârşitul domniei lui Ladislau cel Sfânt (1077-1095), lucrarea a fost folosită ca bază documentară de către Anonymus, Annales Posonienses, Raportul lui Ricardus, Cronica lui Thomas de Spalato şi informaţiile verbale ale lui Odo de Deuil. Al doilea arhetip a fost scris la sfârşitul secolului al XIII-lea, în timpul domniei lui Ladislau Cumanul (1272-1290), din el inspirându-se Simon de Kéza pentru Cronica minoră, precum şi celelalte cronici maghiare din secolele XIV-XV, dintre care amintim; Chronicon pictum Vindobonense, Chronicon Posoniense, Chronicon Dubnicense şi Chronicon Budense3.

Opera Notarului Anonim, Gesta Hungarorum (Faptele ungurilor) este considerată de majoritatea specialiştilor o importantă lucrare pentru desluşirea unor evenimente şi realităţi de la sfârşitul mileniului I şi începutul celui de-al II-lea al erei creştine, nu numai referitoare la maghiarii nou veniţi în Europa centrală ci şi la celelalte populaţii aflate în zonă, care au avut de suferit în urma acţiunilor întreprinse de aceştia. Magistrul zis P., notarul, presupus de unii istorici, fie a regelui Béla al II-lea (1131-1141) sau Béla al III-lea (1172-1196), supranumit astăzi Anonymus, format, după cum ne spune printre alţii şi Stelian Brezeanu, în mediul parizian al secolului al XII-lea, îşi ia ca model gestele romaneşti aflate în vogă în societatea franceză a vremii. El celebrează faptele de arme ale regilor şi ale nobilimii maghiare, transformând cucerirea Pannoniei şi campaniile de pradă în Occident şi Balcani în episodul central al naraţiunii sale4.

hongroise, în «Revue des Études Hongroises et Finno-ougriennes», III, 1925. 3 Brezeanu, Romani şi Blachi, cit., p.138; Pop, Românii şi maghiarii, cit., p. 95. 4 Brezeanu, Romani şi Blachi, cit., p. 138.

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În capitolul I. Cine a fost Notarul Anonim?, al cărţii lui Alexandru Madgearu, Românii în opera Notarului Anonim, se reia întreaga problematică privind identitatea şi vremea în care a scris acesta, mult discutate de istorici. În concluzie, autorul înclină spre datarea izvorului într-o perioadă ulterioară lui Béla al II-lea, înaintea renaşterii Bulgariei, foarte probabil în jurul anului 1150, însă se precizează că nu pot fi eliminate şi alte ipoteze, deci nu poate fi o datare definitivă5.

Mai recent, Tudor Sălăgean reia discuţia privind posibila datarea a Gestei Hungarorum în perioada care a urmat domniei lui Béla I (1060-1063) şi a pregătirii lui Anonymus, cel mai probabil în Italia deoarece o serie de indicii prezente în textul lucrării arată faptul că Anonymus cunoştea cel mai bine nordul Italiei. Ample referiri sunt făcute, cu ocazia descrierii campaniilor ungurilor în Italia, la realităţile politice, oraşe şi locuri precum: marca Lombardiei, Friuli, Padova, Vercelli, Susa, Torino, câmpia Lombardiei6.

Opera s-a păstrat parţial într-un singur manuscris de la mijlocul secolului al XIII-lea, conservat azi la Biblioteca Naţională Maghiară, fiind publicată prima oară în 1746 de către J. G. Schwandter şi M. Bel, dar ea a fost semnalată pentru prima oară în 1652, într-un catalog al Bibliotecii Imperiale din Viena7. Lucrarea Notarului Anonim nu s-a păstrat integral, deoarece din capitolul 15 reiese că naraţiunea atingea şi epoca lui Andrei I (1046-1060), textul încheindu-se cu domnia ducelui Géza, făcând referiri însă şi la evenimente contemporane cu Ştefan I.

Opera are următoarea structură: capitolele 1-11 cuprind descrierea patriei de origine a ungurilor, plecarea lor în Rutenia

5 Al. Madgearu, Românii în opera Notarului Anonim, Cluj-Napoca, 2001, p.19-25. 6 T. Sălăgean, Ţara lui Gelou: Contribuţii la istoria Transilvaniei de Nord în secolele IX-XI, Cluj-Napoca, 2006, p.16-18. 7 Brezeanu, Romani şi Blachi, cit., p.137-138; Madgearu, Românii în opera Notarului, cit., p.19-20.

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şi luptele cu rutenii; capitolele 12-18 prezintă cucerirea teritoriului dintre Dunăre şi Tisa; capitolele 19-29 descriu luptele cu ducele de Byhor, Menumorut şi cucerirea ţării lui Gelou; capitolele 30-43 înfăţişează luptele cu Salanus, cu boemii şi ducele Bulgariei; capitolele 44-45 descriu luptele cu Glad şi campania de la sud de Dunăre; capitolele 46-50 prezintă cucerirea teritoriului de la vest de Dunăre (Pannonia); capitolele 50-52 reluarea luptelor cu Menumorut; capitolele 52-53 şi 57 îi prezintă pe urmaşii lui Árpád până la Géza; capitolele 53-56 prezintă campaniile din Occident.

Ducatul lui Menumorut, despre care Anonymus ne vorbeşte în capitolele 19-22, 28, 50-52, era cuprins între Tisa, Mureş, Someş şi Carpaţii Occidentali, având reşedinţa la Biharea. Analizând relatările din aceste capitole ale cronicii lui Anonymus, I.-A. Pop arată că războiul contra ducatului Crişanei are trei etape:

- prima expediţie militară, din direcţia nord-est spre sud-est, duce la atacarea teritoriului dintre râurile Er şi Someş, cu cetatea Sătmar, până sub Munţii Meseş şi până la Zalău; - a doua expediţie este o continuare a primei, din direcţia nord-est spre nord-vest, de-a lungul râului Er, încheiată cu înfrângerea cetei ungurilor la Szeghalom; - a treia, în care avangarda oştii era formată din secui, e orientată dinspre sud spre nord-est şi duce la căderea şi jefuirea cetăţii Biharea8.

Pentru fiecare etapă în parte sunt menţionate luptele

dintre maghiari şi populaţia autohtonă. După spusele lui Anonymus, ungurii au întâmpinat greutăţi în înfrângerea rezistenţei localnicilor, chiar dacă aceştia din urmă au fost cuprinşi de spaimă şi groază9.

Anonymus în capitolul 51 ne relatează asediul şi predarea cetăţii Byhor ungurilor şi secuilor. Fortificaţia a fost

8 Pop, Românii şi maghiarii, cit., p. 135. 9 Ibidem.

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localizată în situl arheologic de pe teritoriul localităţii actuale Biharea, situată la 14 km nord de Oradea. După ce ungurii şi secuii traversează înot râul Criş la Mons Cervinus (Muntele Cerbului) îşi aşează tabăra la râul Tekereu, un afluent dispărut azi al Crişului. Astfel că Menumorut temându-se de duşmanii săi nu a avut îndrăzneala să vină înaintea lor deoarece, după cum arată Anonymus:

auziseră că ducele Arpad şi ostaşii săi sunt mai puternici în război şi că romanii au fost puşi pe fugă din Pannonia prin aceiaşi şi că au devastat ţinuturile carintienilor moravieni şi că au ucis mai multe mii de oameni în tăişul sabiei lor. Că au ocupat regatul Pannoniei şi că duşmanii lor au fugit dinaintea feţei lor. Atunci ducele Menumorout, după ce mulţimea ostaşilor a fost părăsită în castrul Byhor, el însuşi fugind cu soţia şi fata sa din faţa acestora, au început a locui în pădurea Ygfon. Usubuu şi Veluc şi întreaga lor oştire au început să călărească veseli împotriva fortăreţei Byhor şi şi-au aşezat taberele lângă fluviul Iouzas. Iar în a treia zi, după ce oştirile au fost orânduite, au plecat la fortăreaţă luptând. Şi ostaşii adunaţi de jur împrejur din diferite naţiuni au început să lupte împotriva lui Usubuu şi a ostaşilor săi. Syclii şi ungurii omorâseră mulţi oameni cu lovituri de săgeţi. Usubuu şi Velec au ucis 125 ostaşi cu balistele. Şi s-au luptat între ei 12 zile şi dintre ostaşii lui Usubuu şi Velec au fost omorâţi 20 unguri şi 15 secui. Dar în a 13-a zi, când ungurii şi secuii umpluseră şanţurile fortăreţei şi veniseră să pună scări la perete, ostaşii ducelui Menumorout, văzând curajul ungurilor, au început să roage pe aceşti doi principi ai armatei şi, după ce fortăreaţa a fost deschisă, au venit să se roage, cu picioarele goale, înaintea feţei lui Usubuu şi Velec. Cărora Usubuu şi Velec, punându-le pază, ei înşişi au intrat în fortăreaţa Byhor şi au găsit acolo multe bunuri ale acelor ostaşi. Când Menumorout auzise aceasta prin soli scăpaţi prin fugă, s-a aruncat într-o mare teamă. Şi a trimis solii săi cu diferite daruri la Usubuu şi Velec şi i-a rugat pe aceştia să favorizeze ei înşişi pacea şi să dea drumul solilor proprii şi să meargă la ducele Arpad, care soli să-i anunţe acestuia că Menumorout, care la început a încredinţat ducelui Arpad, prin solii săi proprii, cu inima mândră bulgărească, că refuză să-i dea pământ cât încape într-un pumn, acum, prin aceiaşi soli, învins şi distrus, nu se îndoieşte să dea întregul regat şi pe fiica sa lui Zulta, fiul lui Arpad. Atunci Usubuu şi Velec au lăudat

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sfatul acestuia şi au trimis soli, împreună cu solii săi, care să roage pe stăpânul său, ducele Arpad, pentru pace. Care, pe când intraseră în insula Sepel şi salutaseră pe ducele Arpad, a doua zi solii au spus cele încredinţate de Menumorout. Dar, ducele Arpad, după ce a ţinut sfat cu nobilii săi, a apreciat şi a lăudat cele încredinţate de Menumorout şi când auzise acum că fiica lui Menumorout este de aceaşi etate ca şi fiul său Zulta, n-a fost nevoit să amâne cererea lui Menumorout şi a primit pe fiica sa ca soţie a lui Zulta, împreună cu regatul pe care i l-a promis. Şi, după ce a trimis soli la Usubuu şi Velec, le-a dat sarcina ca nunta să fie sărbătorită, să primească pe fiica lui Menumorout ca soţie pentru Zulta şi să ducă cu sine pe fiii locuitorilor daţi ca ostateci şi ducele Menumorout să-i dea fortăreaţa Byhor10.

La Biharea săpăturile arheologice efectuate încă de la

începutul secolului XX, continuate şi în prezent, au arătat că în acest important sit arheologic a fost localizată fortificaţia principală din ducatul lui Menumorot, Byhor. Cetatea are şi în prezent o înfăţişare impunătoare, cu valuri de pământ de aproximativ 30 de metri grosime la bază şi şanţuri pe trei laturi, largi de aproape 20 de metri, de formă dreptunghiulară, cu laturile de aproximativ 150 X 115 metri.

În anul 1900 au fost efectuate primele cercetări arheologice de către P. Cseplő, directorul Muzeului din Oradea, şi I. Karácsonyi, medievist, din însărcinarea „Societăţii de arheologie şi istorie din Bihor şi Oradea”, începând cu luna martie, timp de nouă zile. Publicate în anul următor, rapoartele asupra săpăturilor de la Biharea, semnate separat de fiecare autor, oferă două puncte de vedere deosebite11. Sub

10 Anonymus, Gesta Hungarorum, traducere şi comentariu Paul Lazăr Tonciulescu, Bucureşti, 1996, cap. 51. 11 S. Dumitraşcu, Biharea. Săpăturile arheologice din anii 1973-1980, Oradea, 1994, p.35-43, unde sunt prezentate pe larg aceste cercetări, precum şi încheierea la care ajunge autorul cărţii. Conform notelor 17 şi 19 din monografia de mai sus, rapoartele au văzut lumina tiparului în anul 1901: P. Cseplő, Régészeti ásatásokról a Bihari várban, în «ArchÉrt», XXI, 1901,

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supravegherea lui I. Karácsonyi, care era conducătorul săpăturilor, au fost secţionate valurile de pământ în patru locuri, câte o secţiune pe valurile de sud, est şi vest, precum şi valul Cetăţii Fetelor. Raportul lui P. Cseplő este întocmit pe baza datelor arheologice în confruntare cu izvoarele scrise, având o viziune ştiinţifică asupra problemelor studiate. Chiar dacă greşeşte crezând că peste zid s-a ridicat valul, poate şi datorită faptului că nu a participat la săpături decât la început, el a dovedit un mare curaj în prezentarea opiniilor sale ştiinţifice, arătând şi o bună pregătire istorică. Printre altele consideră că maghiarii vin în cetate cucerind ţara de la un alt popor, susţinând că cetăţile feudale regale maghiare de piatră au fost ridicate numai după invazia tătară din anul 1241. Cu toate că a înregistrat cu mare atenţie datele obţinute din săpăturile arheologice, I. Karácsony face puţine observaţii, unele valabile şi astăzi: prima dată a fost ridicat valul de pământ, iar mai târziu a fost încastrat zidul, acestea fiind realizări a două populaţii, construite în intervalele de timp diferite. Autorul raportului nu dă nici o explicaţie referitoare la cetatea de pământ. De altfel acesta nu a mai continuat cercetările din cetate12.

După ce în primăvara anului 1902 a fost descoperit întâmplător un mormânt de călăreţ pe dealul Şumuleu, din apropierea fortificaţiei de la Biharea, I. Karácsonyi continuă cercetarea descoperind încă şapte morminte, aşezate unul lângă altul. Mormintele conţineau cranii de cal depuse la picioarele defuncţilor, un inventar cu două tipuri de piese ale defunctului (inele de buclă, brăţări, vârfuri de săgeţi, amnar, topor de luptă şi într-un caz o sabie) şi ale calului său (piese de metal din harnaşamentul calului: zăbale, bucăţi de piele din şa, scăriţe).

p.69-72; I. Karácsonyi, Ásatásokról a Bihari földvárban, în «ArchÉrt», XXI, 1901, p.72-74. 12 Dumitraşcu, Biharea, cit., p.35-43, unde se prezintă pe larg cele două rapoarte.

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După părerea lui I. Karácsonyi, mormintele, prin inventarul lor, au fost datate în secolul al X-lea şi aparţin unei populaţii de călăreţi luptători din perioada venirii maghiarilor13.

M. Roşka efectuează, între anii 1924-1925, cercetări arheologice în locul Cărămidărie, la aproximativ 400-500 m sud de cetatea de pământ, însă rezultatele nu au fost publicate decât parţial14. A săpat o întinsă necropolă cu 506 morminte, datate în secolele XI-XIV şi doar câteva în secolele IV-V. Inventarul mormintelor de inhumaţie feudal-timpurii conţinea următoarele piese: vase, inele, inele de tâmplă cu capul răsucit în formă de S, coliere din sârmă de bronz răsucite, brăţări, pandantive, mărgele din pastă şi sticlă. Cimitirul şi locuinţele descoperite nu au fost publicate, iar materialul arheologic nu a fost înregistrat personal15.

În 1954 M. Rusu reia cercetările de la Biharea, în punctul Cărămidărie, în continuarea zonei cercetate de M. Roşka. Cercetările au fost de scurtă durată şi au avut un caracter de salvare şi verificare a vestigiilor, însă s-au soldat cu rezultate remarcabile. Arheologul clujean scrie primul studiu istorico-arheologic privind cetatea de la Biharea: Contribuţii arheologice la istoricul cetăţii Biharea. Nu face săpături în cetatea de pământ însă se ocupă cu amplasarea şi aspectul cetăţii, cu datele topografice oferite de cercetarea de suprafaţă. Studiind cu atenţie rapoartele publicate în anul 1901 este de părere că acestea sunt modeste şi nu permit precizări privind

13 I. Karácsonyi, A bihari honfoglaláskori lovassírokról, în «ArchÉrt», XXIII, 1903, p.405-412, apud Dumitraşcu, Biharea, cit., p.40-41. 14 Dumitraşcu, Biharea, cit., p.43-49; sunt arătate preocupările din această perioadă privind organizarea cercetărilor arheologice din România cu privire specială la Crişana, precum şi cercetările lui M. Roşka din 1924-1925, doar o parte a acestora fiind publicate: M. Roşka, Recherches préhistoriques pendant l’année 1924, în «Dacia», I, 1924, p.297-316; Idem, Rapport préliminaire sur les fouilles archéologiques de l’année 1925, în «Dacia», II, 1925, p.400-416. 15 Dumitraşcu, Biharea, cit., p.48.

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tehnica de construcţie sau date referitoare la începutul sau sfârşitul cetăţii16.

Principalele rezultate la care a ajuns M. Rusu au fost prezentate pe larg şi în monografia arheologică Biharea17. Amintim doar câteva din concluziile arheologului M. Rusu, rezultate în urma studierii cimitirului descoperit de M. Roşka:

a) Dacă ungurii ar fi locuit timp de un secol la Biharea (de la cucerirea cetăţii lui Menumorut până au trecut la creştinism), atunci cimitirul (cel de pe dealul „Şumuleu” atribuit maghiarilor n. S.D.) trebuia să fie mult mai mare şi mai ales ar fi cuprins un inventar corespunzător cimitirelor din a doua jumătate a sec. X găsite pe teritoriul R. Ungare. b) Abia începând cu sec. XI, când cetatea Biharea este pomenită în documente şi când începe de fapt cimitirul de tip Bjelo-Brdo la „Cărămidărie” (datat cu monede între Andrei I – 1046/1061 şi Andrei III – 1290/1301) se poate vorbi clar de o stăpânire efectivă a ungurilor asupra cetăţii.18 Cercetările arheologice din incinta cetăţii de la Biharea

din anii 1973-1976 au fost publicate pe larg în monografia arheologică Biharea şi au vizat zona centrală şi sud-vestică a incintei. În zona centrală au fost trasate două mari secţiuni SI (65 x 2,20 m) şi SII (98 x 2,20 m), paralele pe direcţia N-S, iar între m 1-20, în capătul nordic, încă 3 secţiuni cu o deschidere paralelă spre vest, ce se constituie toate cinci într-o casetă. În această porţiune au fost dezvelite 11 morminte, rămăşiţele unei construcţii absidate alcătuite din pietre de râu şi ale unei alte

16 M. Rusu, Contribuţii arheologice la istoricul cetăţii Biharea, în «Anuarul Institutului de Istorie din Cluj», III, 1960, p.7-22. 17 Dumitraşcu, Biharea, cit., p. 49-55; «Studiul său, în care adună, pentru prima dată, toate informaţiile despre descoperirile arheologice de la Biharea, adaugă propriile sale cercetări şi foloseşte pentru evul mediu de început şi izvoarele literare, se constitue într-o primă micro-monografie a acestor importante cercetări. Concluziile desprinse din cercetările sale, cu mici elemente de nuanţă, rămân valabile şi în prezent» (p.49). 18 Ibidem, p.53.

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construcţii patrulatere cu resturi de pereţi de chirpic, piatră şi cărămidă. Stratigrafia secţiunii SI pune în evidenţă trei mari etape «constând din trei straturi de pământ mai bine individualizate şi subliniate de vestigiile preistorice, dacice de epocă romană şi post-romană din prefeudalism şi feudalismul timpuriu, ilustrat prin urme de construcţii ce foloseau piatră şi cărămidă»19.

În secţiunea a II-a interesant este faptul că spre sud, între m 89-98, sub stratul de depuneri feudale timpurii apare un strat gros de cărbuni, de arsură de pe urma unui incendiu puternic. Observaţiile stratigrafice au permis afirmaţia că cetatea de pământ a fost ridicată peste stratul hallstattian şi, în timpul sau imediat după, a apărut nivelul cu arsură puternică20. S-a considerat, pe baza materialului arheologic obţinut – cimitirul de înhumaţie creştin, construcţia cu absidă, construcţia patrulateră de factură arhaică, toate în contextul stratigrafic prezentat în monografie pe larg – că se poate vorbi de un nivel autohton, românesc, cuprins în perioada secolelor VII/VIII- IX/X e.n., nivel anterior celui marcat de materiale feudale timpurii cu cazane de lut şi construcţii cu ziduri de cărămidă21.

În zona sud-vestică a incintei Cetăţii de pământ, cercetările arheologice s-au desfăşurat în 1975 şi 1976, trasându-se o secţiune de 25 x 2 m pe direcţia est-vest, secţiune dezvoltată spre sud între m 10-24 cu încă 18,50 m, rezultând o casetă de 14 x 18,50 m. S-a constatat existenţa a două nivele de locuire feudală timpurie: un nivel subliniat de o lentilă de pământ galben în care nu apar cazane de lut şi un nivel dat de o locuinţă feudală timpurie, construită din lemn cu lipitură de lut, lungă de 20 m, lată de 10 m, cu vestigii arheologice ce cuprind numeroase fragmente ceramice cu cazane de lut, un pinten de

19 Ibidem, p.63. 20 Ibidem, p.64-65. 21 Ibidem, p.70.

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fier cu spinul romboidal şi o monedă de la Béla al III-lea (1172-1190). Nu s-au găsit vestigii mai noi de mijlocul secolului XIII22.

Cercetările arheologice din anii 1998-2000 au vizat Zona vestică a cetăţii de pământ. În anul 1998 fost trasată o secţiune de control SI de 25 x 1 m pe direcţia nord-sud, paralelă cu valul vestic, perpendiculară pe secţiunea din zona de sud-vest din anul 1975, în 1999, SII de 1,50 x 18 m, la distanţa de 1 m spre valul de pământ vestic al cetăţii, şi în 2000, SIII de 2 x 20 m, paralelă cu SII, la 0,5 m distanţă spre val. Stratigrafia pune în evidenţă trei niveluri de depuneri arheologice: a) nivelul cu ceramică feudală timpurie cu cazane de lut; b) nivelul de depuneri feudale timpurii ceva mai vechi, fără cazane de lut, între care se remarcă fragmente ceramice smălţuite maro şi verde-oliv. Aceste două niveluri sunt separate de un strat de arsură cu cărămizi de lut ars. Sub cele două niveluri care formează stratul feudal timpuriu se remarcă un strat de pământ argilos, cu pietre, fără vestigii arheologice, indicând o depunere de argilă scursă din valul cetăţii, după ridicarea acestuia. Sub stratul steril se află stratul gros de pământ negru, cu vestigii hallstattiene şi de epocă romană.

Cercetările arheologice din anii 1998-2000 confirmă constatările şi concluziile anterioare, întărindu-le în ceea ce priveşte momentul în care a fost construită cetatea de pământ. Acest moment poate fi plasat în răstimpul dintre locuirea de epocă romană şi locuirea feudală timpurie din nivelul mai vechi. Totodată s-a constatat o separare a celor două niveluri feudal timpurii, prin depunerea de arsură şi cărămizi de lut ars, iar pe alocuri chiar de existenţa a două subniveluri în cadrul nivelului feudal timpuriu inferior (mai vechi)23.

22 Ibidem, p.71. Pentru localizarea exactă a cercetărilor arheologice a se vedea fig. 5. Cetatea de pământ (planul), p.272- 273. 23 S. Dumitraşcu, Fl. Sfrengeu, Mihaela Goman, Săpăturile arheologice din vara anului 1998 la Biharea-„Cetatea de pământ, în «Crişana Antiqua et

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În anii următori, 2001-2004, săpăturile arheologice au fost continuate în incinta cetăţii de pământ, în partea de sud. Stratigrafia secţiunii săpate în 2001 a pus în evidenţă existenţa a două niveluri de depuneri arheologice, separate de un strat de lut galben (scurs din val), cu urme de arsură, pietre rulate şi câteva fragmente de oase de animal. Primul nivel, aflat sub stratul vegetal, conţine fragmente ceramice din epoca medieval timpurie, cu numeroase buze de cazane de lut, oase de animale, bolovani de râu şi pietre calcaroase. În acest nivel apar două platforme din pietre de râu şi urmele unei construcţii din piatră cu bolovani de râu şi blocuri de piatră tăiată din gresie. În cel de-al doilea nivel, situat sub stratul de lut, apar fragmente ceramice medieval timpurii ceva mai vechi, fără cazane de lut24.

În 2002 s-a trecut la dezvelirea construcţiilor apărute în secţiunea I din 2001 prin trasarea a trei casete şi dezvelirea din nou a unei porţiuni din secţiune. Construcţia din piatră, fără instalaţie de încălzire, dispusă pe direcţia est-vest, având dimensiunile de 4,80 x 4,15 m, apare sub forma unei podine din gresie şi pietre de râu. A fost descoperit şi un fragment de colonetă romanică, spartă în două, aparţinând eventual construcţiei sau turnului care s-a dărâmat. A fost dezvelită baza unui turn din pietre de râu şi gresie, zidul având lăţimea de 0,52

Mediaevalia», I, Oradea, 2000, p.63-73; S. Dumitraşcu, Fl. Sfrengeu, Biharea, com. Biharea, jud. Bihor, în Cronica cercetărilor arheologice din România (în continuare CCAR), campania 1999, Deva, 2000; Idem, Biharea, com. Biharea, jud. Bihor, în CCAR, campania 2000, Suceava, 2001; Fl. Sfrengeu, Un pinten din evul mediu timpuriu descoperit la Biharea, în «Analele Universităţii din Oradea» (în continuare «AUO»), X, 2000, p.36-37; Idem, Fragmente de cazane de lut descoperite la Biharea (1998-2000), în «AUO», XI, 2001, p.16-27; Idem, Cercetările arheologice de la Biharea. Cetatea de pământ (zona de vest) din anii 1999-2000, în «AUO», XII, 2002, p.19-23. 24 S. Dumitraşcu, Fl. Sfrengeu, Biharea, com. Biharea, jud. Bihor, în CCAR, campania 2001, Buziaş, 2002.

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m. În apropiere au ieşit la iveală cărămizi feudale timpurii cu mortar, în poziţie secundară, fie căzute din coronamentul cetăţii, fie de la turn. În partea de sud a casetei I, spre val au apărut urmele unui zid, la adâncimea de 0,62 m. La 1,5 m adâncime a fost surprinsă o locuinţă hallsttatiană de 3,80 x 1,90 m, orientată est-vest, până la 2,25 m adâncime şi care intră sub val. Această locuinţă a fost „tăiată” de o alta, datând probabil din perioada secolelor VIII-X, şi care pătrunde până la adâncimea de 2,60 m. Aici s-au descoperit câteva fragmente ceramice din secolele VIII-X şi numeroase oase de animale25. În anul următor s-a dezvelit o locuinţă cu vatră de foc, care se adânceşte la 1,00-1,15 m, iar pe laturile de est şi vest apar două gropi de stâlpi de susţinere. A mai fost descoperită şi o construcţie din piatră (gresie şi calcar cioplite) şi cărămidă cu mortar, cu o absidă spre est. Stratul de cultură cu construcţii de piatră se pare că a bulversat nivelul cu cazane de lut şi pinteni cu spin. S-au descoperit numeroase oase de animale, câteva fragmente ceramice, precum şi diferite piese din metal caracteristice secolelor XI-XIII26.

Cercetările arheologice din 2004 au vizat dezvelirea construcţiei din piatră şi cărămidă cu mortar, semnalată cu ocazia cercetărilor din anul precedent, care se presupune a fi fundaţia unei biserici. Zidul sudic dezvelit, paralel cu valul de pământ al cetăţii, are lungimea de 7,90 m, lăţimea de 0,65 m fiind la 0,60 m adâncime faţă de nivelul actual de călcare. Fundaţia este constituită din pietre de râu şi gresie iar cărămizile dezvelite, unele în poziţie iniţială, iar altele în poziţie secundară, au urme de mortar. Descoperirea separată a mortarului ne indică faptul că zidul construcţiei a fost lucrat din

25 Idem, Biharea, com. Biharea, jud. Bihor, în CCAR, campania 2002, Covasna, 2003. 26 Idem, Biharea, com. Biharea, jud. Bihor, în CCAR, campania 2003, Cluj Napoca, 2004; Fl. Sfrengeu, Săpăturile arheologice din anii 2001-2002 de la Biharea – Cetatea de pământ (zona de sud), în «AUO», XIV, 2004, p.11-18.

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cărămidă cu mortar, ulterior fiind distrus şi colmatat de pământul scurs de pe val. La capătul vestic al zidului apare o fundaţie superficială din gresie care se adânceşte până la 0,80 m, de formă patrulateră, cu dimensiunile de 2 x 1,80 m, cu o decroşare de 0,15 m, probabil intrarea în biserică sau chiar fundaţia unei clopotniţe. La capătul estic, zidul se decroşează spre nord cu 0,80 m, de unde se deschide spre est o absidă cu semidiametrul de 2,52 m, din care s-a păstrat parţial fundaţia, la 0,42 m adâncime, constituită din pietre de râu, câteva gresii şi doar trei cărămizi, fiind puternic distrusă de intervenţiile ulterioare. În partea de nord, absida nu a putut fi urmărită până la zidul de nord, care a lăsat urme puţine, în special pietre de râu din fundaţie. Nivelul bisericii, aflat la 0,40-0,50 m adâncime, se suprapune peste nivelul de locuire în care apar fragmentele de cazane de lut. În interiorul bisericii, în zona unde au fost descoperite urmele a patru stâlpi ce separă absida de nava bisericii (posibil să fi fost o balustradă sau un iconostas), s-a descoperit o aplică de bronz aurită. În exteriorul absidei, în partea de nord s-au descoperit, la 0,40-0,50 m adâncime, mai multe piese din fier: un fragment de fierăstrău, un vârf de sfredel şi o piesă ce provine de la harnaşament. În exteriorul aceleaşi abside, spre sud, s-a descoperit un vârf de săgeată, iar la îmbinarea zidului sudic cu absida, deasupra pietrelor din fundaţie, la 0,52 m adâncime, s-a descoperit un fragment de pinten din fier27.

Sub colţul nord-estic al bisericii, la adâncimea de 1,05 m, în partea de nord, şi 1,25 m, în partea de sud, faţă de nivelul actual de călcare, a fost descoperită o locuinţă cu dimensiunile de 4,55 x 3 m, orientată nord-sud. În colţul de nord-vest al locuinţei a fost dezvelit un cuptor de 1,30 x 1,20 m, de la adâncimea de 1,02 m până la 1,40 m. Cuptorul din lut conţinea: un strat de cenuşă gros de aproximativ 0,20 m, pietre, câteva

27 Fl. Sfrengeu, Nord-vestul României în secolele VIII-XII, teză de doctorat, manuscris, Oradea, 2007, p.207-211, repertoriul descoperirilor 24. a.4.

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fragmente ceramice, lut ars şi un vârf de fier. În centrul locuinţei, la 1,10 m adâncime, s-a găsit şi o vatră de lut bătătorit cu diametrul de 0,6 m. Ceramica din locuinţă este lucrată la roată, din pastă degresată cu nisip, ornamentată cu striuri, benzi de linii simple şi în val, încadrată în perioada secolelor VIII-IX. Sub locuinţă apare direct argila galbenă fără urme de cultură materială.

În urma acestor cercetări s-au conturat trei niveluri de depuneri medieval timpurii:

I - nivel al locuinţei datate în secolele VIII-IX; II - nivel al descoperirilor cu fragmente de cazane de lut

şi pinteni de fier; III - nivel al construcţiei din piatră şi cărămidă cu

absidă, considerată a fi o biserică28. Referindu-se la vestigiile descoperite la Biharea,

arheologul S. Dumitraşcu ajungea la următoarea concluzie: Aceste vestigii dezvăluiau existenţa unei continuităţi de civilizaţie, care nu avea neacoperire materială nici în sincope de 10-25 de ani, şi care contura nu un sat obişnuit, ci un adevărat târg, din care şi pentru care s-a ridicat cetatea voievodală de pământ, tipică în tot centrul şi vestul Europei, între monumentele de apărare ale locuitorilor din aceste teritorii europene împotriva pătrunderii maghiare (cfr. Mechtild Schulze, Das ungarische Kriegergrab von Aspres-lès-Corps. Untersuchungen zu den Ungarneinfallen nach Mittel-West-und Südeuropa (899-955 n. Chr.), în «Jahrbuch des Römisch-Germanischen Zentralmuseums Mainz», 31, 1984, p.473-517).29 Concluzie pe care şi azi o considerăm valabilă, noile

descoperiri arheologice întărind-o, iar castrum Byhor din opera lui Anonymus nu poate fi decât impunătoarea cetate cu valuri de pământ de la Biharea.

28 Ibidem. 29 Dumitraşcu, Biharea, cit., p.8-9.

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DAN OCTAVIAN CEPRAGA

Storia, retorica e linguaggio del patriottismo: la battaglia di

Călugăreni in Românii supt Mihai-Voievod Viteazul di Nicolae Bălcescu

Der Historismus begnügt sich damit, einen Kausalnexus von verschiedenen Momenten der Geschichte zu etablieren. Aber kein Tatbestand ist als Ursache eben darum bereits ein historischer. Er ward das, posthum, durch Begebenheiten, die durch Jahrtausende von ihm getrennt sein mögen. Der Historiker, der davon ausgeht, hört auf, sich die Abfolge von Begebenheiten durch die Finger laufen zu lassen wie einen Rosenkranz. Er erfaßt die Konstellation, in die seine eigene Epoche mit einer ganz bestimmten früheren getreten ist. Er begründet so einen Begriff der Gegenwart als der >Jetztzeit<, in welcher Splitter der messianischen eingesprengt sind.

[Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte]1 Cine oare nu trece în revistă cu plăcere seria de fraze enunţiative, rânduite ca unităţi pe un câmp de bătaie...

[Ion Negoiţescu, “Nicolae Bălcescu” in Istoria literaturii române]

1. Nicolae Bălcescu è figlio di una vera e propria età

dell’eloquenza, la prima e, forse, l’unica che abbia veramente

1 «Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell'adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico». Cfr. Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997, p. 57.

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interessato l’intera res litteraria romena. All’interno della sua generazione intellettuale, che è quella dei grandi patrioti europei del 1848, si formano e si consolidano, per la prima volta nella tradizione romena, gli strumenti linguistici e concettuali di un’arte oratoria, che si applicava in pari grado al discorso letterario e al discorso propriamente politico e civile. L’eloquenza romena nasce, più precisamente, sulla scia dei tumultuosi processi di occidentalizzazione e modernizzazione che avevano investito, con particolare intensità, la cultura e la società romene nella prima metà del XIX secolo: è un’esigenza moderna, che si sviluppa all’interno di uno spazio letterario, che stava recuperando e accogliendo nuovi generi e modalità discorsive di provenienza occidentale, e di uno spazio pubblico, che offriva ad una giovane élite intellettuale la possibilità dell’azione civile e dell’affermazione politica. La retorica diventa, in questo modo, non solo il banco di prova della letteratura, in tutti i suoi generi moderni, dalla lirica amorosa di stampo petrarchista, alla poesia patriottica, fino al saggio storiografico militante, ma anche la dimensione imprescindibile, consustanziale staremmo per dire, del nuovo discorso politico di rivendicazione della libertà e dell’unità nazionale.

La grande lezione della storiografia romantica, soprattutto di scuola francese, con il suo esempio impareggiabile di compenetrazione organica tra storia e retorica, aveva segnato a fondo la formazione di tutti gli scrittori e intellettuali romeni appartenenti alla generazione dei moti rivoluzionari del 1848.2 Il contatto con la prestigiosa 2 Sul quadro generale si può vedere l’ottima sistemazione critica di Paul Cornea, Originile romantismului românesc, Editura pentru literatură, Bucureşti, 1962, in particolare il terzo libro, pp. 359-526. Sugli influssi francesi nel romanticismo romeno si veda, sempre di Cornea, Le romantisme roumain et le romantisme français, in «Cahiers roumains d’études littéraires» n. 3, 1974, pp. 34-42. Sono molto interessanti anche le considerazioni di Ioana Bot, Histoires littéraires. Littérature et idéologie

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tradizione dell’eloquenza e dell’oratoria civica francese aveva dato i suoi frutti migliori proprio all’interno del genere storiografico, di cui l’esempio più celebre e fortunato è la monografia militante dedicata a Mihai Viteazul, principe della Valacchia nell’ultimo scorcio del XVI secolo, nella cui figura lo storico e patriota Bălcescu aveva voluto vedere il primo eroe dell’idea di unità nazionale.

Românii supt Mihai-Voievod Viteazul è il capolavoro della storiografia romantica romena, nonché un imperituro best-seller del patriottismo nazionale, esposto a incessanti ri-usi ideologici e identitari. Non solo: è anche uno degli esempi più riusciti e artisticamente compiuti della prosa romena ottocentesca, forse il frutto più originale e convincente della stagione letteraria paşoptistă.

Scritta in gran parte negli anni dell’esilio di Bălcescu, dopo il fallimento della rivoluzione in Valacchia, la storia di Mihai-Voievod Viteazul è la continuazione ideale dello spirito e delle idee del Quarantotto romeno. È un libro trepidante e complesso, situato esplicitamente all’incrocio di molteplici esigenze, nel punto esatto in cui le strategie retoriche del patriottismo e la messa a punto di una nuova lingua letteraria, la scrittura della storia e la prassi politica rivoluzionaria si incontrano e si condizionano reciprocamente. Da un punto di vista strettamente storiografico, è una delle punte più avanzate della sua epoca, rappresentando, almeno in ambito romeno, un vero salto di qualità rispetto alla prassi corrente per quanto riguarda l’ampio sforzo di documentazione, il rigore del metodo, la discussione critica delle fonti. Allo stesso tempo, è un’operazione imponente di riscrittura mitica del passato nazionale, trasfigurato in valore simbolico nelle forme eroiche dell’epos. Da questo punto di vista, è un libro completamente rivolto al presente, in cui le vicende storiche si riflettono di continuo sull’attualità, trovando in essa il loro

dans l’histoire de la littérature roumaine, Institut Culturel Roumain, Cluj-Napoca, 2003, in particolare alle pp. 27-67.

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compimento e significato più profondo. L’intera narrazione può essere considerata, in tale prospettiva, un unico grande exemplum, che, con la forza modellizzante del passato, doveva persuadere all’azione collettiva e prefigurare la gioia avvenire in cui le istanze di unità, indipendenza e riforma sociale si sarebbero avverate.

La fervida eloquenza patriottica e la spiccata componente messianica dell’opera hanno giocato un ruolo decisivo nella sua ricezione, favorendo, in particolare, l’orgia di manipolazione ideologica alla quale sono stati sottoposti gli scritti e la figura di Bălcescu negli anni del regime comunista. Non senza iniziali tentennamenti e contraddizioni, dovuti al perdurare di clichés storiografici internazionalisti, il nuovo potere politico comunista finì, infatti, con l’appropriarsi completamente della rivoluzione liberale e democratica del 1848. Al contempo, gli storici ufficiali e gli ideologi di partito avevano cercato di fare di Bălcescu un eroe marxista, travisando sistematicamente i contenuti romantici e patriottici della sua opera per metterli al servizio della propaganda e della dottrina nazional-comunista. Bălcescu è divenuto, in questo modo, una vera e propria icona del regime. Parimenti, la figura di Mihai Viteazul, in virtù della trasfigurazione compiuta dall’opera di Bălcescu, è entrata a far parte del pantheon del nazionalismo autoctono, attestandosi come uno dei miti storici più persistenti e pervasivi del comunismo romeno.3 Non

3 Cfr. Adrian Drăguşanu, Nicolae Bălcescu în propaganda comunistă, in Miturile comunismului românesc, sub direcţia lui L. Boia, Nemira, Bucureşti, 1998, pp. 98-132; Mircea Anghelescu, Bălcescu, revoluţia de la 1848 şi miturile istorice ale comunismului românesc, in «România literară» n. 4, 1998, pp.12-14; a proposito della decostruzione dei miti nazionali romeni, compresa la figura di Mihai Viteazul, ha suscitato un’ampia ondata di discussioni e polemiche il controverso volume di Lucian Boia, Istorie şi mit in constiinţa româneascǎ, Humanitas, Bucureşti, 1997. Sull’intera questione, ha fatto il punto, discutendo con grande equilibrio il libro di Boia, Ioan-Aurel Pop, Istoria, adevărul şi miturile (Note de lectură), Editura Enciclopedică, Bucureşti, 2002.

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stupisce, dunque, che la critica romena abbia insistito a lungo sul ruolo identitario ed educativo che Românii supt Mihai-Voievod Viteazul ha giocato nella formazione della coscienza nazionale, mettendo in secondo piano il valore letterario del testo ed esitando ad assegnare alle sue indiscutibili virtù stilistiche ed espressive il posto che meritano nello sviluppo della moderna prosa d’arte romena.4 Come ha giustamente osservato Mircea Anghelescu, resta aperto un problema storico-critico, dato dal fatto che

valoarea literară a scrierilor lui Bălcescu n-a fost discutată niciodată în ansamblu, şi cu atât mai puţin în perspectiva devenirii prozei literare româneşti. <...> Dacă filosofia sa, ca să nu mai vorbim de concepţia istoriografică, au fost îndeaproape şi în repetate cazuri studiate, suportul literar al operei sale a fost rareori şi numai parţial discutat, iar surprinzătoarea intuiţie de acum un secol a lui Aron Densusianu - care afirma în 1894: „calităţile de a deveni cel mai bun prozator în această epocă le posedă Bălcescu” - a rămas fără urmări.5

Per valutare correttamente la dimensione letteraria

dell’opera di Bălcescu, è indispensabile, a nostro parere, riprendere in mano la questione della retorica, soppesando con attenzione la presenza e la funzione delle strategie persuasive all’interno della scrittura storiografica.

4 È interessante notare che anche George Călinescu operi un netto ridimensionamento estetico dell’opera maggiore di Bălcescu, in favore delle sue prevalenti virtù civili. Nella sua monumentale Storia della letteratura romena (pubblicata nel 1941!) parla infatti di Românii supt Mihai-Voievod Viteazul come di «o frumoasă demonstraţie care îşi găseşte raţiunea în urmările ei, o carte înalt educativă, dar o operă literară învechită chiar la data târzie când apăruse» (si cita da George Călinescu, Istoria literaturii române de la origini până în prezent, ediţia a II-a revăzută şi adăugită, Editura Minerva, Bucureşti, 1982, p. 191). 5 Cfr. Mircea Anghelescu, Nicolae Bălcescu şi romanul istoric românesc, in Id., Clasicii noştri, Editura Eminescu, Bucureşti, 1996, pp. 53-67: 58-59, 61

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Già Tudor Vianu, in una serie fondamentale di interventi dedicati alla lingua e allo stile di Bălcescu,6 aveva cercato di mostrare quali fossero le poste in gioco letterarie delle sue opere storiche, mettendone in risalto la sapienti tecniche narrative, la forza oratoria e il gusto vivissimo per la lingua, che con il suo impasto di vecchio e di nuovo rappresenta una delle sintesi più efficaci e «sicure di sé» (come diceva Negoiţescu) fra tutte quelle sperimentate all’epoca.7 Vianu ha indicato, inoltre, con chiarezza un punto che, anche secondo noi, è di fondamentale importanza: il riconoscimento, cioè, della natura eminentemente retorica della prosa di Bălcescu, una retorica nobile e perfettamente dominata, ricca di patetismo e colore, che pervade ogni aspetto della sua opera. Per sgombrare il campo da equivoci, intendiamo ‘retorica’ nel suo senso più specifico e tecnico, di arte del discorso persuasivo, ovvero, secondo la definizione proposta da Thomas Cole, la «manipolazione cosciente che un parlante o uno scrivente fa del proprio mezzo di comunicazione, con lo scopo di assicurare al suo messaggio una ricezione il più possibile favorevole da parte del particolare pubblico al quale si rivolge».8 In altri termini, la persuasione, intesa come dispiegamento cosciente di tecniche argomentative, rappresenta, a nostro avviso, il motore segreto della prosa di Bălcescu, la componente che domina e tiene insieme tutte le altre. Per questo motivo, l’analisi delle sue qualità letterarie

6 Ci riferiamo a Tehnica basoreliefului în proza lui N. Bălcescu (1940), al capitolo specifico di Arta prozatorilor români (1941) e a Nicolae Bălcescu, artist al cuvântului (1953 e più volte ristampato), ora tutti raccolti in Tudor Vianu, Opere, 5. Studii de stilistică, antologie, note şi postfaţă de S. Alexandrescu, text stabilit de C. Botez, Minerva, Bucureşti, 1975, rispettivamente alle pp. 333-38, 20-27, 339-58. 7 Cfr. Ion Negoiţescu, Istoria literaturii române (1880-1945), Editura Dacia, Cluj-Napoca, 2002, p. 56. 8 Thomas Cole, The Origins of Rhetoric in Ancient Greece, The Johns Hopkins University Press, Baltimore - London, 1991, p. IX.

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non potrà prescindere da una attenta ricognizione delle strategie argomentative messe in atto e dall’accertamento della funzione persuasiva dei vari procedimenti di stile.9

I brevi sondaggi retorici, che qui presentiamo, sono condotti su uno degli episodi più famosi di Românii supt Mihai-Voievod Viteazul, quello della battaglia di Călugăreni, e hanno l’intento di saggiarne le modalità argomentative, verificando, appunto, la presenza e la solidità dell’impianto persuasivo.

2. Al centro del secondo libro di Românii supt Mihai-Voievod Viteazul si trova il racconto dettagliato dello scontro tra l’esercito cristiano di Mihai e le truppe ottomane di Sinan-Pascià, avvenuto nell’agosto del 1595 presso Vadul Călugărenilor, un passo impervio sulla strada che porta da Giurgiu, sul Danubio, a Bucureşti. Benché Bălcescu lo ritenga un evento centrale e decisivo, attualmente, gli studiosi sono inclini a ridimensionare l’importanza della battaglia di Călugăreni, considerandola una tappa non risolutiva all’interno di una campagna militare complessa, che gli Ottomani avevano condotto, con alterna fortuna, contro Ţara românească tra l’agosto e il settembre del 1595.

Per Bălcescu, tuttavia, il successo ottenuto da Mihai nelle paludi di Călugăreni assume dimensioni grandiose ed epocali, è «la pagina più gloriosa negli annali dei romeni», alla quale viene affidato un ruolo di primissimo piano all’interno

9 Come sostiene Lorenzo Renzi, Stilistica e retorica, in Romania Occidentalis - Romania Orientalis. Festschrift für Ion Taloş, herausg. von A. Branda, I. Cuceu, Editura Mega, Cluj-Napoca, 2009, pp. 577-86, è necessario distinguere chiaramente i due campi contigui e, per alcuni aspetti comunicanti, della retorica e della stilistica. In particolare, si dovrà tenere presente che «la vera e propria figura retorica, distinta dalla figura di stile, è quella che, come giustamente scrive Perelman, collabora all’argomentazione» (ibid., p. 578). A questa distinzione di fondo è ispirata anche la nostra analisi.

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del grande dramma storico nazionale, che andava costruendo. L’episodio presentava, in effetti, già all’interno delle fonti utilizzate da Bălcescu, alcune caratteristiche che lo rendevano ideale come banco di prova per la ricostruzione eroica e visionaria del passato comunitario dei romeni. Le circostanze che si prestavano ad un ri-uso argomentativo ed esemplare sono riepilogate con lucidità da Bălcescu stesso alla fine del gruppo di capitoli dedicati alla battaglia (capp. XIII-XVII del secondo libro), nel momento di concitata emozione della perorazione conclusiva, impostata secondo lo schema classico della recapitulatio, in cui «vengono ripetute e accumulate in brevi formulazioni le prove valide dell’argomentazione».10

Innanzi tutto, a Călugăreni le forze in campo erano nettamente sbilanciate a favore degli Ottomani, con una sproporzione tra i due eserciti, che metteva in risalto l’eroismo dei romeni di fronte ad un nemico numericamente sovrastante. Bălcescu nel suo riepilogo finale scrive: «De zece ori mai puţin numeroşi decât duşmanii, ei câştigară asupră-le o biruinţă strălucită... » (p. 105),11 riprendendo affermazioni simili sparse con ben studiata frequenza lungo tutto l’episodio. Un altro elemento che corroborava il valore del successo riportato dai romeni era la presenza, alla testa dell’esercito ottomano, di un comandante temuto e di grande esperienza, con la fama di essere imbattibile («...şi avură gloria d-a învinge un general până-atunci încă neînvins.», p. 105). Vi era inoltre una circostanza che poteva rappresentare una prova decisiva a favore della tesi centrale dell’intero libro, l’esigenza, cioè,

10 Per il sistema della retorica classica si fa riferimento al fondamentale Heinrich Lausberg, Handbuch der literarischen Rhetorik: eine Grundlegung der Literaturwissenschaft, Max Hueber, München, 1960 e all’edizione italiana della versione ridotta: Id., Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna, 1969. 11 Tutte le citazioni sono tratte da Nicolae Bălcescu, Românii supt Mihai-Voievod Viteazul, ediţie îngrijită de Andrei Rusu, Minerva, Bucureşti, 1970, a cui si rimanda con il numero di pagina.

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dell’unità di tutti i romeni e l’importanza della formazione di uno stato nazionale che riunisse le tre regioni storiche della Romania. A Călugăreni, infatti, l’esercito di Mihai era formato oltre che da valacchi, anche da un contingente di moldavi, nonché da truppe inviate dal principe di Transilvania Sigismondo Bathory. «Munteni, moldoveni şi ardeleni, soldaţi şi căpetenii se luptară toţi ca nişte eroi», nota brevemente nella sua conclusione Bălcescu, a suggellare un tema che rimane costantemente sullo sfondo di tutta la narrazione. L’imboscata di Călugăreni era, infine, un ottimo esempio di arte militare, una vittoria ottenuta grazie all’applicazione di una raffinata e disinvolta tattica bellica. Il tema riguardava una delle preoccupazioni principali di Bălcescu, che aveva dedicato, come si sa, il suo primo lavoro monografico proprio alla storia del potere armato e dell’arte militare della Valacchia, dalle origini fino all’epoca odierna. L’importanza di una forza armata ben organizzata ai fini della creazione e dell’auto-determinazione dello stato nazionale era sempre stata una delle tesi di fondo del pensiero politico di Bălcescu, che aveva ovviamente ricadute dirette sulla sua attività rivoluzionaria nel presente. Tale tesi trovava nell’episodio di Călugăreni, che era, nell’ottica di Bălcescu, una vittoria di tutti i romeni conseguita grazie alle scelte tattiche di un comandante ingegnoso e audace, non solo una giustificazione lampante, ma anche un’illustrazione esemplare che poteva funzionare quale incitamento all’azione collettiva nell’immediato futuro.

Molte delle circostanze che riguardano la battaglia di Călugăreni hanno, dunque, per Bălcescu, un interesse non solo storico, ma anche, e soprattutto retorico. Costituiscono, cioè, altrettante argomentazioni che possono persuadere il lettore della bontà e dell’opportunità di alcune tesi forti presenti all’interno della narrazione storiografica. Per ottenere questo risultato, Bălcescu inserisce i dati storici, ricostruiti, lo ripetiamo, con scrupolo documentario, all’interno di una

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perfetta macchina persuasiva, in cui mette a frutto non solo la lezione della storiografia romantica occidentale, ma anche il proprio talento di scrittore, la forza e l’originalità della propria eloquenza. Il risultato, come tenteremo di mostrare, è un intreccio organico e potente di storia e retorica, un abile congegno letterario in cui le due dimensioni si integrano e si sorreggono a vicenda.

3. Il capitolo XIII del secondo libro di Românii supt

Mihai-Voievod Viteazul si apre con una descrizione dettagliata dell’impervio passo di Călugăreni, della sua posizione geografica e delle sue caratteristiche fisiche. Si tratta dell’incipit di un vero e proprio prologo, che precede la narrazione dei fatti storici:

Drumul care merge de la Giurgiu spre Bucureşti trece printr-o câmpie şeasă şi deschisă, afară numai dintr-un loc, două poştii departe de această capitală, unde el se află strâns şi închis între nişte dealuri păduroase. Între aceste dealuri este o vale largă numai de un pătrar de milă, acoperită de crâng, pe care gârla Neajlovul ce o îneacă şi pâraiele ce se scurg din dealuri o prefac într-o baltă plină de nămol şi mocirlă. Drumul acolo trece în lungul acelii văi, parte pre o şosea de pământ, parte pre un pod de lemn, care amândouă sunt aşa de strâmte, încât d-abia poate coprinde un car în lărgimea lor. Această strâmtoare, ce locuitorii numesc Vadul Călugărenilor, fu aleasă de Mihai-Vodă spre a sluji de Termopile românilor. (p. 95)12

12 [La strada che porta da Giurgiu verso Bucureşti attraversa una pianura piatta e aperta, tranne che per un luogo, a due leghe di distanza dalla capitale, in cui si trova stretta e racchiusa tra alcune colline boscose. Tra queste colline c’è una valle larga soltanto un quarto di miglio, ricoperta di boscaglia e trasformata in un pantano pieno di fango e melma dal torrente Neajlov, che la allaga, e dagli altri corsi d’acqua che scendono dalle pendici. Lì la strada attraversa la valle per il lungo, in parte su una via sterrata, in parte su un ponte di legno, entrambi così stretti che a malapena fanno passare un carro per la loro larghezza. Questa strettoia, chiamata dagli abitanti il Passo di

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Vi sono altre topografie all’interno di Mihai-Voievod Viteazul, tutte costruite per mezzo della medesima accumulazione concretizzante di dettagli. Gli squarci di paesaggio non sono numerosi, ma occupano posizioni di forte rilievo strutturale all’interno del libro, motivo per cui non sono sfuggiti all’attenzione della critica. Celebre, e molto citata, è ad esempio la descrizione fisica e geografica della Transilvania, posta in apertura al quarto libro. Tali passaggi, di norma, sono stati interpretati e valutati da un punto di vista esclusivamente letterario, come fa Vianu, che rimprovera a Bălcescu una eccessiva puntualità e superficialità cartografica, che andrebbe a scapito della visione d’insieme e della forza espressiva del quadro. In realtà, le topografie di Bălcescu hanno principalmente una funzione retorica e andrebbero interpretate e valutate, prima che sul piano stilistico ed espressivo, alla luce delle loro finalità persuasive e per il contributo che offrono alle strategie generali dell’argomentazione.

C’è, infatti, almeno un altro motivo per cui Bălcescu ha voluto assegnare alla battaglia di Călugăreni un ruolo di assoluto rilievo nella sua ricostruzione della storia nazionale, un motivo che risiede, per l’appunto, nella fascinazione del luogo, nel particolare potere evocativo che la stretta valle acquitrinosa di Călugăreni possedeva come teatro delle operazioni belliche. Come ha spiegato molto bene Anthony D. Smith, non è mai lo spirito antiquario ad ispirare le riscoperte storiche del nazionalismo romantico, «mai una indagine disinteressata sul passato “com’era realmente”, ma un desiderio ardente di ripenetrare in un passato vivente e di far sì che risponda ai nostri bisogni. Questo è il motivo per cui le storie nazionaliste sono così piene di scene drammatiche del passato: <...> Alexandr Nevskij mentre massacra i Cavalieri teutonici sul ghiaccio del lago Peipus, <...> gli ebrei lungo i fiumi di

Călugăreni, è stata scelta da Mihai-Vodă per servire da Termopili ai romeni].

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Babilonia, l’ultimo bardo gallese che innalza il suo lamento su una rupe sotto la quale avanza l’esercito del re Edoardo».13 La narrazione della battaglia di Călugăreni potrebbe far parte a pieno diritto di questi esempi, in cui un evento decisivo e traumatico della storia di un popolo è associato ad un luogo particolare, ad un décor geografico i cui tratti naturali vengono storicizzati e diventano protagonisti della ricostruzione del passato nazionale. L’ambientazione topografica dell’episodio di Călugăreni risponde, cioè, ad alcune esigenze di fondo di ogni ‘dramma storico’ che si proponga di rievocare il passato eroico di una comunità: rinsaldare la fusione della comunità con il proprio territorio e storicizzare i siti naturali, rendendoli luoghi sacri e venerabili per la memoria della nazione, luoghi cioè che inducano sentimenti di riconoscimento identitario e di riverenza a causa degli eventi storici ai quali sono associati e dei loro significati simbolici.

Che l’episodio di Călugăreni punti proprio alla monumentalizzazione nel presente dell’evento storico, lo si deduce abbastanza facilmente dal prologo che Bălcescu ha premesso alla narrazione dei fatti. Si noti, innanzi tutto, che la descrizione topografica si conclude con una lapidaria analogia tra Călugăreni e le Termopili: «Această strâmtoare, ce locuitorii numesc Vadul Călugărenilor, fu aleasă de Mihai-Vodă spre a sluji de Termopile românilor». Il richiamo classico ad una delle battaglie più celebri della storia antica non ha soltanto una funzione letteraria e nobilitante, ma va inquadrato all’interno di una ben precisa strategia retorica. Da un punto di vista narrativo, si tratta tecnicamente di una prolessi, una manovra, cioè, che serve ad evocare in anticipo alcune caratteristiche dell’evento che verrà raccontato e che ottiene l’effetto di orientare preventivamente la lettura

13 Cfr. Anthony D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Il Mulino, Bologna, 1992, pp. 368-69, di cui si veda comunque tutto l’ottimo capitolo ottavo, intitolato Leggende e paesaggi.

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dell’intero episodio in una chiave paradigmatica. Da un punto di vista retorico si tratta, invece, di un tipico exemplum utilizzato a scopo persuasivo, che instaura una serie di affinità ed equivalenze tra Călugăreni e le Termopili, fondate in prima istanza sulla conformazione fisica dei due luoghi, per poi proiettarsi, implicitamente, su una serie di elementi di sostanza: entrambe le battaglie sono esempi di strenuo eroismo, in cui un esercito esiguo decide volontariamente di affrontare un nemico numericamente sovrastante. Entrambe, inoltre, sono battaglie per la libertà, in cui un popolo difende il proprio territorio dall’invasione di uno straniero. Si dovrà tenere conto, infine, anche del particolare statuto esemplare della battaglia delle Termopili, che rappresenta il caso, inconsueto ma non unico, di «una sconfitta rovinosa - e probabilmente del tutto inutile da un punto di vista tattico-strategico» che è diventata «oggetto di forme di celebrazione e di esaltazione pari a quelle riservate ai successi più grandi e decisivi».14 Anche da questa divergenza flagrante tra la vittoria dei romeni a Călugăreni e lo sterminio degli uomini di Leonida alle Termopili, il lettore poteva giungere, per mezzo di un semplice ragionamento a fortiori, ad una generalizzazione spontanea in linea con la tesi di fondo sostenuta da Bălcescu: se i Greci, e il mondo intero, ricordano e celebrano una terribile sconfitta come esempio sommo di eroismo e di valore militare, tanto più i Romeni dovrebbero commemorare e venerare una vittoria come quella di Călugăreni, ottenuta nelle medesime condizioni.

Lo scopo persuasivo al quale mira l’intero prologo è racchiuso, infatti, nella parola che apre il passo immediatamente successivo, astăzi ‘oggi’:

14 Cfr. Mauro Moggi, La battaglia delle Termopili: una sconfitta che vale una vittoria, in Il dopoguerra nel mondo greco. Politica, propaganda, storiografia, a cura di L. Santi Amantini, L’“Erma” di Bretschneider, Roma, 2007, pp. 1-39: 4.

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Astăzi această vale se află tocmai după cum ne-o descrie analiştii acelor timpuri. Nici un monument nu ne arată că acolo fu lupta cea crâncenă pentru libertate! Atât suntem de nesimţitori la gloria naţională! Românul acum trece cu nepăsare printr-aceste locuri sfinte, fără ca nimic să-i aducă aminte că pământul ce calcă e frământat cu sângele părinţilor săi şi acopere oasele vitejilor! (p. 95)15

L’interesse della narrazione gravita, per Bălcescu, tutto

sull’oggi, sui sentimenti e gli effetti che la commemorazione degli eventi passati poteva suscitare nel tempo presente. La constatazione indignata dell’assenza di un monumento sul luogo della battaglia innesca propriamente le ragioni della narrazione. L’irruzione stessa dell’autore sulla scena del testo, che lamenta, con il consueto tono concitato ed esclamativo, l’indifferenza dei contemporanei per la gloria passata della nazione, serve appunto a dichiarare fin da subito le motivazioni che stanno alla base del monumento narrativo eretto attorno a Călugăreni.

Anche la seconda parte del prologo si svolge tutta nell’attualità, nella forma di un vero e proprio racconto nel racconto di tipo metaletterario, che conduce il lettore all’interno del tempo della scrittura e dell’elaborazione dell’opera:

Vai! Scriam aceste rânduri în anul 1847. Cine îmi vrea fi zis atunci că abia un an va trece, şi inima-mi va fi şi mai crud de durere ispitită.16

15 [Oggi questa valle è esattamente come ce la descrivono gli storici dell’epoca. Nessun monumento ci mostra che lì si svolse l’aspra lotta per la libertà! A tal punto siamo insensibili alla gloria nazionale! I Romeni ora passano indifferenti per questi luoghi santi, senza che nulla ricordi loro che la terra che caplestano è impastata del sangue dei padri e ricopre le ossa degli eroi]. 16 [Ahimé! Scrivevo queste righe nel 1847. Chi poteva prevedere che sarebbe passato solo un anno e il mio cuore sarebbe stato ancora più crudelmente irretito dal dolore!].

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Alla precisazione metaletteraria, segue la rievocazione di un episodio accaduto durante la rivoluzione del 1848, al quale lo stesso Bălcescu aveva preso parte. Benché lo spirito e le idee del Quarantotto romeno pervadano esplicitamente l’intera opera, questo è uno dei rari casi in cui vi sia la rappresentazione diretta di un avvenimento di quel periodo. La scena del racconto è vivace, dettagliata, ricca di colore e di pathos (una nota, addirittura, si incarica di fornire ulteriori precisazioni, confermando la veridicità del fatto): durante un’affollata assemblea popolare in uno dei club rivoluzionari della Capitale giunge la notizia che i Turchi avevano varcato i confini del Paese a Giurgiu e, come un tempo, erano piombati sul passo di Călugăreni. L’annuncio lascia i presenti del tutto freddi e indifferenti, nonostante l’autore e pochi altri reclamino indignati una reazione immediata, al grido di “Guerra e Vendetta!”, e cerchino di infiammare gli animi con il ricordo di coloro che, nel passato, si erano sacrificati per la libertà nazionale. Tutto è inutile. La scena si chiude circoscrivendo e isolando in primo piano la figura di Bălcescu stesso, che con gesto teatrale si copre gli occhi e il viso con le mani, secondo una classica e stereotipata iconografia della disperazione. L’exordium si conclude sulle parole pronunciate dall’autore in quell’occasione, un affranto grido di delusione, di intonazione quasi biblica:

Îmi ascunsei atunci ochii cu mâinile mele ca să nu mai vază această umilitoare privelişte şi din inima-mi zdrobită scăpă aceste cuvinte: „Dumnezeul părinţilor noştri ne-a părăsit! Părinţii noştri ne-au blestemat!“ (p. 96)17

Da un punto di vista retorico, ci troviamo di fronte,

anche in questo caso, ad un tipo di argomentazione che si fonda 17[Mi coprii allora gli occhi con le mani, perché non vedessero questo umiliante spettacolo e dal mio cuore affranto uscirono queste parole: “Il Dio dei nostri padri ci ha abbandonati! I nostri padri ci hanno maledetti!”].

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sul caso particolare, secondo le strategie di quella che Perelman e Olbrechts-Tyteca chiamano l’illustrazione. A differenza dell’exemplum vero e proprio (nel nostro caso, l’allusione alle Termopili), che ha il compito di dare un fondamento alla regola, l’illustrazione serve a «rafforzare l’adesione a una regola conosciuta e ammessa, fornendo dei casi particolari che chiariscono l’enunciato generale, mostrano l’interesse di quest’ultimo attraverso la varietà delle possibili applicazioni, aumentano la sua presenza nella coscienza».18 Indicare le analogie esistenti tra la battaglia di Călugăreni ed eventi recentissimi, legati ai moti rivoluzionari appena trascorsi, serve, ovviamente, a Bălcescu per mostrare la possibile applicazione all’attualità dell’episodio che intende raccontare, nonché per convincere i suoi lettori della necessità di costruire un dramma storico nazionale, che aggregasse e motivasse le coscienze attorno ad alcuni luoghi, figure ed eventi eroici di particolare forza visionaria.

La presenza dell’autore sulla scena, infine, il suo farsi personaggio drammatico e testimone oculare, rientra sempre nelle strategie argomentative fondate sull’exemplum e sull’illustrazione, procedimenti che devono poter colpire vivamente l’immaginazione, imporsi all’attenzione e alla coscienza dei destinatari del discorso e, di conseguenza, puntare sull’eco affettivo che soltanto un’immagine vivida o un episodio concreto e vicino possono suscitare.19 Letta in questa prospettiva, anche la descrizione topografica iniziale, con il suo accumulo di dettagli concretizzanti, acquista una giustificazione pienamente retorica. Bălcescu non fa altro che rispettare le regole classiche, fissate già da Quintiliano, della cosiddetta evidentia, secondo la quale le descrizioni di luoghi, di oggetti concreti, di avvenimenti collettivi,

18 Chaïm Perelman - Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino, 2001, p. 377 [ed. orig. Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, P.U.F., Paris, 1958]. 19 Ibid., pp. 378-83.

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che hanno uno scopo persuasivo, devono attenersi al principio della vividness, cioè di una visualizzazione dettagliata e vivace, che metta propriamente davanti agli occhi l’oggetto della descrizione, enumerando e distinguendo le sue parti e le sue caratteristiche.

Per mezzo di un accorto movimento di accerchiamento persuasivo, l’episodio di Călugăreni si trova dunque serrato tra due casi esemplari: da una parte, un modello ideale e lontano, come le Termopili, dall’altra una scena vicina e recentissima, che ci riporta nell’attualità della lotta per la libertà e l’unità nazionale. Solo una volta fissata questa prospettiva celebrativa ed eroica, la narrazione dei fatti può iniziare.

4. Bălcescu è un narratore d’eccezione. Accumula fatti

e dettagli fin quasi alla saturazione, ma riesce sempre a tirarsene fuori e a dominare la sua materia, facendo marciare sulla pagina, con mano sicura e con possente respiro epico, idee, personaggi e avvenimenti. Nella narrazione della battaglia di Călugăreni, in particolare, sa dosare attentamente le due dimensioni portanti della storia e della retorica: allenta per lunghi tratti le maglie del reticolo argomentativo, lasciando libero corso alla nuda esposizione dei fatti, per poi serrare le fila del discorso con interventi puntuali di tipo retorico-persuasivo. Se assumiamo come scopo o bersaglio generale dell’argomentazione la monumentalizzazione dell’episodio bellico di Călugăreni, è facile notare come le principali prove si trovino incorporate nella narrazione, manifestandosi per mezzo di procedimenti costanti di amplificazione emotiva, intellettuale e linguistica dei dati storici.

a) Il primo ‘luogo’ argomentativo è l’inferiorità numerica degli uomini di Mihai rispetto agli Ottomani, intesa come prova di eroismo e di abnegazione militare. Procedendo nel corso dell’esposizione, dalla pura e semplice dichiarazione del dato numerico (a.1),

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(a.1.) Într-adevăr, armata lui era, cum ştim, de 180 mii ostaşi, mai mult decât de zece ori mai mare ca a lui Mihai-Vodă, care, cu toate ajutoarele ce primi din Moldova şi Ardeal, d-abia se urca la 16 mii oameni şi 12 tunuri. (p. 96)20

si passa alla valutazione degli effetti che questo dato

provoca tra i combattenti delle due parti. Contrariamente a quanto si potrebbe presumere, infatti, l’esiguità numerica dei romeni suscita nei loro animi ardimento e desiderio di affrontare la battaglia (a.2), mentre instilla stupore, quindi titubanza e timore di non cadere in qualche tranello, negli Ottomani (a.3):

(a. 2.) Deşi puţini, ostaşii creştini erau însă plini de foc şi de dorinţă de a se măsura cu duşmanul. (p. 97)21

(a. 3.) Sinan se uită plin de mirare la puţinul număr al creştinilor, care cuteza a aştepta şi încă a izbi o armată aşa de numeroasă. (p. 97)22

Si tratta di un ragionamento che si fonda sul

rovesciamento di presunzioni molto comuni e che instaura, a fini persuasivi, quello che Perelman chiama un argomento di doppia gerarchia. In particolare, è la gerarchia dei fini che permette di fondare l’argomento, secondo quanto già Aristotele aveva determinato nei Topici: «...di due termini produttivi più desiderabile è quello il cui fine è migliore».23 Se al fine di evitare la sopraffazione e la sconfitta da parte di un nemico più

20 [Il suo esercito, appunto, contava 180 mila soldati, essendo dieci volte più numeroso di quello del principe Mihai, il quale, con tutti gli aiuti che aveva ricevuto dalla Moldavia e dalla Transilvania, a malapena raggiungeva i 16 mila uomini e i 12 cannoni ]. 21 [Benché fossero pochi, i soldati cristiani erano pieni di fuoco e desiderio di misurarsi col nemico]. 22 [Sinan guardò pieno di meraviglia l’esiguo numero dei cristiani, che osavano fronteggiare e addirittura attaccare un esercito tanto numeroso]. 23 Perelman - Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione cit., p. 358.

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forte, poteva sembrare ragionevole e desiderabile per i Romeni sottrarsi allo scontro, un fine migliore, più alto, vale a dire una lex potentior, interviene a rendere non solo desiderabile, ma anche lodevole affrontare il sacrificio e una possibile sconfitta. Non è un caso, infatti, che nell’ultima citazione del luogo argomentativo, prima della narrazione dello scontro risolutivo, si faccia allusione esplicitamente al tema del martirio e del pro patria mori, uno dei cardini cioè dell’etica e della retorica del patriottismo, attorno al quale ruota l’intera interpretazione della vicenda di Călugăreni (a.4):

(a.4.) Ei ştiau cât sunt de puţini pe lângă duşman, dar, credincioşi înfocaţi, inima lor ardea de dorinţa d-a-şi da viaţa pentru patrie şi lege şi d-a merita cununa martirilor. (p. 99)24

b) Fissare uno dei fuochi dell’argomentazione intorno al

motivo del “morire per la patria” significava inserire Călugăreni all’interno di una tradizione, ideologica e retorica, di lunghissima durata e di grande prestigio, profondamente radicata nella cultura occidentale, almeno fin dall’Antichità greca e romana.25 Per Bălcescu rappresenta, inoltre, il punto dal quale irradiano altre strategie persuasive che mirano, tutte insieme, alla creazione di una prospettiva altamente eroizzante e celebrativa all’interno della quale collocare l’episodio. Un secondo ‘luogo’ argomentativo, strettamente legato all’idea della consacrazione e del martirio, è fondato, infatti sul motivo della gloria. La prima esposizione del motivo avviene in chiave comparativa, confrontando la situazione dei Romeni con quella degli Ottomani, che per il loro ruolo di invasori illegittimi e per

24 [Essi sapevano quanto fossero pochi rispetto al nemico, ma, fervidi credenti, i loro cuori ardevano del desiderio di morire per la patria e guadagnarsi la corona del martirio]. 25 Sul motivo del “morire per la patria” è imprescindibile l’intervento di Ernst H. Kantorowicz, Pro Patria Mori in Medieval Political Thought, in «The American Historical Review», Vol. 56, No. 3, 1951, pp. 472-492.

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la loro stessa superiorità numerica non possono aspirare a guadagnarsi la gloria sul campo di Călugăreni. Difatti, Bălcescu osserva come i Turchi, paradossalmente, rimpiangessero che i romeni non fossero più numerosi, in modo da rendere più onorevole e gloriosa la vittoria dell’armata ottomana. Viceversa, la gloria dei romeni è determinata non solo sul piano del valore militare (motivo del martirio), ma anche su quello più specifico del loro ruolo storico di difensori della propria patria invasa e di baluardo della Cristianità europea:

(b.1) Turcii, îngâmfaţi de mica izbândă ce dobândiseră, cătau în râs la români şi aveau desigur că a doua zi se va vedea triumful islamismului, prin zdrobirea lui Mihai şi a armatei lui. Lor le părea rău numai că românii nu sunt îndestul de mulţi ca să facă biruinţa lor mai glorioasă. Ai noştri se pregătea a apăra cu bărbăţie acea strâmtoare care era cheia ţării lor şi a Europei creştine. (p. 98)26

L’idea della gloria imperitura acquisita dai romeni a

Călugăreni compare, in seguito, con funzioni di enfasi celebrativa all’inizio dei capitoli XV (b.2.) e XVI (b.3.), in posizione rilevante anche da un punto di vista strutturale:

(b.2.) În sfârşit, soarele veni să lumineze această mare zi de miercuri 13/23 august, menită a fi briliantul cel mai strălucit al cununei gloriei române. (p. 99)27

26 [I Turchi, tronfi per la piccola vittoria che avevano ottenuto, si facevano beffe dei romeni e tenevano per sicuro che l’indomani si sarebbe visto il trionfo dell’islam, con l’annientamento di Mihai e del suo esercito. Si rammaricavano soltanto che i romeni non fossero abbastanza numerosi da rendere la loro vittoria ancora più gloriosa. I nostri si preparavano a difendere con coraggio quella strettoia che era la chiave del loro paese e di tutta l’Europa cristiana]. 27 [Infine, il sole giunse a rischiarare questo grande giorno di mercoledì 13/23 agosto, destinato a diventare il diamante più splendido nella corona della gloria romena].

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(b.3.) ...şi ostaşii, inimaţi foarte împotriva turcilor, învăpăiaţi şi de aceste cuvinte, dar jaluzi încă mai mult d-a eclipsa printr-o biruinţă strălucită toate glorioasele biruinţe ale vecinilor, răspund învârtind în mâini paloşele şi lăncile şi prin strigări mari de o războinică veselie, cer de la domnul lor ca să-i ducă îndată către duşman. (p. 100)28

Il motivo ritorna, infine, ad apertura della perorazione

finale, corroborato sul piano dell’espressione da un rilevatissimo e artificioso giro sintattico (un ampio iperbato che disgiunge il dimostrativo dal nome al quale si riferisce), che ne sottolinea anche formalmente la centralità argomentativa (b.4):

(b. 4.) Astfel fu acea vrednică de o neştearsă aducere-aminte zi de bătaie de la Călugăreni, în care românii scriseră cu sabie şi cu sânge pagina cea mai strălucită din analele lor. De zece ori mai puţin numeroşi decât duşmanii, ei câştigară asupră-le o biruinţă strălucită şi avură gloria d-a învinge un general până-atunci încă neînvins. (p. 105)29

c) Un’altra strategia persuasiva, strettamente collegata

alle dinamiche di eroizzazione celebrativa, che abbiamo fin qui descritto, è quella che potremmo chiamare dell’amplificazione epica, intendendo amplificatio in senso tecnico-retorico, come «un graduale processo di ingrandimento di un dato naturale coi mezzi dell’arte, nell’interesse della utilitas causae».30 L’accrescimento verticale del dato storico, la sua dilatazione ed

28 [...e i soldati, fortemente rianimati contro i Turchi, infiammati da queste parole, ma ancor più desiderosi di eclissare per mezzo di una vittoria straordinaria tutte le gloriose vittorie dei vicini, rispondono brandendo le spade e le lance e con alte grida di gioia guerresca, chiedono al loro signore di condurli immediatamente incontro al nemico]. 29 [Tale fu quella giornata, degna di imperitura memoria, della battaglia di Călugăreni, in cui i romeni hanno scritto con il sangue e con la spada la pagina più illustre della loro storia. Dieci volte meno numerosi dei loro nemici, hanno riportato una splendida vittoria, ottenendo la gloria di sconfiggere un generale fino ad allora imbattuto]. 30 Cfr. Lausberg, Elementi cit., § 71-74.

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esagerazione, comporta in Bălcescu un travalicare i limiti della scrittura storiografica per accedere, appunto, a forme schiettamente epiche. Ciò accade, ad esempio, quando si trova a narrare l’apice del trionfo romeno, nel momento dello sbaragliamento delle truppe ottomane. Con raffinata tecnica narrativa, Bălcescu restringe repentinamente il quadro grandioso all’interno del quale aveva rappresentato lo scontro tra le grandi masse dei due eserciti, lasciando giganteggiare al centro della scena la figura solitaria e quasi sovrumana di Mihai. Il principe valacco si aggira in preda ad una inestinguibile furia guerriera nell’accampamento nemico, cercando di scovare uno a uno i capi ottomani. Scorgendo da lontano Hassan-Pascià, lo insegue a spada tratta, gridandogli di fermarsi e sfidandolo alla lotta corpo a corpo. Con le gambe tremanti di paura, Hassan si salverà nascondendosi comicamente in un roveto, da dove uscirà soltanto il giorno seguente. Si noti che questa stessa commistione di registri, per cui l’eroico e il sublime alternano e convivono con il comico, non è casuale, trattandosi bensì di un tratto autenticamente epico. L’indizio di epicità è, del resto, formulato esplicitamente nel riferimento diretto all’«immortale Omero»:

(c.1.) Într-acel minut, Mihai, precum odinioară semizeii cântaţi de nemuritorul Omir, alerga într-o parte şi într-alta prin tabăra turcească, căutând pe Sinan, când, văzând de departe pe Hassan-Paşa, se luă după dânsul strigându-i să stea de e viteaz, să se lupte cu dânsul piept la piept, şi când de când era să-l şi ajungă cu paloşul. (p.104)31

Su moduli epici è condotto anche l’altro mirabile

episodio che vede agire da solo sulla scena il principe Mihai,

31 [In quell’istante, Mihai, come un tempo i semidei cantati dall’immortale Omero, correva da una parte all’altra dell’accampamento turco, in cerca di Sinan, quando, scorgendo da lontano Hassan-Pascià, si mette ad inseguirlo, gridandogli di fermarsi, se aveva il coraggio, di lottare con lui corpo a corpo, e stava quasi per raggiungerlo con la spada].

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nella sua sortita temeraria prima dello scontro decisivo. Intuendo la necessità di un’azione esemplare che intimorisse gli avversari ed esaltasse gli animi dei propri uomini, Mihai si getta da solo tra le schiere degli Ottomani, fa strage di nemici, decapita con un unico micidiale colpo il comandante turco Caraiman-Pascià, ritorna, infine, miracolosamente illeso fra i suoi:

(c.2.) Ridicând ochii către cer, mărinimosul domn cheamă în ajutoru-i protecţia mântuitoare a Dumnezeului armatelor, smulge o secure ostăşească de la un soldat, se aruncă în coloana vrăjmaşă ce-l ameninţă mai de aproape, doboară pe toţi cei ce se încearcă a-i sta împotrivă, ajunge pe Caraiman-Paşa, îi zboară capul, izbeşte şi pe alte capete din vrăjmaşi şi, făcând minuni de vitejie, se întoarce la ai săi plin de trofee şi fără a fi rănit. (p. 103)32 L’impresa, fulminea e violenta, è narrata con mano

saldissima e con gusto sicuro e preciso per la rappresentazione dei gesti e delle azioni. La dimensione epica si manifesta pienamente non solo nella icastica evidenza delle immagini, come ad esempio il rapido baluginare della testa mozzata di Caraiman-Pascià, ma anche, e soprattutto, nell’aura eroica e sovrannaturale di cui è circonfusa la figura di Mihai. Sul piano dell’espressione, si noterà invece la serie paratattica e asindetica di frasi, tutte al presente storico (cheamă în ajutoriu-i..., smulge o secure..., se aruncă..., doboară pe toţi..., ajunge..., îi zboară..., izbeşte...), che svolgono il nucleo centrale dell’azione, secondo il classico incedere narrativo dell’epica tradizionale. Solo l’ultima frase, che sancisce la conclusione dell’impresa eroica, è introdotta da una congiunzione coordinante (şi...se întoarce), nonché incisa, in 32 [Alzando gli occhi al cielo, il coraggioso principe invoca in suo aiuto la protezione salvifica del Dio degli eserciti, strappa ad un soldato la sua scure, si getta nella schiera nemica che lo minaccia più da vicino, abbatte tutti quelli che tentano di resistergli, raggiunge Caraiman-Pascià, gli sbalza via la testa, colpisce altre teste di nemici e, facendo miracoli di prodezza, torna dai suoi illeso e carico di trofei].

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simmetria con l’inizio dell’episodio, da una subordinata al gerundio (făcând minuni de vitejie). Si tratta certamente di testimonianze dell’arte letteraria di Bălcescu, della sua consumata abilità di narratore, che sa trarre il massimo profitto dagli effetti stilistici della messa in scena. Non bisognerà, tuttavia, trascurare la funzione persuasiva di queste scene, il contributo che offrono alla strategia argomentativa nel suo complesso. Diversi procedimenti concorrono, infatti, a sostenere la tesi centrale della monumentalizzazione dell’episodio di Călugăreni, da quelli fondati sulla struttura del reale, e quindi sul ragionamento, come l’exemplum e l’argomento della doppia gerarchia, a quelli, invece, fondati sulla forza persuasiva del pathos. L’amplificazione epica sfrutta, appunto, la capacità dello stile eroico di ‘commuovere’ (movere), di provocare cioè emozioni intense e desiderio di emulazione. La persuasione, in questo caso, è parte organica della narrazione dei fatti, si esprime per mezzo di un invito implicito all’identificazione con un modello emotivamente efficace.

d) All’interno dell’esposizione dei dati e dei fatti storici si trova incorporata, in maniera altrettanto organica, la dimostrazione di un’altra tesi, che sta molto a cuore a Bălcescu, vale a dire l’eccellenza nell’arte militare raggiunta dai romeni sotto Mihai Viteazul, nonché il ruolo decisivo giocato dalla tattica bellica nella vittoria di Călugăreni. In questo caso, la persuasione si manifesta maggiormente sul piano della lexis, fondandosi sulle scelte espressive, sulla precisione tecnica e lessicale delle rappresentazioni, sulle figure di parola e di sintassi. Si veda, ad esempio, la descrizione della prima ritirata delle truppe romene, per Bălcescu un vero e proprio capolavoro di arte bellica:

(d.1.) Retragerea ei însă este frumoasă şi metodică. Spre a nu se lăsa a fi ocolită de turci, spartă şi risipită, ea se întocmeşte în figura unui colţ (cuneum) şi, slobozind astfel de toate laturile focuri

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asupra vrăjmaşului, se trage înapoi cu încetul, luptându-se nencetat. Această retragere este o minune de vitejie, de sânge rece şi de eroism. (p. 101)33

Qui sarà da notare, innanzi tutto, il lavoro di selezione

compiuto sul lessico e, in particolare, sull’aggettivazione, che punta, in massimo grado, ad ottenere effetti di perspicuità, adeguatezza e appropriata disinvoltura. Da un punto di vista stilistico, espressioni naturali ed efficaci come «retragerea ei însă este frumoasă şi metodică» vanno considerate una vera conquista per la lingua letteraria dell’epoca. Da un punto di vista retorico sono, invece, la messa in pratica della perspicuitas persuasiva, cioè della comprensibilità intellettuale, che fin da Aristotele rappresenta uno dei requisiti preliminari della credibilità dei discorsi, e quindi del loro successo e della loro capacità di creare persuasione. Come insegna la retorica classica, la perspicuitas si raggiunge «quando la singola parola pronunciata (o scritta) dall’oratore definisce con successo la cosa (res) che intende la voluntas dell’oratore medesimo».34 Questa ricerca dell’univocità è ben rappresentata dall’uso dei tecnicismi, come ad esempio, nel brano riportato, la chiosa cuneum, termine specialistico che precisa la particolare forma di schieramento dell’esercito. La forza persuasiva della descrizione è, infine, corroborata da una figura di ornatus, con la frase conclusiva che serra ritmicamente il discorso per mezzo di un classicissimo tricolon: «Această retragere este o minune de vitejie, de sânge rece şi de eroism».

Figure di corrispondenza e parallelismo sintattico ritornano con grande evidenza anche nella raffigurazione dello

33 [Nondimeno, la loro ritirata è bella e metodica. Per non lasciarsi circondare dai Turchi con le schiere sparse e divise, si dispongono in una formazione a punta (cuneum) e, facendo fuoco da ogni lato sui nemici, si tirano indietro lentamente, combattendo senza posa. Questa ritirata è un miracolo di coraggio, di sangue freddo e di eroismo]. 34 Lausberg, Elementi cit., § 134.

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scontro finale, con la funzione di mettere persuasivamente in rilievo l’azione coordinata, concentrica e perfettamente bilanciata delle truppe romene, dimostrando la loro superiorità tattica e militare. Bella e metodica (frumoasă şi metodică), la prosa di Bălcescu sembra anch’essa, come diceva Negoiţescu, schierata ordinatamente su un campo di battaglia:

(d.2.) Dar deodată se vede oprit în faţă de Mihai ca de un zid de piatră tare, în dos izbit cu o furie înfocată de căpitanul Cocea, şi în coastă trăsnit de tunurile aşezate pe deal de Albert Kiraly <...>. Îndărătnicul vizir, fără a-şi pierde cumpătul, izbuteşte a-şi întocmi oştile în rânduială, când o izbire nouă a lui Mihai în fruntea armiei, pustiirile furioase ale înfierbântatului Cocea de dinapoi, iutele şi ucigătorul foc al tunurilor lui Kiraly zdrobesc iarăşi această rânduială... (p. 103)35 Qui, l’azione parallela e concomitante dei tre

raggruppamenti dell’esercito romeno, che impegnano da tre lati lo schieramento ottomano, si riflette plasticamente, sul piano testuale, in un triplice parallelismo sintattico, ripetuto in due serie anch’esse parallele di sintagmi armonicamente corrispondenti.

e) Un’ulteriore verifica della preminenza della dimensione retorica all’interno dell’episodio di Călugăreni è offerta dall’inserimento all’interno del testo dell’allocuzione esortativa rivolta da Mihai Viteazul alle sue truppe prima della battaglia. Anche in questo caso Bălcescu si confronta con un genere retorico cristallizzato e radicato profondamente nella prassi del racconto storiografico fin dall’Antichità. Preceduto

35 [Ma ad un tratto, si vede bloccato sul davanti da Mihai come da un muro di dura pietra, urtato da dietro con furia infuocata dal capitano Cocea, e ai lati folgorato dai cannoni collocati sulla collina da Albert Kiraly <...>. L’ostinato vizir, senza perdersi d’animo, riesce a ricompattare le proprie schiere, quando un nuovo urto di Mihai sul davanti dello schieramento, le furibonde devastazioni dell’infuocato Cocea sul dietro, i colpi veloci e micidiali dei cannoni di Kiraly, infrangono di nuovo questo schieramento].

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dalla preghiera collettiva dell’intero esercito romeno, che conferisce alla scena una forte solennità rituale, il discorso di Mihai alle truppe è costruito secondo le regole del genere deliberativo, esponendo ordinatamente le argomentazioni a favore della decisione di sferrare l’attacco. Le prove e i luoghi argomentativi sono, in gran parte, i medesimi che vengono utilizzati da Bălcescu nel corso dell’esposizione dei fatti storici per sostenere il processo di monumentalizzazione esemplare di Călugăreni. L’allocuzione di Mihai si struttura, in particolare, intorno a tre luoghi argomentativi. Il primo si potrebbe chiamare l’argomento del kairos, che fa leva cioè sull’opportunità irripetibile offerta dal luogo e dal momento. A questo argomento corrispondono nel corso dell’esposizione storiografica la descriptio loci iniziale e in parte l’exemplum delle Termopili:

(e.1.) Apoi, îndreptându-se către dânşii, le zise: să-şi aducă aminte de vechea lor vitejie, căci ocazia de acum este frumoasă şi de o vor pierde, anevoie o vor mai căpăta. Turcii, le zicea el, sunt uimiţi de atâtea pierderi, cetăţile lor din toate părţile sunt cuprinse <...>. Pe lângă aceasta, locul de bătaie nu putea fi mai bine ales, de vreme ce mulţimea lor aci le va fi nefolositoare. (p. 99)36

Il secondo argomento portato da Mihai è quello della gloria, perfettamente coincidente con le diverse occorrenze del medesimo tema persuasivo all’interno dell’intero episodio:

(e.2.) ...din câte capete au avut armatele lor, numai unul a rămas care mai îndrăzneşte a ţine frunte creştinilor, că cu dânsul au a se lupta şi gloria d-a-l birui va fi foarte mare. (p. 99)

36 [Poi, rivolgendosi a loro, li esortò a ricordarsi del loro antico coraggio, giacché l’occasione era bella e, se l’avessero mancata, difficilmente l’avrebbero riavuta. I Turchi, diceva, sono sgomenti per le tante perdite, le loro roccaforti sono circondate da ogni parte <...>. Oltre a questo, il luogo della battaglia non poteva essere migliore, dal momento che qui la loro moltitudine non poteva favorirli].

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În sfârşit, încheie zicând că acum pot şi românii dobândi o asemenea glorie, căci toate dovedesc că vor avea aceeaşi norocire. (p. 100)37 Infine, il principe espone ai suoi soldati le ragioni della

legittimità della loro posizione e della ‘giusta causa’ per la quale sono chiamati a comabattere. Opponendosi agli Ottomani, infatti, essi contrastano un invasore illegittimo e combattono per la libertà della propria patria, difendendo al contempo un principio generale dello ius gentium:

(e.3.) ... că a venit vremea de a se lupta puternic pentru libertate, iar mai cu seamă pentru cinstea legei, ca să dovedească turcilor că, de le-au călcat ei înainte patria, a fost numai din pricina neunirei lor. (p. 100)38

La menzione della necessità di lottare per la difesa e

l’affermazione di un principio astratto di lealtà (cinstea legei), rappresenta il ricorso al classico strumento argomentativo della infinitizzazione,39 attuata mediante il passaggio da una quaestio finita, rapportata cioè a persone individualizzate e a circostanze concrete (“l’invasione armata degli Ottomani del territorio della Valacchia nel 1595”), ad una quaestio infinita, come poteva essere il diritto dei popoli alla libertà e all’integrità territoriale. Si noti che tale processo di infinitizzazione è

37 [...di tutti i capi che avevano comandato i loro eserciti, uno solo ne era rimasto, che osasse ancora tenere testa ai cristiani, con lui dovevano combattere e la gloria di sconfiggerlo sarebbe stata molto grande. Infine, conclude, dicendo che ora anche i Romeni potevano conquistare una simile gloria, poiché tutto quanto mostrava che avrebbero avuto la medesima fortuna]. 38 [...era giunto il momento di lottare con tutte le forze per la libertà, e soprattutto per la difesa di un principio generale di lealtà, dimostrando ai Turchi, che per primi avevano invaso il loro paese, che ciò era stato possibile solo a causa della loro disunione]. 39 Cfr. Lausberg, Elementi cit., § 81.

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perfettamente in linea con le strategie argomentative dell’intera opera storiografica di Bălcescu, nella cui prospettiva, la narrazione del passato glorioso dei romeni doveva servire nel presente, in chiave persuasiva e modellizzante, alla lotta per la libertà e l’auto-determinazione nazionale.

5. In un articolo recente dedicato alla lingua romena al momento della rivoluzione del 1848, Florica Dimitrescu ha sostenuto, con buone ragioni, che il volto moderno e attuale del romeno si è formato, in gran parte, all’interno della generazione degli scrittori, dei letterati e dei patrioti del Quarantotto.40 All’interno di un intenso processo di modernizzazione e di occidentalizzazione della lingua e della cultura romene, sono affluite, nel lessico colto e letterario, nelle più diverse sfere di applicazione concettuale, quantità straordinarie di neologismi, prestiti e calchi dalle lingue romanze e non romanze dell’Europa occidentale, tanto da mutare per sempre l’aspetto della lingua nazionale. Di conseguenza, molti fenomeni moderni e contemporanei che riguardano l’ambito del discorso pubblico e il lessico sociale e politico, affondano le loro radici nella lingua degli scrittori e degli intellettuali paşoptişti.

Allo stesso modo, potremmo affermare che nell’opera storiografica di Bălcescu, sia stato plasmato il linguaggio del patriottismo romeno, nato, come abbiamo cercato fin qui di mostrare, da una originale commistione fra storia e retorica, dall’interferenza e dal reciproco condizionamento di queste due dimensioni discorsive. Molto probabilmente è da qui che dovrà ripartire chiunque vorrà valutare, decostruire o forse salvare quello che resta del patriottismo romeno, dei suoi miti, delle sue strutture ideologiche e del linguaggio che le sorregge. Una

40 Cfr. Florica Dimitrescu, Consideraţii asupra limbii române de la 1848. Lexicul social-politic în “Pruncul român”, in Ead., Drumul neîntrerupt al limbii române, Clusium, Cluj-Napoca, 2002, pp. 40-65.

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corrretta ed equanime valutazione del valore letterario dell’opera di Bălcescu non potrà, ovviamente, eludere questo nodo problematico. Così come, forse, dovrà scioglierne un altro, che riguarda l’aberrante manipolazione a cui è stata sottoposta la lingua del patriottismo romantico romeno all’interno della propaganda comunista. Certo, è difficile leggere oggi la nobile e raffinata retorica di Românii supt Mihai-Voievod Viteazul senza sentir risuonare in sottofondo lo sgradevole suono della limbă de lemn, le parole d’ordine e le frasi fatte che per tanto tempo hanno funestato il discorso pubblico in Romania. Anche in questo caso, crediamo possa essere utile affrontare di nuovo, in maniera sistematica, la questione della retorica, valutando il suo ruolo all’interno della scritura storiografica di Bălcescu e degli altri storici romantici, e valutando su basi rinnovate i rapporti che legano storia e retorica, da un parte, retorica e verità, dall’altra. Fin da Platone, del resto, sappiamo che esistono due diversi tipi di retorica, o meglio due diversi usi degli strumenti emotivi e argomentativi dell’arte retorica, un’arte anfibia, che può essere posta indifferentemente al servizio della verità e della giustiza oppure del sopruso e della menzogna.

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SORIN ŞIPOŞ

Silviu Dragomir e la Securitate: le note informative del dossier di

pedinamento (1957-1962)

1. Il contesto dell’apertura del dossier

Silviu Dragomir si è fatto conoscere in diversa misura

come storico e come uomo politico. Se si eccettua, forse, il periodo in cui ricoprì le cariche di segretario di stato e ministro delle minoranze, la sua attività politica non è stata di particolare rilievo, anche confrontandola con quella svolta da altri suoi colleghi storici. Tuttavia, fu proprio il suo impegno politico a causargli gravi problemi dopo il 1947. Il professor Dragomir, infatti, venne arrestato il 1 luglio 1949 a Cluj1 e trasferito ulteriormente nel Penitenziario di Caransebeş, per scontare una condanna a sei mesi di carcere correzionale per reati contro la Legge bancaria, a cui si aggiungeva un’ammenda correzionale di 2 600 000 lei2. L’ammenda correzionale venne, in seguito, sostituita con un anno di prigione, dimodoché Silviu Dragomir venne condannato complessivamente a un anno e sei mesi di carcere correzionale.3 Il 6 maggio 1950 Silviu Dragomir venne

1 La richiesta indirizzata da Silviu Dragomir al Presidente del Presidio della Grande Assemblea Nazionale, si trova nell’archivio della famiglia Enescu. 2 In conformità con la decisione presa nella seduta della camera di consiglio del 29 dicembre 1948 «la corte dispone che la menzione in solido venga sostituita con le parole ammenda correzionale di 2 600 000 lei ciascuno» (Archivi Nazionali –Direzione Regionale Hunedoara [d’ora in poi: A.N.-D.J. Hunedoara], Fondo Silviu Dragomir, dossier no. 4, p. 23). 3 «Condannato dalla Corte di Appello di Cluj il 6 novembrie 1948 per reati contro la Legge sulla Banca di Stato a 6 mesi di carcere e a un’ammenda in denaro trasformata in un anno di detenzione, sono stato arrestato a Cluj nel luglio del 1949, la mia liberazione essendo prevista per il 27 dicembre 1950»

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trasferito nel carcere di Sighet, accanto ad altri uomini politici e intellettuali prima arrestati e ivi incarcerati. Bisogna precisare che Silviu Dragomir e gli altri uomini di Stato e intellettuali rinchiusi a Sighet tra il 6 e il 7 maggio del 1950, furono trattenuti senza alcun fondamento legale. Solo il 1 agosto, con la Decisione M.A.I. [Ministero degli Affari Interni] no. 334, firmata dal vice ministro, il tenente colonnello Gheorghe Pintilie, 89 ex uomini di stato furono trasferiti per un periodo di 24 mesi in una unità di lavoro. Nel caso di Silviu Dragomir, la condanna da scontare era di 38 mesi. La condanna amministrativa di tutti quelli che avevano ricoperto cariche pubbliche venne però incrementata, senza diritto di appello, di altri 60 mesi con la Decisione M.A.I. no. 559, firmata, il 6 agosto 1953, per conto del presidente della Commissione della Sicurezza dello Stato da Alexandru Nicolschi4.

Silviu Dragomir e gli altri uomini politici rimasero a Sighet fino al 6 luglio 1955, quando alcuni di loro furono messi in libertà ed altri trasferiti in altre prigioni5. Subito dopo il suo rilascio dal penitenziario, Silviu Dragomir rientrò nel mirino della Securitate, che ottenne alcune note informative sullo storico, dopo un primo momento di disorientamento degli ufficiali, che non conoscevano il suo domicilio. È probabile che Dragomir non venisse subito preso in considerazione, dopo la sua scarcerazione, anche a causa della sua età avanzata6. Informazioni più cospicue (L’Autobiografia dell’autore tratta da A.N.-D.J. Hunedoara, Il fondo Silviu Dragomir, dossier no. 4). 4 Claudiu Secaşiu, Contribuţii privind distrugerea elitei politice româneşti, în Memoria închisorii Sighet, Editor Romulus Rusan, Bucureşti, 1999, p. 263. 5 In conformità con il Biglietto di liberazione no. 193 534 del 1956, Silviu Dragomir fu rilasciato il 9 giugno del 1955 (A.N.-D.J. Hunedoara, fondo Silviu Dragomir, dossier no. 4). La messa in libertà del 9 giugno è confermata anche dal biglietto speciale di viaggio Sighet-Cluj, III classe, serie A, no. 0635301, a nome di Silviu Dragomir (Ibidem). 6 «Il nominato Dragomir Silviu, ex-ministro, è stato per diversi anni incarcerato, nell’estate del 1955 è stato messo in libertà, in presente è disoccupato; d’altronde è in età avanzata – 77 anni. È troppo anziano per essere preso in considerazione» (Nota del 13 settembre 1955, in Consiglio

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su Silviu Dragomir risalgono al momento dell’identificazione di tutti i membri della ex Associazione Romeno-Americana di Cluj, di cui Dragomir era stato presidente per la Transilvania nel periodo 1946-19477. L’azione venne condotta dal tenente Vasile Hirişcău, non essendo indirizzata specialmente contro Silviu Dragomir. Inoltre, fino al gennaio del 1958, Dragomir si trovava sotto osservazione, in qualità di membro di spicco del P.N.C. [Partito Nazionale Cristiano], da parte dell’Ufficio 1 (che aveva come compito il problema «dei legionari e dei seguaci di Cuza»), facente parte del Servizio III (Direzione Controinformazioni Interne) della Direzione Generale della Securitate di Cluj8.

Il 7 marzo 1957, l’Ufficio no. 2 del Servizio III (che si occupava del P.N.Ţ. [Partito Nazionale Contadino] e del P.N.L. [Partito Nazionale Liberale]) aprì un dossier di pedinamento informativo su Iuliu Moldovan, ex ministro della Sanità del P.N.Ţ9. Nel piano di lavoro realizzato all’apertura del dossier, era previsto che «tramite l’ex agente Chioreanu venisse stabilito l’entourage di amici, e che in seguito il più adatto, fosse assunto come agente»10. Durante la sorveglienza dell’ex ministro, gli informatori avvisarono la Securitate che una delle persone più vicine a Iuliu Moldovan era Silviu Dragomir, suo collega durante la detenzione a Sighet, che lo visitava spesso e con il quale aveva incontri periodici in città. In queste condizioni, Silviu Dragomir diventa candidato al

Nazionale per lo Studio degli Archivi della Securitate (d’ora in poi: CNSAS), il dossier Silviu Dragomir, I 513, p. 8. Ibidem, p. 10. L’ufficiale che ha scritto la nota ha sbagliato quando ha calcolato l’età dello storico, in realtà Silviu Dragomir aveva 67 anni. 7 Liviu Pleşa, Dosarul de Securitate al istoricului Silviu Dragomir, in «Annales Universitatis Apulensis». Series Historica, tom IX, 2005, Alba Iulia, pp. 217-229. Vedi anche Id., Istoricul Silviu Dragomir în plasa Securităţii, in «Dosarele Istoriei», no. 11, 2005, p. 43. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem.

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reclutamento, ragione per cui la Securitate comincia a raccogliere dati sulla sua attività.

Il 26 luglio 1957, l’informatore “Pânzaru”, diretto dal tenente maggiore Constantin Ciubotariu, rileva in un nota informativa che «Silviu Dragomir non parla mai del regime di detenzione. Quando gli viene chiesto com’era, risponde “come in carcere” e cambia subito discorso. È molto prudente in tutte le sue manifestazioni ed evita di parlare di politica»11. Dopo aver accenanto al fatto che Silviu Dragomir era stato membro della direzione dell’Associazione Romeno-Americana, l’ufficiale incaricava l’agente di «abbordare anche problemi politici attuali riguardanti la situazione interna ed internazionale»12.

I risultati dell’investigazione non furono quelli desiderati, cossicchè la Securitate decise di rinunciare al reclutamento di Silviu Dragomir, tanto più che egli era entrato nella sfera d’attenzione degli organi di repressione in quanto sospettato di spionaggio a favore degli inglesi13. L’occasione era stata la visita di una delegazione di parlamentari inglesi a Cluj, nel settembre del 1957. Tra i membri della delegazione c’era anche il lord Oswald St., sospettato dalla Securitate di essere un collaboratore del servizio di spionaggio inglese14. Di conseguenza, i membri della delegazione furono sorvegliati durante il periodo del loro soggiorno in Romania. In tal modo, il Servizio di Sicurezza fu informato da Tiberiu Holan, vicepresidente del Consiglio comunale popolare di Cluj, accompagnatore della delegazione,

11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 «Dai materiali che abbiamo – dichiarazioni – risulta: durante il mese di settembre si spostò a Cluj la delegazione parlamentare inglese, che includeva anche il lord Oswald St., supposto agente del servizio inglese di spionaggio. Ulteriormente fu identificato come persona di contatto del profugo Raţiu Ioan, in Inghilterra, il quale sta svolgendo attività di spionaggio contro il nostro paese». La decisione di apertura del dossier di verifica su Silviu Dragomir, 30 gennaio 1958, in CNSAS, il dossier Silviu Dragomir, I 513, p. 8.

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che il lord inglese un giorno aveva abbandonato la delegazione per qualche ora, e che si era messo in contatto con diverse persone che avevano avuto incarichi nei governi interbellici15. Benché non offrisse altri dettagli sulle persone incontrate dal delegato inglese, l’informatore ha dichiarato nel rapporto consegnato alla Securitate che quest’ultimo aveva un elenco con i nomi di alcune persone di Cluj, tra i quali c’era anche Silviu Dragomir. Il fatto che accanto a questo nome ci fosse un segno a matita, aveva persuaso l’informatore che i due si fossero incontrati16. Dopo questo avvenimento, la Direzione Regionale Cluj che funzionava presso il Ministero degli Affari Esteri ha inoltrato il rapporto no. 221/21210 del 16 ottobre 1957 alla Direzione II del Ministero degli Affari Interni, nel quale presentava la situazione emersa durante la visita della delegazione parlamentare inglese a Cluj. La Direzione II del Ministero degli Affari Interni, con il telegramma no. 488 del 29 ottobre 1957, firmata dal tenente–colonnello Holingher, dieci giorni dopo aver ricevuto il rapporto da Cluj, chiedeva alla Direzione Regionale Cluj di comunicare urgentemente «il risultato dell’identificazione e della verifica dei sopranominati Agârbiceanu Ion e Dragomir»17. In meno di un mese dalla richiesta rivolta dalla Direzione II di Bucarest, la Direzione Regionale di Cluj rilascia una prima nota su Silviu Dragomir18. La nota comprendeva una presentazione generale dell’attività politica e scientifica svolta dallo storico nel periodo interbellico e nei primi anni del dopoguerra. Interessante è il fatto che i dati siano stati ricavati dal dossier del Servizio “C“, no. 4

15 Ibidem, p. 18. 16 «Il Lord Oswald St. possedeva un elenco con i nomi di varie persone, tra le quali fu identificato anche DRAGOMIR SILVIU, con il quale si suppone fosse entrato in contatto, ma non si conosce il motivo» (La decisione di apertura del dossier di verifica su Silviu Dragomir, 30 gennaio 1958, in Ibidem, p. 8). 17 Telegramma. Alla DIR. REG. M.A.I. Cluj, Ibidem, p. 18. 18 Nota riguardante la persona del nominato DRAGOMIR SILVIU, 21 XI 1957, Ibidem, p. 11.

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202, in base al quale si era deciso, molto probabilmente, il trasferimento dello storico da Caransebeş nel carcere di Sighet e il prolungamento della detenzione. L’ufficiale notava la partecipazione di Silviu Dragomir al governo Goga-Cuza, l’attività svolta nell’ambito dell’Associazione Romeno-Americana tra gli anni 1945-1946, il suo coinvolgimento nel processo agli ex dirigenti della Banca Agraria di Cluj, la condanna e la prigionia a Caransebeş e la detenzione a Sighet. Possiamo rilevare che nella nota il nome dello storico è spesso associato con il Partito Nazionale Contadino e con persone messe sotto osservazione dalla Sicurezza dello Stato. Così succede anche quando si parla della Banca Agraria di Cluj dove, tra parentesi, l’ufficiale scrive che si tratta della banca del Partito Nazionale Contadino, ma anche nel caso dei rapporti di amicizia con Emil Sabău, ex redattore di alcuni giornali del PNŢ, che ha rapporti di parentela con Ion Raţiu, in quel periodo rifugiato in Inghilterra, e con Vasile Tarţa, ex direttore della Banca Agraria di Cluj, che era la persona di contatto dell’ex console inglese a Cluj19. Con la lettera no. 222/21 348 del 17 dicembre 1957 la Direzione Generale Cluj inviava alla Direzione II di Bucarest le informazioni richieste20. In generale, il rapporto contiene informazioni simili alla nota interna del 21 novembre. La novità consiste nella valutazione della situazione in cui si trovava Silviu Dragomir in quel momento: «Adesso viene utilizzato per certi lavori a carattere storico dall’Istituto di Storia di Cluj» 21.

Oltre alle informazioni con carattere biografico, c’è da rilevare l’interesse delle autorità per l’attività politica svolta dallo storico nel periodo interbellico e per le relazioni stabilite con gli uomini politici del passato sia romeni che stranieri. La Securitate ha proceduto a un’azione di verifica di Silviu Dragomir per

19 Ibidem. 20 Lettera della Direzione Regionale Cluj, del 17 dicembre 1957, indirizzata al Ministero degli Affari Interni. Direzione II Bucarest, Ibidem, pp. 19-20. 21 Ibidem, p. 20.

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ottenere informazioni sull’attività politica svolta nel periodo interbellico. Le informazioni riguardanti lo storico sono state ottenute con grande difficoltà, perché una volta uscito dal carcere lo storico era vissuto abbastanza isolato e non era stato messo sotto osservazione dal servizio. Esiste, tuttavia, un dossier a nome di Dragomir in carico alla Sezione “C“, ed anche un certo interesse, collaterale, come abbiamo visto, per lo storico.

Dai dati ottenuti fino a quel momento risultava che lo storico era stato implicato in politica, aveva ricoperto cariche pubbliche nei regimi politici interbellici ed era stato membro del Partito Nazionale Contadino22. Silviu Dragomir ha fatto politica e ha effettivamente ricoperto cariche importanti per un breve periodo di tempo, ma non era stato membro del Partito Nazionale Contadino. Il tragitto politico di Silviu Dragomir era diverso, essendo stato membro del Partido Nazionale Cristiano guidato da Octavian Goga nel periodo in cui ricoprì cariche ministeriali, poi diventando membro del Fronte della Rinascita Nazionale, se prendiamo sempre in considerazione il periodo in cui ricoprì cariche ministeriali. Lo storico fu anche Segretario di Stato per le minoranze, con poteri di ministro, nel periodo in cui Octavian Goga era primo ministro, e poi ministro delle minoranze da parte del Fronte della Rinascita Nazionale. Non fu mai tuttavia membro del Partito Nazionale Contadino.

Interessante per capire i mecanismi del regime comunista è anche l’annotazione del fatto che lo storico fosse stato membro fondatore dell’Associazione Romeno-Americana. Ovviamente, ciò incrementava i sospetti da parte delle autorità. Nella nota di verifica esiste anche una breve presentazione dell’attività scientifica svolta da Silviu Dragomir, con speciale riguardo al periodo 1937-1945, ma anche informazioni sui legami avuti con

22 «Verificandosi l’attività svolta nel passato da Dragomir Silviu, risultò che egli fu membro di spicco del P.N.Ţ, ex ministro nel governo P.N.Ţ. e membro fondatore dell’Associazione Romeno-Americana di Sibiu e poi di Cluj» (Ibidem, p. 8).

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altri storici ocidentali23. C’è da rilevare inoltre la presenza di numerosi errori riguardanti Dragomir nei documenti del Servizio di Sicurezza. Come abbiamo visto, la sua attività politica viene collegata al Partito Nazionale Contadino, dal periodo della detenzione a Sighet sono esclusi i primi anni, e il luogo di nascita è indicato come Curaşada invece di Gurasada, com’era invece corretto.

Le informazioni raccolte su Silviu Dragomir erano in grado di destare sospetti nella Securitate. In quel periodo, lo ricordiamo, chi aveva fatto politica nel periodo interbellico o negli anni del maresciallo Ion Antonescu, era considerato un nemico o un potenziale nemico del regime comunista. I comunisti hanno criticato e condannato, soprattutto dopo aver conseguito il potere, i regimi politici del periodo interbellico. Allo stesso modo, i legami politici o professionali che gli intellettuali o gli uomini di scienza avevano stabilito nel periodo interbellico con il potere politico, non erano visti di buon occhio.

Di conseguenza, il capitano Nicolae Pîra e il tenente Ioan Sălişteanu presentano, il 30 gennaio 1958, al capo della direzione, il tenente colonnello Iosif Breban, la proposta dell’apertura di un dossier di verifica per Silviu Dragomir, in seguito alle informazioni conseguite sullo storico24. «Da quanto detto sopra» conclude l’ufficiale, «risulta che Silviu Dragomir è sospettato di attività informativa a favore del servizio di spionaggio inglese, perciò sarà sottoposto a osservazione operativa in quanto sospetto di spionaggio»25. Per stabilire la colpevolezza o, al contrario, l’innocenza di Silviu Dragomir, gli ufficiali propongono, nel tipico linguaggio dell’epoca, «di stabilire dei dati che confermino

23 «Viene considerato unei dei più seri specialisti nei problemi transilvani, ragione per la quale nel periodo 1937-1944 ebbe un ricca corrispondenza con la cerchia dei francesi e degli inglesi, essendo amico di Seaton-Watson» (Ibidem, p. 9). 24 Ibidem, pp. 8-9. 25 Ibidem, p. 9.

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o neghino i sospetti che si addensano sopra la sua persona. […]. La verifica si sarebbe svolta tra il 10 febbraio e il 10 agosto del 1958»26.

La proposta viene accolta dal capo della Direzione Regionale Cluj del Ministero degli Affari Interni, il tenente colonnello Breban. Al momento della firma del documento, l’ufficiale superiore annotò la seguente frase: «Che si tenga conto della sua età» 27. Si può ipotizzare, a questo proposito, l’esistenza di intenzioni sincere e umane da parte del tenente colonnello Iosif Breban. Analizzando la frase nel contesto dell’epoca, il messaggio trasmesso è piuttosto quello di indurre gli ufficiali alla prudenza, proprio per non complicare inutilmente le cose.

La decisione di aprire un dossier di verifica a nome di Silviu Dragomir è stata presa in seguito ad una intensa corrispondenza con la Direzione II di Bucarest all’interno del Ministero degli Affari Interni, e evidentemente dopo una verifica preliminare sullo storico.

Nello stesso periodo, Dragomir fu sorvegliato anche indirettamente, finendo sotto osservazione da parte degli organi dello stato a causa dei suoi ottimi rapporti con Iuliu Moldovan28, sul quale era stato aperto un dossier di pedinamento.

2. Gli ufficiali e gli agenti

Silviu Dragomir ha goduto di un’attenzione speciale da

parte degli ufficiali della Securitate, benché fosse pedinato solamente all’interno di un dossier di verifica. Undici ufficiali della Securitate si sono occupati dello storico di Cluj nell’intervallo tra il febbraio 1958 e il 22 febbraio del 1962, durante le verifiche riguardanti il problema di spionaggio a favore

26 Ibidem, p. 8. 27 Ibidem. 28 «Silviu Dragomir è presente come contatto nel dossier individuale no. 743 riguardante Iuliu Moldovan», in CNSAS, Dossier I 512/1, p. 1.

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dell’Inghilterra, quelle all’interno del suo vecchio fascicolo in qualità di ex membro del governo Goga-Cuza e, collateralmente, all’interno del dossier aperto a nome di Iuliu Moldovan. Troviamo informazioni sugli ufficiali che sorvegliarono Dragomir sia nei rapporti redatti da loro stessi sia nelle note informative fornite dai collaboratori della Securitate. Nel dossier di Silviu Dragomir sono menzionati i seguenti ufficiali della Securitate: il capitano Alexandru Pereş, che ha scritto un nota su Dragomir; il maggiore Ioan Hancheş, che ha partecipato a tre incontri con gli agenti che fornivano informazioni sullo storico; il capitano Ilie Puşcău, che è stato presente a due incontri; il capitano Ioan Gocan, presente ad un incontro con un agente; il capitano Ioan Căbulea, presente ad un unico incontro; il capitano Constantin Ciubotar, che ha partecipato a due incontri; il tenente maggiore Constantin Banciu, che ha scritto una nota e ha partecipato a 5 incontri con gli agenti; il tenente maggiore Ioan Sălişteanu, che ha steso una nota e ha partecipato a 10 incontri; il tenente maggiore Nicolae Domniţa presente a due incontri con gli agenti; il tenente maggiore Emil Mărgineanu presente ad un incontro; il tenente Andrei Maroşi, che ha partecipato solo ad un incontro.

Nella maggior parte dei casi l’attività degli ufficiali si limita a uno, al massimo due incontri con gli agenti e alla stesura di un rapporto per i loro superiori. Esistono però anche delle eccezioni! Il tenente Sălişteanu, uno degli ufficiali che si occupavano dello storico, ha partecipato a 10 incontri e ha scritto una nota informativa per i suoi superiori, come ha fatto anche il tenente maggiore Constantin Banciu che ha steso una nota e ha partecipato a 5 incontri con gli informatori della Securitate. Erano entrambi ufficiali incaricati di risolvere il dossier dello storico in pensione. Tranne il maggiore Hancheş che ha partecipato a tre incontri e i capitani Puşcaşu e Gocan che hanno cercato di ottenere informazioni, tramite gli agenti, da Silviu Dragomir su Iuliu Moldovan, gli altri otto erano coinvolti nell’attività di reperimento delle prove all’interno del dossier di verifica su Silviu Dragomir riguardante il problema dello spionaggio inglese.

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Perché assistiamo ad una mobilitazione così imponente nel caso di Silviu Dragomir? Molto probabilmente, il gran numero di ufficiali che lavorarono a questo caso è dovuto al fatto che, in quel momento, Silviu Dragomir viveva molto isolato ed entrava in contatto con poche persone di fiducia. La Securitate fu obbligata a usare tutti gli ufficiali che avevano collaboratori tra le persone dell’ambiente familiare di Dragomir.

Un altro possibile indizio sull’interesse dimostrato dalla Securitate per lo storico potrebbe essere costituito dal grado e dalla posizione gerarchica degli ufficiali coinvolti nel processo di verifica. Gli ufficiali che hanno lavorato per il dossier di Iuliu Moldovan, dove Silviu Dragomir era un personaggio secondario, avevano gradi superiori. Non crediamo che sia solo una coincidenza. L’esperienza di questi ufficiali aveva indotto i loro superiori a utilizzarli per risolvere i casi più importanti. Nel dossier di verifica su Iuliu Moldovan, la Securitate voleva trovare dati sulla reticulina, prodotto inventato dal medico e molto apprezzato all’epoca. Alcune note e relazioni fornite dagli ufficiali arrivarono al Ministero dell’Interno, al primo segretario della regione Cluj e al capo della Securitate, il che dimostra l’interesse del regime per Iuliu Moldovan e per le sue scoperte scientifiche. In altre parole, il regime comunista cercava soluzioni, almeno in questo caso, per la reintegrazione degli specialisti del periodo interbellico, anche se alcuni di loro non si erano conformati dal punto di vista ideologico.

La Securitate si avvalse di agenti/informatori per raccogliere informazioni sull’attività svolta da Dragomir. È difficile stabilire, allo stato attuale delle ricerche, la vera identità degli agenti. E non ci proponiamo di farlo. Ci interessa, invece, stabilire il modo in cui la Securitate agì nel caso di Dragomir.

Dal punto di visto metodologico, dobbiamo precisare che le note informative sono state analizzate ed interpretate nel contesto generale dell’epoca. La nostra attenzione si rivolge a tutte le persone ricordate nelle note informative scritte dagli agenti

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Sanda Predescu, Ernest Szarka, Axinteanu e Ionescu, menzionati nel rapporto finale della Securitate29.

Allo stesso modo, un futuro lavoro di identificazione degli informatori dovrebbe essere accompagnato dall’analisi del contesto e delle ragioni che hanno portato alla collaborazione, nonché a un’attenta verifica delle informazioni stesse. Alcuni informatori offrono dati veridici sulla persona sorvegliata dalla Securitate, e dal testo traspare spesso anche una certa simpatia nei confronti del personaggio pedinato, altri invece offrono spesso informazioni e apprezzamenti tendenziosi.

Accanto agli informatori già nominati vi furono anche altri agenti che hanno redatto note su Silviu Dragomir, cosicchè il numero degli agenti salirebbe a 13. Dobbiamo essere prudenti tuttavia nell’analisi delle cifre, giacché in alcuni casi un agente poteva avere uno, due o persino tre nomi in codice. Dall’analisi quantitativa delle note informative risulta la seguente situazione: Ernest Szarka ha contribuito con tre note, Ion Baciu con una nota, Voicu con tre, Vasile Ionescu con tre, Tudor con una, Pânzaru con tre, Axinteanu con una, Chioreanu con una, Radu Ionescu con una, Sanda Predescu con due note, Emil Isaia con una nota, Lucreţiu con tre note e Marian con una nota. Gli agenti Lucreţiu e Marian consegnarono alla Securitate note nel dossier di pedinamento di Iuliu Moldovan, l’agente Tudor in tutti e due, e il resto degli agenti nel dossier di verifica di Silviu Dragomir.

Tra il pedinato, in questo caso Silviu Dragomir, gli informatori e gli ufficiali della Securitate esistevano o si erano stabiliti, nel corso del tempo, rapporti piuttosto speciali. I rapporti fra il sorvegliato e gli informatori erano solitamente normali rapporti collegiali o addirittura di amicizia. In ogni caso, i buoni rapporti favorivano l’ottenimento delle informazioni richieste dall’ufficiale della Securitate. L’agente dirigeva la conversazione sugli argomenti stabiliti in precedenza dall’ufficiale della

29 Decisione di chiusura del dossier di verifica 738 riguardante Dragomir Silviu, del 28 luglio 1960, in Idem, Il dossier Silviu Dragomir, no. I 513, p. 6.

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Securitate, cossiché i pensieri più intimi, i progetti personali e professionali del pedinato venivano a conoscenza della Securitate. Si stabiliva in questo modo un rapporto tra il sorvegliato e gli ufficiali della Securitate, intermediato dagli agenti, all’insaputa dell’interessato.

Legami speciali si crearono anche tra gli ufficiali della Securitate e gli informatori. Allo stato attuale della ricerca si conoscono i nomi degli ufficiali che rispondevano dei vari agenti. Il tenente maggiore Sălişteanu era in contatto con gli agenti Ernest Sarka, Emil Isaia e Ion Baciu, il tenente maggiore Constantin Banciu era in contatto con gli agenti Voicu e Sanda Predescu, il tenente maggiore Nicolae Domniţa con l’agente Vasile Ionescu, il capitano Traian Căbulea con l’agente Tudor, l’agente Pânzaru con il capitano Constantin Ciubotariu, l’agente Axinteanu con il tenente maggiore Emil Mărgineanu, Chioreanu con il tenente Emil Sălişteanu, Radu Ionescu con Andrei Maroşi, l’agente Lucreţiu con il maggiore Ioan Hancheş e con il capitano Ilie Puşcaşu, e l’agente Marian con il capitano Ioan Gocan. Gli agenti possiedono tutti un nome in codice, rendendo difficile se non impossibile l’identificazione dei loro veri nomi. Siamo piuttosto interessati a decifrare il meccanismo operativo della Securitate nel caso dello storico Silviu Dragomir. Dal momento che non conosciamo i nomi reali degli agenti, quindi la loro vera identità, siamo obbligati a cercare indizi sulla loro professione o sul posto di lavoro, per chiarire, per quanto sia possibile, i rapporti tra il pedinato e gli informatori.

Dalle fonti documentarie a nostra disposizione possiamo stabilire, in alcuni casi, quali furono i rapporti tra gli agenti della Securitate e il pedinato, noché il posto di lavoro o la qualifica dell’informatore. Per esempio, l’agente Voicu, nella nota informativa su Sabin Belu del 21 maggio 1958 scriveva:

In generale non ha creato troppa agitazione riguardo a questi avvenimenti nell’ambito dell’istituto. Ultimamente è venuto più tardi all’istituto [……]. Ho notato ultimamente dal prof. Silviu Dragomir un

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maggior numero di persone che non conosco e con le quali si trattiene più a lungo30.

Nella nota del 10 febbraio 1959 l’informatore Vasile

Ionescu notava: «Il 10 febbraio, quando la fonte era sul punto di andare a casa, M. [ihail] Dan, con il quale faccio la stessa strada a mezzogiorno, gli disse: “Dobbiamo passare da Silviu Dragomir [...]”. Quando sono scesi, Dan Mihail ha suonato il campanello di Silviu Dragomir»31. Nel caso di questi due agenti, l’ipotesi più verosimile è che siano colleghi di lavoro di Silviu Dragomir all’Istituto di Storia. L’agente Radu Ionescu registrava in conclusione della nota informativa consegnata alla Securitate il 28 aprile 1958: «Nel modo del tutto vago e tangenziale in cui lo conosco come bibliotecario, non posso fare altro che condividere questi pareri» 32. La nota ci svela, senza alcun dubbio, la qualifica dell’informatore. Per conto suo, l’agente Ernest Sarca, nella nota del 25 giugno 1960 annotava: «Nel giorno del 25 VI ho fatto una visita a Silviu Dragomir, con il quale ho parlato di alcuni argomenti storici riguardanti i Monti Apuseni, sui quali egli redige un lavoro, su richiesta dell’Accademia della Repubblica Popolare Romena» 33.

Il 2 dicembre 1960, l’agente Lucreţiu scriveva nella nota informativa:

Interrogato sulla discussione avvenuta all’Accademia RPR riguardante il Trattato di storia della Romania, il nominato Dragomir Silviu ha detto che gli hanno chiesto di prendere parola, ha preso la parola e ha parlato bene, dato che alla fine della seduta Daicoviciu è venuto da lui e gli ha fatto i complimenti. […] L’agente ha scritto una recensione al libro di Silviu Dragomir, I Valacchi del nord della Penisola Balcanica nel medio evo 34.

30 Nota informativa. La fonte Voicu, 21 maggio 1958, in Ibidem, p. 40. 31 Nota informativa. La fonte Ionescu Vasile, 16 II 1959, in Ibidem, p. 65. 32 Nota informativa. La fonte Ionescu Radu, 28 IV 1958, in Ibidem, p. 85. 33 Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 25 VI 1969, in Ibidem, p. 76. 34 Nota informativa. La fonte Lucreţiu, 2 dicembre 1960, in Ibidem, p. 32.

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Si tratta di persone che, molto probabilmente, erano storici di professione. Potevano essere colleghi dell’Istituto di Storia, ricercatori presso altri istituti oppure professori universitari. L’agente Tudor, nella nota informativa del 5 dicembre 1960, registrava: «Ad ogni modo, per i problemi in cui teme di scivolare sulla linea nazionalista, ci consulta a noi, dell’Istituto di Storia»35. Dal contenuto delle note informative, molto rigorose ed esatte in quello che riguarda la biografia di Silviu Dragomir e i suoi temi di ricerca, possiamo supporre che pure gli agenti Axinteanu e Chioreanu erano storici o lavoravono nel campo delle scienze socio-umanistiche. Quest’ipotesi ha come fondamento il fatto che la Securitate riuscì ad entrare con moltà difficoltà nell’entourage di Silviu Dragomir. Ci riuscì soltanto con l’aiuto di alcuni storici e intellettuali di Cluj, che spesso andavano a parlare con lo storico. Abbiamo un indizio sull’agente Emil Isaia, che dichiara senza problemi il contesto in cui ha conosciuto lo storico36. L’informatrice Sanda Predescu, persona vicina all’ambiente della famiglia Vătăşianu, ambiente da cui ricavò informazioni su Silviu Dragomir, ha una situazione piuttosto speciale, e non possiamo pronunciarci sulla sua professione37. Probabilmente l’agente Marian, che solo tangenzialmente entra in rapporto con Silviu Dragomir, proveniva da un ambiente diverso.

3. L’immagine di Silviu Dragomir

Nel presente lavoro intendiamo, innanzi tutto, ricostruire

l’immagine di Silviu Dragomir così come essa si delinea in base 35 Nota informativa. La fonte Tudor, 5 XI 1960, in Ibidem, p. 120. 36 «Ho conosciuto Silviu Dragomir tra il 1940 e il 1944 nella redazione della rivista Il campo della libertà, guidata dal poeta transilvano Vlaicu Bârna […] Qui ho collaborato anch’io con una o due note riguardanti i problemi transilvani» (Nota informativa. La fonte Emil Isaia, 30 dicembre 1957, in Ibidem, p. 95). 37 Nota informativa. La fonte Sanda Predescu, 22 I 1958, in Ibidem, p. 93.

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alle note informative. Da un punto di vista metodologico, abbiamo confrontato costantemente le informazioni contenute nelle note informative, con altri tipi di fonti, quali la corrispondenza, gli studi editi e inediti, con il laboratorio dello storico in generale. Inoltre abbiamo comparato le affermazioni di Silviu Dragomir, pronunciate in diverse occasioni, con il punto di vista espresso dall’agente e dagli ufficiali della Securitate, per stabilire in che misura quello che dichiarava il pedinato poteva essere credibile per la Securitate.

Le note informative possono essere suddivise in due categorie, e cioé, da una parte le caratterizzazioni dello storico fatte in generale da persone che l’hanno conosciuto, dall’altra le note risultanti dalle conversazioni dirette tra gli agenti e il sorvegliato. Entrambe sono importanti per il nostro scopo. Le prime mettono in rilievo il modo in cui Silviu Dragomir veniva percepito dagli intellettuali di Cluj dopo la sua liberazione. Le note che risultano dalle conversazioni con Silviu Dragomir ci offrono invece informazioni sui pensieri e sui progetti dello storico, sulla sua condotta nel contesto delle nuove realtà politiche, sul suo atteggiamento rispetto alla nuova storiografia.

Dallo studio delle note informative si delineano diverse direzioni di ricerca. In primo luogo vi sono le informazioni che riguardano l’attività svolta da Dragomir nel periodo interbellico e subito dopo la guerra. Tali informazioni offrono interessanti ragguagli anche sulle preoccupazioni scientifiche e sui rapporti dello storico con gli ex colleghi dell’università. Non da ultimo, possediamo una serie di dati sul modo in cui Silviu Dragomir commentava gli avvenimenti politici dell’epoca, in risposta a domande precise rivoltegli dagli informatori.

I commenti sulla sua attività sono in genere favorevoli, i suoi colleghi e gli ex studenti riconoscono la sua competenza. «Ho conosciuto Silviu Dragomir negli anni 1940-1944 nella redazione della rivista Il Campo della Libertà» scriveva l’agente Emil Isaia nella nota del 30 dicembre 1957. «Silviu

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Dragomir godeva di grande stima, essendo uno dei più rinomati esperti nei problemi transilvani, una personalità di spicco a livello internazionale in questo campo […]»38.

L’agente Chiorenu registrava il 27 novembre 1958:

Nel 1929 quando è stata fondata l’Università romena di Cluj, egli fu assunto come professore alla Facoltà di Lingue e Filosofia […]. In politica non ha svolto alcuna attività di spicco. Si è dedicato per lo più alle scienze storiche e ha scritto importanti lavori. È stato nominato membro dell’Accademia. Verso gli anni 1940-1944 dirige a Sibiu una rivista storica molto apprezzata. Dopo il 1944 si è stabilito di nuovo a Cluj39. L’agente Ionescu Radu considerava Silviu Dragomir il

più autorevole ed erudito conoscitore della Rivoluzione del 1848 in Transilvania, fatto comprovato dai suoi pregevoli contributi scientifici40.

In una nota informativa degli inizi del 1960, l’agente Pânzaru tracciava il seguente ritratto:

In quanto distinto professore di teologia e storico con grandi pregi, nel marzo del 1919 fu chiamato come professore alla Facoltà di Lettere dell’Università di Cluj dove ha tenuto il corso di Storia dei popoli del sud-est europeo. Silviu Dragomir era considerato all’unanimità uno studioso molto colto e uno dei più rinomati professori dell’Università. Fu altresì membro attivo dell’Accademia41.

L’informatore Axinteanu critica invece l’attività di

Silviu Dragomir. In una nota di quattro pagine l’agente traccia una descrizone pienamente conforme allo spirito e al linguaggio dell’epoca:

38 Nota informativa. La fonte Emil Isaia, 30 dicembre 1957, in Ibidem, p. 95. 39 Nota informativa. La fonte Chioreanu, 27 XI 1958, in Ibidem, p. 86. 40 Nota informativa. La fonte Ionescu Radu, 28 IV 1957, in Ibidem, p. 88. 41 Nota informativa. La fonte Pânzaru, 26 VII 1957, in Ibidem, p. 97.

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Ha rappresentato l’orientamento nazionalistico-clericale della ricerca storica. Fu un uomo politico reazionario, con importanti incarichi nell’apparato dello stato capitalistico-borghese (ex ministro ecc.). Fornì i principali documenti della propaganda antiungherese in campo storico42.

Se valutiamo il linguaggio e le espressioni tipiche del

materialismo dialettico, possiamo affermare che si tratta, indubbiamente, di uno storico formatosi nel nuovo regime politico o che si è comunque adeguato alla nuova realtà. L’agente critica l’orientamento nazionalista, molto comune all’epoca, presente negli scritti di Dragomir del periodo interbellico. Di qui, mancava solo un passo per muovergli l’accusa di propaganda antiungherese. Allo stesso modo, l’interesse dello storico per i romeni del Nord-ovest della Penisola Balcanica viene etichettato dall’informatore come un sostegno alla politica espansionistica della borghesia capitalistica romena43. Commentando le opere dello storico sull’unione dei romeni con la Chiesa di Roma, il medesimo agente considera l’autore «un ortodosso fanatico, che fa della Chiesa Ortodossa la principale rappresentante degli interessi nazionali del popolo romeno» 44.

Gli agenti consegnano informazioni anche su un momento cruciale nell’esistenza dello storico, il periodo della sua detenzione a Caransebeş e a Sighet. La Securitate era piuttosto interessata ai racconti che lo storico poteva fare sulla propria detenzione. In questo senso, l’agente Pânzaru scriveva:

Nel 1948 viene licenziato dall’insegnamento e collocato in pensione a causa dell’attività politica svolta in passato. Dato il suo coinvolgimento nel 1948 in un processo fiscale/penale degli ex dirigenti della Banca Agraria ricevette una condanna di un anno

42 Nota informativa. La fonte Axinteanu, 3 IX 1958, in Ibidem, p. 78. 43 «Il nominato Silviu Dragomir è stato il sostenitore della politica di espansione dell’alta borghesia romena con i suoi studi che attirano l’attenzione sui romeni all’estero» (Ibidem, p. 80). 44 Ibidem, p. 78.

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oppure un anno e mezzo di carcere scontata a Caransebeş, e in seguito, in qualità di ex ministro, a Sighet, donde fu liberato nel 1955. Sul regime della sua detenzione, Silviu Dragomir non parla affatto. Quando gli viene chiesto com’era, risponde “come in carcere” e cambiava discorso. È prudente in tutte le sue manifestazioni ed evita di parlare di politica45.

Dall’informazione fornita, l’agente dimostra di essere al

corrente dell’esperienza difficile vissuta dallo storico. In più, per mezzo di affermazioni sfumate, riesce a presentare i veri motivi per i quali Dragomir era stato licenziato dall’insegnamento e collocato in pensione prima del compimento dell’età legale. Anche l’agente Pânzaru intuisce il vero motivo per il quale Dragomir era stato incarcerato a Sighet – e cioè per aver ricoperto la carica di ministro nei governi interbellici. La sofferenza e l’esperienza di Sighet indussero lo storico ad essere molto prudente, il che viene notato anche dall’agente.

L’agente Emil Isaia, nella nota informativa della fine dell’anno 1957, dimostra di essere meno informato sul periodo della detenzione46. Potrebbe essere la prova che l’agente non era uno della cerchia familiare dello storico. Così come non lo era l’agente Radu Ionescu, il quale sapeva che lo storico era stato in prigione, ma non rilascia altri commenti47.

L’assunzione dello storico presso l’Istituto di Storia è considerata dalla maggior parte degli agenti che ne parlano come un fatto normale, una riparazione. «Il prof. Silviu Dragomir» – scrive l’agente Pânzaru – «è un pensionato in età di oltre 70 anni e lavora a contratto presso l’Istituto di Storia, dove collabora alle

45 Nota informativa. La fonte Pânzaru, 26 VII 1957, Ibidem, pp. 97-98. 46 «So che è stato saltato e rinchiuso verso gli anni 1950-1954, dopo la liberazione vive – per quanto ne sappia io – isolato e non si lancia in discussioni, in strada, con nessuna delle sue conoscenze superficiali» (Nota informativa. La fonte Emil Isaia, 30 dicembre 1957, Ibidem, p. 95). 47 «Fino a qualche anno fa è stato rinchiuso in quanto ex uomo di stato – mi sembra che sia stato una volta sottosegretario presso un ministero borghese» (Nota informativa. La fonte Ionescu Radu, 28 IV 1958, Ibidem, p. 85).

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opere storiche»48. In un’altra nota, lo stesso agente parla anche dei veri motivi che indussero il regime a ricorrere a Silviu Dragomir49. A sua volta, l’agente Chioreanu riferisce: «Oggi lavora per conto dell’Accademia ad alcuni problemi di storia concernenti la Transilvania e abita nella casa dell’Accademia» 50. L’agente Voicu costituisce invece l’eccezione. Questi scrive:

Il Prof. Dragomir Silviu lavora sotto la guida diretta del prof. Oţetea. Non ha alcun contatto nell’Istituto tranne il prof. Pascu Ştefan e il direttore dell’Istituto. Certamente non è con la sua attività scientifica che potrebbe portare danni al regime. Il suo isolamento tuttavia potrebbe permettergli azioni dannose di altro genere, nel caso che non abbia ancora messo la testa a posto. Il suo ufficio si trova nell’edificio che dà sulla strada Jokai e la direzione ha arrangiato la questione in modo tale che questo individuo non può essere disturbato da alcun estraneo, da una persona che non appartenga cioè al suo ambiente reazionario51.

Dal testo risalta chiaramente l’insoddisfazione dell’agente

per il fatto che Silviu Dragomir, ex reazionario, gode dell’appoggio dell’accademico Andrei Oţetea, di Ştefan Pascu e del direttore dell’Istituto di Cluj. L’informatore faceva parte, molto probabilmente, della nuova generazione di storici, oppure si era convertito alla nuova realtà. Educato nello spirito dell’odio verso gli intellettuali del vecchio regime, l’agente accetta con difficoltà il fatto che il regime comunista avesse bisogno delle

48 Nota informativa. La fonte Pânzaru, 18 III 1960, Ibidem, p. 74. 49 «In primavera fu chiamato al Min[istero] dell’Inseg[namento] e gli viene chiesto di redigere alcuni lavori storici concernenti i diritti dei romeni sull’Ardeal, per rispondere alla propaganda dei rifugiati magiari all’estero» (Nota informativa. La fonte Pânzaru, 26 VII 1957, in Ibidem, p. 97.) L’agente Sarca Ernest, nella nota informativa del 17 V 1960 scriveva: «Silviu Dragomir lavora regolarmente all’Accademia R.P.R e nei giorni liberi ha ripreso la sua vecchia passione, la pesca» (Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 17 V 1960 , in Ibidem, p. 77). 50 Nota informativa. La fonte Chioreanu, 27 XI 1958, Ibidem, p. 86. 51 Nota informativa. La fonte Voicu, 1 III 1958, Ibidem, p. 90.

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loro conoscenze professionali. Di conseguenza, l’informatore dimostra un sospetto quasi malsano nei confronti dello storico borghese, ex detenuto, che potrebbe compiere azioni dannose contro il regime. L’agente Voicu rivolge, inoltre, una frecciata critica anche ai dirigenti dell’Istituto di Storia di Cluj, considerati colpevoli di aver assunto Dragomir.

4. Piani di lavoro Silviu Dragomir riprese timidamente l’atttività scientifica

nel 1955, quando fu assunto come collaboratore esterno all’inizio e poi come ricercatore scientifico permanente all’Istituto di Storia e Archeologia di Cluj52. La nuova situazione fu rilevata dagli informatori. La collaborazione e poi l’assunzione presso l’istituto significava moltisissimo per lo storico dal punto di vista finanziario, professionale e umano. Senza pensione, di salute precaria, Silviu Dragomir poteva in questo modo mantenersi e anche continuare i suoi vecchi progetti. Ha, tuttavia, dei problemi nell’adeguarsi al nuovo modo di scrivere la storia, improntato al materialismo dialettico e storico. Come molti altri intellettuali romeni che hanno iniziato la loro cariera nel periodo interbellico, anche Silviu Dragomir si trovò preso nel mezzo tra la necessità di sopravvivere e i compromessi imposti dal regime comunista. Le accuse più ricorrenti al suo modo di scrivere riguardavano la componente nazionalista, e precisamente il fatto che le sue opere appoggiassero la politica imperialista dell’ex regime politico e non avessero rilevato il contributo dato dalle masse popolari. Di

52 Con la lettera della Sottosezione di Scienze dell’Accademia Romena del 30 gennaio 1956, firmata da Petre Constantinescu-Iaşi, si comunica a Silviu Dragomir che: «discussa nella seduta del 24 gennaio 1956, la vostra domanda di lavoro è stata accolta favorevolemente e rivolta al Presidio dell’Accademia R.P.R. di Cluj. Perciò, siete pregato di presentarvi all’Istituto di Storia dell’Accademia R.P.R. di Cluj, per ricevere l’incarico per il quale siete stato raccomandato» (A.N.-D.J. Hunedoara, Il fondo Silviu Dragomir, il dossier 92).

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conseguenza, per evitare eventuali accuse da parte del partito, Silviu Dragomir ha sentito il bisogno di far verificare i suoi scritti da parte di suoi colleghi avvezzi a maneggiare il nuovo metodo e i nuovi concetti storici. Le relazioni degli agenti descrivono a volte in dettaglio le ansie dello storico, le conversazioni avute con alcuni colleghi dell’istituto, i loro suggerimenti affinchè le sue opere fossero accettate. Dopo l’incontro avuto con il tenente maggiore Nicolae Domniţa, l’agente Vasile Ionescu scriveva:

Nel giorno 17 II 1959 verso le ore 9,30 Sillviu Dragomir portò alla nostra fonte il suo lavoro che doveva consegnare a Bucarest per il trattato di st.[oria della Romania n.n.], pregandolo di leggerlo per individuare gli errori e precisando: perché voglio seguire lealmente il punto di vista ufficiale […]. Nel giorno 18 II a mezzogiorno, Silviu Dragomir è venuto a prendere il materiale per consegnarlo a Fotino, il delegato venuto da Bucarest. Le dattilografe erano già partite ed è venuto anche Pascu Ştefan, il responsabile di Cluj, con il materiale per il Trattato. Ringraziando la fonte per l’aiuto, Silviu Dragomir ha detto a Ştefan Pascu: “ho provato a scrivere utilizzando questa concezione marxista, e benché fossi molto orgoglioso di esserci riuscito, la fonte mi ha trovato molti errori. Mi sono sottomesso e ho fatto le correzioni“. Pascu gli ha detto: “sbagliando s’impara”. Silviu Dragomir gli ha risposto ridendo: “È difficile, molto difficile, soprattutto adesso in vecchiaia. Ma si fa quel che si può [s. n.]”53.

È chiaro che Silviu Dragomir, cooptato in una prima fase,

tra i membri del collettivo che doveva redigere La Storia della Romania, considerando la grande importanza del progetto per il regime, sentiva il bisogno di consultarsi con alcuni dei suoi collaboratori dell’istituto. Nella nota informativa sono menzionati tre storici importanti, tra i quali anche Ştefan Pascu, ex studente di Dragomir, che all’epoca godeva della fiducia del Partito. Le relazioni tra i due sono molto strette, tanto che Ştefan Pascu aveva più volte presentato istanza ufficiale perché Silviu Dragomir fosse assunto all’Istituto. Nella conversazione tra i due, si possono 53 Nota informativa. La fonte Ionescu Vasile, 20 II 1959, nell’Archivio CNSAS, Il dossier Silviu Dragomir, no. I 513, p. 66.

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rilevare gli sforzi dello storico per comprendere il nuovo modo di concepire l’investigazione del passato richiesta dal partito agli storici. La fonte ci svela poi il meccanismo e le ragioni per cui si è intervenuto nel lavoro redatto da Silviu Dragomir per il terzo volume della Storia della Romania54. Evidenziando gli sforzi di Dragomir per allinearsi alle nuove direttive, la fonte sottolinea che il problema principale è che lo storico non riesce a vedere correttamente i problemi sociali, stabilendo un’identità tra il servo della gleba, che per Silviu Dragomir era romeno, e il nobile, che era ungherese. Cosicché un problema sociale, precisava l’informatore, era visto dallo storico come un problema nazionale, cosa assolutamente condannabile all’epoca in Romania.

A sua volta, la fonte Tudor si esprime nel modo seguente riguardo all’attività scientifica svolta da Silviu Dragomir nell’ambito delle nuove realtà politiche:

Dal materiale scritto, risulta che ha cominciato a prendere confidenza con la concezione materialista e dialettica sulla storia del nostro popolo e ha affermato che la storia scritta da posizioni marxiste è molto più conveniente per l’origine e per la continuità del nostro popolo rispetto alla storiografia borghese55.

Non sappiamo se Silviu Dragomir credesse veramente che

la storiografia scritta da posizioni marxiste fosse conveniente per 54 «Il lavoro si intitola La Transilvania sotto la dominazione asburgica e comprende 52 pagine dattilografate. Leggendo con attenzione l’opera, la fonte constatava che SILVIU DRAGOMIR ha tentato un approccio il più possibile corretto ai problemi – senza riuscire tuttavia a individuare sempre con precisione i problemi sociali e neppure a trarre le conclusioni necessarie. Non si può fare la distinzione tra i servi della gleba di qualsiasi nazionalità, che avrebbero sofferto nel periodo feudale tanto come i romeni che erano sia servi che nobili. Per S. Dragomir per servo della gleba trasilvano s’intende suddito del nobile ungherese. Questo sarebbe l’errore di fondo. Benché non lo affermi in modo esplicito, lo si intuisce dal modo in cui viene costruita la frase. La fonte glielo ha fatto notare e Silviu Dragomir ha apportato le correzioni, cancellando a volte frasi intere» (Ibidem). 55 Nota informativa. La fonte Tudor, 5 XI 1969, Ibidem, p. 120.

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la storia romena. Molto probabilmente, si tratta di affermazioni compiacenti, poiché lo storico sospettava che alcuni dei suoi colleghi potessero essere collaboratori della Securitate. L’agente Tudor fornisce alla Securitate informazioni in cui Dragomir viene presentato come uno storico di valore, che è riuscito ad apprendere il nuovo metodo d’investigazione del passato e di cui il partito aveva bisogno56. Il fatto che da parte politica e scientifica si fosse ricorso alla competenza di Silviu Dragomir per scrivere una relazione sul II volume della Storia della Romania, fatto rilevato anche dall’agente Tudor, dimostra che il regime comprendeva che al di là delle scelte politiche dovesse valere la competenza professionale. Inoltre l’agente parla del coinvolgimento dello storico nella traduzione di alcune opere uscite in Ungheria, all’interno delle quali i romeni erano menzionati solo occasionalmente57. L’unico problema rilevato dall’agente, a dire il vero in maniera elegante, che avrebbe potuto danneggiare la collaborazione con Silviu Dragomir, sarebbe l’interpretazione in chiave nazionalista di alcuni problemi del

56 «Sollecitato a esprimere il proprio parere sul materiale dell’intero volume II del Trattato, di cui si sono stampate le bozze, che comprende il periodo 1000-1550, e che dovrà esere discusso in dettaglio a Bucarest intorno al 15 nov. a.c., [Dragomir] ha presentato per iscritto una relazione, con varie osservazioni legittime, accettate dagli autori degli articoli, sopratutto per quanto riguarda l’insediamento dei magiari e dei sassoni in Transilvania (problemi che oggi la nostra storiografia marxista tende a vedere sotto una luce scientifica favorevole per il nostro passato – e adesso li comprendo con più chiarezza e meglio di prima – secondo le sue (di Dragomir) parole - tuttavia in alcuni capitoli, sulla dominazione dei bulgari a Nord del Danubio, sembra trapelare una lieve linea nazionalista su questo problema, sul quale nemmeno gli storici marxisti sono, del resto, in completo accordo» (Ibidem). 57 «Secondo alcune informazioni indirette, il prof. Silviu Dragomir sarebbe stato incaricato dall’alto (alcuni dicono dalla Sezione Culturale del Comitato Centrale di Bucarest) di redigere relazioni sul trattato di Storia dell’Ungheria, del quale sono apparsi finora tre volumi (in lingua ungherese) e in cui il popolo romeno della Transilvania non viene rappresentato nella vera luce del suo passato» (Ibidem, pp. 120-121).

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passato. L’agente si affretta ad aggiungere: «comunque nei problemi in cui potrebbe scivolare sulla linea nazionalista, consulta sempre noi, dell’Istituto di Storia, come ha fatto nel caso del primo libro stampato in romeno» 58. Possiamo notare, senza alcun dubbio, l’attenzione dell’informatore a non creare a Dragomir problemi con la Securitate. In conclusione, l’agente Tudor dichiara:

Per concludere: ci sembra che il prof. SILVIU DRAGOMIR abbia le migliori intenzioni di servire la patria, il partito e il C. C. [Comitato Centrale] di Bucarest, che gli ha affidato i lavori di storia sopra menzionati, senza potersi tuttavia liberare completamente dagli influssi della storiografia borghese, ma per evitare i suoi errori, s’informa sempre presso gli studiosi più esperti nel campo della storiografia marxista59. Analizzate nel contesto dell’epoca, i giudizi espressi

dall’agente Tudor nei confronti di Silviu Dragomir rappresentavano un sorta di certificato da parte di uno storico che godeva della fiducia del Partito e della Securitate.

5. Le idee politiche

La Securitate era interessata anche ai progetti professionali

intrapresi da Silviu Dragomir. Assunto come collaboratore esterno, Dragomir riprende lentamente l’attività scientifica. Lo storico intende pubblicare le precedenti ricerche e portare a termine i progetti iniziati dopo la sua liberazione. Gli ufficiali della Securitate hanno chiesto agli agenti di presentare note informative sugli studi che Dragomir stava preparando per la stampa. Le note informative ci rivelano uno storico ancora ottimista, in attesa di tempi migliori che gli permettessero di pubblicare le sue ricerche sulla Rivoluzione del 1848 e

58 Ibidem, p. 121. 59 Ibidem.

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sull’Unione dei romeni con la Chiesa di Roma. L’agente Ernest Sarca precisava nella nota del 17 maggio 1960:

È molto ottimista per come vanno le cose da noi, soprattutto “dopo la scoperta del manoscritto di Karl Marx sulla Rivoluzione del 1848 nell’Austro-Ungheria” [sic!], in cui Avram Iancu verrebbe presentato come un combattente per i diritti e per la libertà del popolo, e Kossuth come un avventuriero al servizio della reazione – [...] e un altro manoscritto, scoperto nell’Archivio di Amsterdam, scritto da Engels, elogerebbe il discorso di Bărnuţiu, discorso che fu tacciato da Cheresteşiu nel 1948 (nella rivista La lotta di classe) come reazionario 60 .

Silviu Dragomir sperava, a buona ragione, che la

pubblicazione di alcune opere di Marx ed Engels, che elogiavano la lotta dei rivoluzionari romeni della Transilvania, avrebbe convinto le autorità romene a non considerarli come reazionari e controrivoluzionari, così come era accaduto nei primi anni dopo l’instaurazione del regime comunista in Romania. In un’altra nota informativa redatta dallo stesso informatore, Silviu Dragomir si esprime con chiarezza, dimostrando di aver compreso come funzionavano i mecanismi del regime comunista61. Nello stesso spirito viene redatta la

60 Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, il 17 V 1960, in Ibidem, p. 77. 61 «Durante la conversazione che ho avuto con Silviu Dragomir, egli si è dimostrato molto reticente riguardo agli eventi politici. Perciò la discussione si è rivolta ai lavori che stava preparando nell’ambito dell’Accademia. Riferendosi alla possibilità di pubblicazione del suo lavoro sulla Rivoluzione del 1848, egli ha espresso la speranza che questa si sarebbe realizzata; dato che la storiografia sovietica aveva riabilitato Avram Iancu, anche la storiografia dellla R. S. R. [Repubblica Socialista Romena] avrebbe dovuto seguire l’esempio. Purtroppo, persistono tuttora alcuni orientamenti sinistrorsi, che non vogliono capire la verità e presentano sopratutto gli anni 1848-1849 in conformità con la vecchia ideologia, come è il caso di Victor Cheresteşiu di Cluj» (Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 24 VI 1959, Ibidem, p. 68).

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nota dell’agente Tudor alla fine del 196962. Lo storico capiva che, nel contesto dell’evoluzione politica dell’URSS dopo la morte di Stalin, era solo una questione di tempo affinchè il regime politico della Romania cambiasse il proprio atteggiamento nei confronti della storia nazionale. Inoltre, per pubblicare la sua monografia su Avram Iancu, Dragomir era disposto a utilizzare alcuni argomenti messi in circolazione dalla storiografia marxista sulla Rivoluzione del 1848. Il ruolo delle masse popolari all’interno della rivoluzione, il carattere democratico e nazionale del movimento, erano del resto concetti ricorrenti nei saggi di Dragomir del periodo interbellico. Erano altrettanti argomenti a favore della pubblicazione della monografia, che lo storico utilizzò nei rapporti con le autorità politiche. Dragomir aveva intuito i cambiamenti, ma non riuscì a vedere pubblicata la sua monografia su Avram Iancu. Il volume uscirà infatti solo nel 1964, due anni dopo la morte dello storico.

L’attività scientifica svolta dallo storico dopo la sua liberazione, è tutta quanta compresa nelle note informative scritte dagli agenti della Securitate. Durante l’incontro avuto con l’ufficiale di collegamento, il capitano Căbulea Traian, al quale aveva consegnato la nota informativa, l’agente Tudor ha fornito un resoconto delle discussioni avute con Silviu Dragomir sull’argomento delle sue ricerche63. L’agente osserva che 62 «Dopo la scoperta in Olanda degli appunti originali di Karl Marx, nei quali si parla in maniera favorevole delle rivendicazioni del popolo romeno di Transilvania durante la rivoluzione, la collaborazione del prof. Dragomir si è indirizzata su questa strada, cercando di mostrare, come sostengono le masse, dice Dragomir, la legitimità delle loro rivendicazioni e il loro inadempimento da parte di Ludovic (Lajos) Kossuth» (Nota informativa. La fonte Tudor, 5 XI 1960, in Ibidem, p. 121). 63 «Trovando il prof. S. Dragomir a casa nel suo studio, ho potuto avere una conversazione più lunga con lui, dalla quale risultano i seguenti fatti: 1. Ha finito la collaborazione per il trattato sulla Storia della Romania riguardante il Settecento (il terzo capitolo del trattato), secolo che conosce in dettaglio e sul quale era stato incaricato di scrivere alcuni capitoli […]. 5. Il Prof. Dragomir ha ricevuto l’incarico di collaborare, per i documenti che conosce, e in parte

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Dragomir è stato cooptato accanto ad altri autori a redigere il terzo volume della Storia della Romania, il suo compito essendo quello di preparare alcuni sottocapitoli sul Settecento. Allo stesso modo, l’agente ricorda che Silviu Dragomir era stato coinvolto nel collettivo di storia moderna, all’interno del quale doveva preparare i volumi contenenti i documenti sulla rivoluzione del 1848-1849. Il capitolo scritto da Silviu Dragomir per il terzo volume della Storia della Romania non fu inserito nel volume, poiché i responsabili dell’opera lo considerarono non conforme allo spirito dell’epoca64. Similmente, gli sforzi dello storico per continuare la serie degli Studi e documenti sulla Rivoluzione del 1848 non hanno avuto successo. Tuttavia, la sua idea di raccogliere e pubblicare i documenti relativi alla Rivoluzione del 1848, in una nuova collana, vide la luce negli anni successivi, sotto la direzione dell’Istituto di Storia di Cluj.

Nelle note informative sono ricordati anchi altri progetti a cui Dragomir stava lavorando. L’agente Ionescu Vasile, nella nota informativa del 16 febbraio 1959, menziona l’interesse dello storico per Il Diploma dei Cavalieri Giovanniti e per la storia della romanità nord-balcanica65. Gli interessi per i romeni del

possiede, al chiarimento del problema della Rivoluzione del 1848-1849» (Ibidem, pp. 120-121). 64 «Il suo nome non comparirà nel volume accanto ai capitoli scritti, poiché questi confluiranno all’interno della trattazione del compagno David Prodan, che contribuirà anche ad offrirne un’adeguata interpretazione marxista». (Ibidem, pp. 120-121). 65 «L’11 di febbraio, quando la fonte stava per tornare a casa, M. Dan, con il quale faccio la stessa strada a mezzogiorno, gli disse: “Dobbiamo passare da Silviu Dragomir che vuole chiedermi di fargli le fotocopie di alcuni documenti, se vado a Budapest”. Quando sono scesi, Dan Mihai ha suonato il campanello di Silviu Dragomir. Questi è uscito e gli ha chiesto di fotocopiargli – se va a Budapest – alcuni documenti riguardanti un suo lavoro che era in corso di stampa, I Valacchi e i Morlacchi, e un altro documento su un diploma del 1247 “dei cavalieri Giovanniti”, che Silviu Dragomir considerava falso» (Nota informativa. La fonte Ionescu Vasile, 10 II 1959, in Ibidem, p. 65).

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nord della Penisola Balcanica risalivano, del resto, ai primi anni dopo la prima guerra mondiale, quando Dragomir pubblica alcuni importanti saggi, come ad esempio I valacchi e i morlacchi. Studi sulla storia della romenità balcanica. Il tema rimase una delle sue priorità, e dopo la scarcerazione continuò le sue ricerche, preparando per la stampa il volume intitolato I Valacchi del nord della Penisola Balcanica nel Medio Evo. Il libro uscì nel 1959, dopo intensi sforzi da parte dell’autore per convincere i referenti della necessità del lavoro e della legitimità delle conclusioni a cui era giunto. Riguardo al diploma del 1247, Silviu Dragomir aveva già pronta in manoscritto una variante del lavoro Il Diploma dei Cavalieri Giovanniti. Studio critico. Dopo il 1955 lo storico continuò le sue ricerche sul Diploma, con la speranza che l’opera potesse essere pubblicata. A causa delle conclusioni storiche a cui era giunto, non riuscì mai a pubblicare il manoscritto.

Anche l’Unione dei romeni con la Chiesa di Roma, un’altro dei temi al centro delle ricerche di Dragomir, si ritrova nelle note informative. L’agente Lucreţiu, in due note informative, presenta i tentativi di Dragomir di pubblicare il suo saggio sulla fondazione della Chiesa Greco-Cattolica. Nella prima nota informativa, l’agente Lucreţiu scrive:

Sulla base del materiale documentario raccolto dall’agente negli Archivi di Stato di Budapest, Silviu Dragomir ha realizzato un lavoro, Contributi alla storia dell’unione dei romeni della Transilvania con la Chiesa Cattolica, che avrebbe intenzione di pubblicare. […] In questo senso, l’agente parlerà con Dragomir per rivolgersi insieme al compagno Mărgineanu (conosciuto da ambedue durante il lavoro sull’Unione con il cattolicesimo) e ottenere chiarimenti sulle possibilità di pubblicazione[…]66.

L’informatore mette in rilievo l’interesse di Dragomir per

l’Unione con la Chiesa di Roma e per le sue conseguenze,

66 Nota informativa. La fonte Lucreţiu, 2 dicembre 1960, in CNSAS, il dossier Iuliu Moldovan, I 512/1, pp. 33-34.

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notando inoltre l’atteggiamento del regime nei confronti dell’argomento. Lo storico era riuscito a pubblicare, così come osserva anche l’informatore, un saggio nella rivista Studi e materiali di storia media, uscito nel 1959. Il saggio di cui parla l’informatore, molto più esteso e con una sostanziosa appendice documentaria, verrà pubblicato, invece, solo nel 1962 nella rivista La Chiesa Ortodossa Romena. Da parte sua, lo storico cercava di trovare argomenti per convincere le autorità che lo studio possedeva tutti i requisiti di scientificità e che la sua pubblicazione andava nell’interesse del Paese67. In questo contesto, la presenza più pericolosa era quella dell’ufficiale della Securitate, che faceva da intermediario e che aveva la possibilità di decidere sulla pubblicazione o meno dello studio.

La Securitate era interessata, in modo particolare, alle scelte politiche di Dragomir, ai contatti che aveva stabilito e al suo atteggiamento nei confronti del nuovo regime politico, certamente per verificare i sospetti relativi alle accuse di spionaggio. Tutti questi dati potevano essere ottenuti dagli informatori solo se coinvolgevano lo storico in determinati tipi di discussioni. Dopo il periodo di detenzione Dragomir era diventato, tuttavia, estramamente prudente. Tutti gli informatori lo rilevano all’unanimità68. Di conseguenza, gli

67 «Avete incontrato delle difficoltà nel pubblicare qualche lavoro?” Il suddetto Silviu Dragomir ha risposto “Sì, il lavoro sull’Unione non riesco a consegnarlo da nessuna parte, benché questo sia il momento adatto, perché l’anno prossimo Papa Giovanni XXIII convocherà il sinodo ecumenico a Venezia, e recentemente ha investito un tal Criste come vescovo per i romeni della Transilvania. L’ho sentito io alla radio, gli hanno conferito una legazione apostolica. Certamente, il regime attuale non lo lascerà entrare, ma al primo momento favorevole arriverà in Romania e rifarà la Chiesa greco-cattolica. Ora, noi abbiamo tutto l’interesse a rispondere a questi preparativi del Vaticano, a combatterli e a pubblicare» (Nota informativa. La fonte Lucreţiu, 9 XII 1960, Ibidem, pp. 35-36). 68 «Dopo aggiunse “ecco perché non voglio andare da nessuno e non mi piace che qualcuno venga da me; per quanti giorni vivrò ancora voglio vivere tranquillamente perché ho sofferto abbastanza; non ha senso incontrare degli

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ufficiali della Securitate cercano, in un primo momento, di identificare la cerchia più stretta degli amici, per potersi avvicinare a Dragomir. Si tenga presente che la cerchia di amicizie dello storico era notevolmente diminuita, gli informatori parlano dei suoi ex colleghi di Università e di quelli conosciuti durante la detenzione, sopratutto Iuliu Moldovan e Ştefan Meteş, ai quali si aggiunge il professor Goia e l’ex direttore di banca Ghircoiaş69. L’agente Pânzaru nota che:

Una volta alla settimana si siede in un locale all’aperto con i suoi amici intimi: prof. I. Moldovan, Goia, Şt. Meteş. Conosce sicuramente tutti i docenti universitari della sua età, ma non li frequenta. A volte vengono da lui le sorelle di sua moglie, che vivono a Bucarest: Tibi Man e Stela Savu, entrambe vedove70.

L’agente Chioreanu rileva il fatto che «ha come amici a

Cluj i colleghi di Università Lupaş, Iuliu Moldovanu, Ştefan Meteş ed altri. Ha un fratello a Cluj, Dragomir Alexandru, ex avvocato»71.

Contemporaneamente, la Securitate mette in azione i suoi informatori, per la maggior parte, molto probabilmente, colleghi di Dragomir. Le strategie della Securitate erano perfettamente collaudate, consentendo, in questi casi, un’azione di massima efficacia. Agli informatori veniva chiesto da parte dell’ufficiale di collegamento di consultare Silviu Dragomir su varie questioni scientifiche oppure di offrirgli il loro aiuto nel procurargli

amici per destare sospetti» (Nota informativa. La fonte Pânzaru, 28 III 1958, in Idem, Il dossier Silviu Dragomir, no. I 513, p. 92). «So che è stato prelevato e rinchiuso negli anni 1950–1954, dopo la scarcerazione vive – per quanto ne sappia io – molto isolato e non si lancia in discussioni, in strada, con alcuno dei suoi conoscenti» (Nota informativa. La fonte Emil Isaia, 30 dec. 1957, Ibidem, p. 95). 69 Nota informativa. La fonte Voicu, 1 III 1958, Ibidem, p. 90. 70 Nota informativa. La fonte Pânzaru, 18 III 1960, Ibidem, p. 95. 71 Nota informativa. La fonte Chioreanu, 27 XI 1958, Ibidem, p. 86.

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informazioni e materiali documentari. Partendo da conversazioni di carattere scientifico, gli informatori venivano istruiti a portare la discussione, in un determinato momento e in una maniera ben precisata dall’ufficiale, su una serie di argomenti prestabiliti dall’ufficiale di collegamento, il tutto con lo scopo di mettere alla prova il sorvegliato. L’agente Ernest Sarca scriveva, in una nota informativa del 26 giugno 1960:

Nel giorno 22 VI ho fatto una visita a Silviu Dragomir, con il quale ho affrontato alcuni argomenti di carattere storico, riguardanti i Monti Apuseni, sui quali sta scrivendo un lavoro, ordinato dall’Accademia. A proposito della situazione politica internazionale S. Dragomir ha detto solamente: “Ringrazio Dio che ci siamo salvati dalla guerra e possiamo tranquillamente badare alle nostre cose”. Probabilmente la discussione, una volta iniziata, avrebbe proseguito nella stessa direzione, ma si è dovuta interrompere perché è entrata sua moglie ad annunciare l’arrivo di un altro visitatore, un certo professore di storia, venuto dalla provincia. Dato che devo ancora portargli alcuni dati che devo cercare nei lavori di toponomia e di catasto locali, al ritorno andrò di nuovo a trovarlo, sperando di essere più fortunati72 .

Il testo è significativo per la modalità di azione della

Securitate. L’agente Ernest Sarca inizia la conversazione su questioni strettamente scientifiche, passando poi, discretamente, ai problemi politici internazionali. La conversazione, tuttavia, viene interrotta dall’arrivo di un altro ospite. Poco tempo dopo, l’agente avrebbe avuto più fortuna, riuscendo a condurre una lunga conversazione con lo storico73. Nella nota informativa l’agente

72 Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 25 VI 1960, Ibidem, p. 79. 73 «Riprendendo pienamente la sua attività nel settore della storia nazionale – Silviu Dragomir era, per quanto possibile, ben informato sugli avvenimenti quotidiani interni ed esterni. I bollettini della BBC, la Voce dell’America e dell’Europa Libera gli vengono forniti ogni giorno intorno alle 12 da suo fratello dott. Alexandru Dragomir – ex decano del Collegio degli Avvocati di Cluj – che compra il pane dal panificio di Via Jokai, anche se vive nella Piazza Abatorului – come pretesto per visitare suo fratello. Egli ascolta soprattutto i programmi in tedesco – che non sono disturbati dalle interferenze

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riferisce che Dragomir è attento alla situazione politica internazionale, ascoltando le più importanti stazioni radio occidentali. Inoltre, s’interessa dei suoi vecchi colleghi, per sapere chi è stato arrestato, condannato oppure scarcerato. Come prova, l’agente offre l’esempio dell’ex uomo politico del periodo interbellico, Ghiţă Pop.

In occasione di una visita recente, alla presenza anche di suo fratello Alexandru, parlando della situazione dell’ex ministro Ghiţă Pop, di cui si diceva che fosse stato di nuovo arrestato, dopo che si era stabilito con domicilio obbligatorio in Bărăgan, Silviu Dragomir ha dichiarato: “Lo hanno prelevato di nuovo, per la faccenda di Beldeanu – il giovane arrestato a Berlino Est, implicato nell’assassinio di Setu, della Legazione Romena di Berna – ma adesso è libero di nuovo. D’altronde, in questa faccenda sono stati trattenuti per qualche settimana anche Mihai Popovici e Pufi Lencuţia”74.

Dalle informazioni fornite, Silviu Dragomir sembra essere

al corrente della situazione attuale dell’ex uomo politico, riuscendo a tracciare una chiara analisi, per mezzo del confronto e dell’accostamento di fatti avvenuti all’estero e delle loro conseguenze per gli ex politici interbellici.

Sono interessanti, in questo senso, le indicazioni che l’ufficiale di collegamento, il tenente maggiore Sălişteanu, impartisce all’agente sui modi di comportarsi nei futuri incontri.75

–. Inoltre S. Dragomir mantiene rapporti con molte delle sue vecchie conoscenze e s’informa su tutti i movimenti del mercato, sui dibattimenti giudiziari, sui nuovi arresti e sulle scarcerazioni» (Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 22 II 1960, Ibidem, p. 70.) 74 Ibidem. 75 «In primo luogo, l’agente dovrà continuare a visitare ad intervalli regolari Silviu Dragomir, con il pretesto di consultarlo per i lavori che sta scrivendo. Nel corso della settimana presente, gli farà un’altra visita. In occasione delle discussioni sugli arresti, gli dirà quanto segue: che da poco ha sentito dell’arresto di alcune persone incriminate per i supposti legami con alcuni cittadini stranieri, che alcuni anni fa avevano visitato la città di Cluj. Al riguardo, non dovrà precisare alcunché e non dovrà mostrare un interesse

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In primo luogo, viene messa a punto una provocazione, per cui l’agente doveva parlare a Dragomir dell’arresto di alcune persone di Cluj, che si diceva si fossero incontrate anni fa con la delegazione inglese. L’ufficiale richiede al suo agente di prestare attenzione alle reazioni dello storico, a seconda delle quali l’agente doveva continuare o interrompere la conversazione. Lo scopo della provocazione era quello di ottenere, ad ogni costo, notizie su un possibile incontro dello storico con i membri della delegazione76. Dopo qualche giorno l’agente incontra di nuovo Dragomir. L’incontro tra l’ufficiale della Securitate e l’agente è datato 29 febbraio 1960. Dalla nota informativa risulta che l’agente ha rispettato puntualmente le indicazioni dell’ufficiale, presentando con molta riservatezza le informazioni sui nuovi arresti. Allo stesso tempo, ha prestato molta attenzione alle reazioni di Silviu Dragomir, notando un certo turbamento sul viso dello storico77. Si noti, per misurare la sottigliezza dei meccanismi inquisitori della Securitate,78 che l’ufficiale chiede a Ernest Sarca

particolare per queste persone, al contrario, dovrà presentare tutto come un normale fatto di cronaca. L’agente è stato istruito a prestare la massima attenzione alle reazioni di Dragomir, per poter riferire in dettaglio se quelle notizie gli avevano provocato qualche turbamento. Se per caso l’indagato insiste per avere altri dettagli, l’agente dovrà fingere di non conoscerli, lasciando l’interlocutore a fare eventuali affermazioni o supposizioni» (Ibidem, p. 71). 76 «Queste misure sono necessarie per poter trarre una conclusione sull’atteggiamento e sull’interesse di Silviu Dragomir per l’ex gruppo di parlamentari inglesi» (Ibidem). 77 «“Mi hanno informato che sarebbero stati fatti nuovi arresti nell’alta società. Lei non ne se niente?” Invece di rispondere, l’interlocutore mi guardava in silenzio, ed io ho fatto lo stesso. “Ho sentito che sarebbero collegati a qualche visita di personalità straniere”. A queste parole, S. Dragomir mi ha guardato più attentamento, leggendosi sul suo viso un certo turbamento. “Sapete che si dice che Romi Ioan e gli altri, arrestati in autunno, non sarebbero estranei a queste visite”. Anche in questro caso non proferisce parola, conservando la medesima espressione preoccupata» (Nota informativa. La fonte Sarca Ernest, 29 II 1960, Ibidem, p. 72). 78 «Incarichi: riguardo a questo, l’agente è stato incaricato di continuare le visite a Dragomir Silviu, ma solamente dopo il suo ritorno da Turda, da dove

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di evitare di parlare dei problemi politici nel futuro incontro, perchè troppa insistenza avrebbe potuto destare sospetti nel pedinato.

Anche l’agente Lucreţiu si riferisce alle discussioni avute con Dragomir sull’evolversi della vita politica interna ed internazionale. In una nota informativa, la fonte discute l’argomento del disarmo. In quell’occasione, Dragomir notava il fatto che Hrusciov desiderava veramente il disarmo, essendo un modo per risparmiare, e incrementare, quindi, il livello di benessere della popolazione e consolidare, implicitamente, anche il regime79. L’agente rileva lo scetticismo dello storico rispetto al disarmo effettivo proclamato dai due blocchi politico-militari80. Il tempo ha datto ragione a Dragomir, giacché, come è noto, solo negli anni '80 furono fatti passi in questo senso. Allo stesso modo, Dragomir ipotizza una possibile ammnistia politica in Romania, in occasione del III Congresso del PMR [Partito Operaio Romeno]81.

In un’altra nota informativa, l’agente Lucreţiu orienta la discussione con Dragomir sull’argomento dei rapporti tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti82, nonché su quello delle

porterà il suddetto manoscritto e con questo pretesto gli farà un’altra visita. In occasione della visita futura non dovrà assolutamente affrontare temi politici o aspetti conosciuti della città di Cluj» (Ibidem). 79 «La Fonte ha affrontato anche altri problemi durante la conversazione. Sul disarmo Dragomir Silviu ha detto: Io credo che Hrusciov vuole veramente il disarmo, perché solo così può fare dei risparmi e può aumentare il tenore di vita e consolidare il regime dell’URSS. In generale, Dragomir Silviu si dimostra molto scettico rispetto ad un possibile disarmo» (Nota informativa. La fonte Lucreţiu, 15 IV 1960, in CNSAS, il dossier Iuliu Moldovan, I 512/1, p. 41). 80 Ibidem. 81 «Dragomir Silviu ha detto, in occasione del III Congresso del Partito Operaio Romeno, che ha sentito che verrà conferita l’ammnistia politica. Ha sentito anche che il Congresso sarà rinviato, perche non è ancora pronta la sala dei congressi del Palazzo della Repubblica» (Ibidem). 82 «La fonte informa che nel giorno 8 XII a.c., conversando con Silviu Dragomir, ex membro del P.N.C., nella sua casa in via Jokai, tra le ore 11 e

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relazioni tra Romania e Jugoslavia83, e su un possibile conflitto atomico e le sue conseguenze per i romeni84. C’è da notare la limpidezza delle osservazioni di Dragomir, quando parla dei rapporti tra l’Unione Sovietica e gli stati occidentali, rilevando che un tono agressivo nei confronti dei paesi capitalisti non constituisce una premessa favorevole per lo svolgimento delle trattative. Inoltre, lo storico attira l’attenzione sul grande rischio per l’umanità nel caso di una guerra atomica. Dragomir nota, infine, che la Romania rimarrebbe schiacciata tra le due superpotenze del momento e le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Il Servizio di Sicurezza decide, in base alle note informative raccolte nel periodo 10 febbraio-28 luglio 1960, di chiudere il dossier di verifica su Silviu Dragomir riguardante lo spionaggio inglese85. Il documento ci informa che, nel corso delle verifiche, la

12 a. m., abbiamo parlato della dichiarazione di Mosca. Dragomir Silviu ha detto: La Dichiarazione è piena di idee, ma è troppo densa, dovevano essere sviluppate tutte le idee che essa contiene. Domandato dalla fonte su che cosa lo avesse colpito nella dichiarazione, il suddetto ha dichiarato: Essa rappresenta la vittoria del punto di vista sovietico su quello cinese. Mi hanno colpito i toni molto accesi ed aspri nei confronti delle potenze occidentali. È certo che con simili toni non si possa guadagnare la loro benevolenza nelle trattative future» (Nota informativa.La fonte Lucreţiu, 9 XII 1969, Ibidem, p. 35). 83 «A queste parole, Dragomir Silviu ha osservato: Noi propenderemmo di più verso la guerra, ma i nostri dirigenti hanno paura di farlo per colpa dell’URSS. D’altronde, un avvicinamento economico tra noi e i serbi non porterebbe grandi bennefici ai serbi, perché io ascolto le stazioni radio dei serbi e vedo che loro importano molto dagli Stati Uniti e molte cose le fabbricano loro stessi in Iugoslavia» (Ibidem). 84 «Ritornando, durante la conversazione, sul pericolo della guerra, il suddetto Dragomir S. ha dichiarato: Una guerra atomica sarebbe devastante per noi che ci troviamo nel mezzo. Alcuni credono che non cadranno bombe atomiche, ma io credo che basterebbe soltanto 1 o 2 bombe atomiche oppure che cadesse su di noi la cenere radioattiva e sarebbe un disastro» (Ibidem, p. 36). 85 «Con l’intenzione di verificare se il parlamentare inglese abbia contattato Silviu Dragomir e se questi abbia svolto attività di spionaggio, è stato sottoposto ad attività di verifica» (Proposta di chiusura del dossier di verifica

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Securitate si è avvalsa dei seguenti agenti: Sanda Predescu, Ernest Szarka, Axinteanu e Ionescu86. Il capitano Alexandru Pereş, capo del servizio, propone la cessazione della sorveglianza di Silviu Dragomir, argomentando in questo modo la sua decisione:

Dragomir Silviu vive molto isolato, essendo anche malato, ragione per cui non cammina molto per strada, rimanendo per la gran parte del tempo presso il suo domicilio (ha 72 anni). Ha fatto qualche affermazione, da cui risulta che rimpiange la sua attività e, benché anziano, cerca di produrre qualcosa scrivendo articoli o altri lavori di carattere storico, seguendo la linea giusta. È stato incaricato dagli organi di stato di redigere alcuni lavori storici (traduzioni) e si è impegnato a farli nella maniera corretta. Non esistono motivi per sospettarlo di attività di spionaggio e, tanto meno, si sono registrate da parte sua manifestazioni ideologiche ostili87.

In generale, le conclusioni a cui giunge il capitano della

Securitate sono fondate sulle informazioni fornite dagli agenti. Nella decisione non compaiono le acuse contenute nelle note degli agenti Axinteanu e Voicu. Probabilmente, le informazioni sono state confrontate tra di loro ed è prevalso il punto di vista che si riscontra nella maggioranza delle note informative. Del resto, tutti gli altri agenti hanno riscontrato gli sforzi di Silviu Dragomir di continuare la sua attività scientifica sotto il nuovo regime politico, tenendo conto della concezione storiografica marxista. Inoltre, a parte Axinteanu, gli altri agenti non hanno rilevato nel comportamento di Silviu Dragomir alcun indizio di attività di spionaggio. Di conseguenza, l’ufficiale della Securitate propone ai suoi superiori la seguente risoluzione:

Dato che i materiali sono di poca importanza, proponiamo che venga chiuso il dossier di verifica di Dragomir Silviu e che il fascicolo sia

738, riguardante Dragomir Silviu, del 28 luglio 1960, in Idem, Il dossier Silviu Dragomir, no. I 513, pp. 6-7). 86 Ibidem, p. 7. 87 Ibidem, pp. 6-7.

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allegato al dossier problema no. 20, per poter continuare l’attività di pedinamento88.

Benché riguardo al problema dello spionaggio, il fascicolo

sia stato chiuso, lo storico continuerà ad essere pedinato dalla Securitate. L’attività politica svolta da Silviu Dragomir tra le due guerre mondiali lo aveva reso sospetto e indesiderabile agli occhi del nuovo regime politico. Nonostante lo storico avesse tentato di dimostrare la sua buona fede, il regime politico mantenne la sua diffidenza nei confronti degli ex leader politici interbellici. La Securitate terrà sotto sorveglianza lo storico fino al 23 febbraio 1962, giorno del suo decesso.89

6. Conclusioni Dalle note informative si possono trarre le seguenti

conclusioni: in generale, la biografia è ben tratteggiata, gli informatori riuscendo a cogliere i momenti principali dell’attività di Dragomir. È una prova in più del fatto che lo conoscessero bene. Sapevano, per esempio, dell’esistenza dei parenti di Bucarest, da parte della moglie, di suo fratello Alexandru, ex decano del Collegio degli avvocati. Alcuni errori si riscontrano, invece, nei rapporti degli ufficiali della Securitate. In tutti i documenti della Securitate Dragomir viene considerato membro del Partito Nazionale Contadino, benchè gli informatori

88 Ibidem, p. 7. 89 «Venerdi, 23 febbraio 1962 è deceduto in un ospedale di Bucarest, il Prof. Silviu Dragomir, di Cluj, ex ministro, ex membro dell’Accademia Romena e uno dei più importanti storici, che si siano occupati del passato della Transilvania. […]. Come storico, Silviu Dragomir viene considerato uno dei migliori conoscitori della storia della Transilvania, sopratutto dei secoli XVIII-XIX, nonché della Rivoluzione degli anni 1848-1849, su cui scrisse una monumentale monografia (in manoscritto). La sua morte lascia rimpanti unanimi tra gli intellettuali romeni. I funerali avrnno luogo lunedi, 26 II 1962» (Relazione di Szarka Ernest, 26 II 1962, Ibidem, p. 3).

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avessero dichiarato che l’attività politica dello storico era collegata al Partito Nazionale-Cristiano e al Fronte della Rinascita Nazionale.

Le informazioni fornite dagli agenti sono in generale ben articolate, per tutte le epoche, dagli studi universitari all’attività accademica, attraversando i momenti principali della storia contemporanea: l’unione del 1918, Il Diktat di Vienna, il rifugio a Sibiu, il ritorno. Gli informatori evidenziano anche l’attività scientifica di spicco svolta da Silviu Dragomir nel periodo interbellico. Gli agenti Axinteanu e Voicu sono gli unici a sostenere il contrario, criticando l’opera dello storico e le sue scelte nazionaliste. In generale, la sua attività politica è presentata correttamente, come un impegno di poca importanza in confronto con l’attività scientifica. La maggior parte degli informatori conosceva, in dettaglio, l’esperienza carceraria di Dragomir.

Una volta uscito di prigione, lo storico Dragomir cerca di continuare la sua attività scientifica e di pubblicare. È disposto, in questo senso, a prendere confidenza con la filosofia marxista, con il materialismo dialettico e storico, ad accettare l’appoggio dei suoi colleghi più giovani, che si erano formati nella nuova realtà politica. La prigionia a Sighet lo aveva indotto ad essere molto riservato ed estremamente prudente con chi gli stava intorno. Sapeva di essere ancora nel mirino della Securitate e che molti di quelli che pretendevano di essere suoi amici, erano, in realtà, degli informatori. Di conseguenza, dopo la scarcerazione, Silviu Dragomir vive molto isolato, non parla quasi mai dell’esperienza di Sighet o di altre questioni politiche, che avrebbero potuto creargli nuovi problemi. Nonostante tutto ciò, la Securitate è riuscita ad ottenere tutte le informazioni di cui aveva bisogno, grazie all’attività degli informatori infiltrati nell’ambiente di Dragomir.

Al di là di questi aspetti, i documenti ci mostrano come la Securitate abbia sorvegliato Silviu Dragomir, ricorrendo spesso a

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mezzi e metodi illegali e immorali. Allo stesso modo, ci mostrano che gli oppositori, i nemici o i sospetti nemici del regime comunista non hanno mai guadagnato la piena fiducia delle nuove autorità politiche. Il caso di Silviu Dragomir non è, del resto l’unico, numerosi romeni essendo stati pedinati, imprigionati, a volte uccisi dalle autorità comuniste.

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II.

Metodi e letture

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ALVISE ANDREOSE

Dalla voce alla scrittura:

problemi di transcodificazione nella stesura della Relatio di Odorico da Pordenone

Le scritture di viaggio medievali nascono spesso dalla collaborazione di due autori:1 l’autore ‘reale’ (o primario), cioè il viaggiatore che serba memoria di un’esperienza meritevole di essere divulgata per iscritto ai contemporanei e ai posteri; e l’autore ‘materiale’ (o secondario), ossia lo scrittore che provvede alla stesura del testo, trascrivendo fedelmente ciò che gli viene narrato – nel qual caso si dovrà parlare più propriamente di ‘scriba’ o di ‘compilatore’ –, o contribuendo, in virtù della propria esperienza retorico-letteraria di ‘scrittore’ nel senso pregnante del termine, a elaborare sotto il profilo strutturale e stilistico l’opera, di cui in definitiva diventa co-autore.2 Questo secondo tipo di sinergia si è verificato nella stesura del Devisement dou monde di Marco Polo, opera che, come è noto, è scaturita dal fortuito incontro del viaggiatore veneziano con Rustichello da Pisa – rinomato autore di romanzi cavallereschi in lingua

1 Molti tra i più importanti viaggiatori medievali si servirono di un autore-compilatore per redigere i loro resoconti: Marco Polo, Odorico da Pordenone, Ibn Battuta, Nicolò de’ Conti, Hayton. Cfr. Alvaro Barbieri, Introduzione, in Marco Polo, Il ‘Milione’ veneto. Ms. CM 211 della Biblioteca Civica di Padova, a cura di Alvaro Barbieri e Alvise Andreose, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 24-28. Sulla questione si veda anche l’analisi di Michèle Guéret-Laferté, Sur les routes de l’empire mongol. Ordre et rhétorique des relations de voyage au XIIIe et XIVe siècles, Paris, Champion, 1994, pp. 134-147. 2 Barbieri, Introduzione, cit., pp. 24-25.

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d’oïl – nelle carceri di Genova nel 1298.3 Nella prima classe, invece, può essere collocato un altro importante testo odeporico medievale, la Relatio (o Itinerarium) di Odorico da Pordenone, che – stando alle informazioni contenute in un colophon trasmesso da una parte considerevole della tradizione – sarebbe stata dettata dal frate friulano a un confratello al suo ritorno dalla Cina nel maggio del 1330:

Predicta autem ego Fr. Guilgelmus de Solagna in scriptis redegi sicut predictus Fr. Odoricus ore proprio exprimebat anno Domini MCCCXXX de mense madii, Padue in loco S. Anthonii. Nec curavi de latino difficili et ornato stilo, sed sicut ille narabat sic ego scribebam ad hoc ut omnes facilius intelligerent que scribuntur vel dicuntur. [Io fra Guglielmo da Solagna ho messo per iscritto le cose predette (cioè il racconto di viaggio di Odorico) così come il predetto fra Odorico raccontava di sua bocca nell’anno del Signore 1330 nel mese di maggio, a Padova nel convento di S. Antonio. E non mi sono preoccupato di usare un latino difficile e uno stile ornato, ma come lui raccontava così io scrivevo, affinché tutti capissero ciò che si scrive e si dice].4

3 Sulla cooperazione tra Marco e Rustichello nella stesura del Devisement dou monde si vedano i fondamentali contributi di Valeria Bertolucci Pizzorusso, Enunciazione e produzione del testo nel ‘Milione’, in «Studi mediolatini e volgari» nr. 25, 1977, pp. 5-43 (ora in Ead., Morfologie del testo medievale, Bologna 1989, pp. 209-241, da cui si cita), di Alvaro Barbieri, Marco, Rustichello, il ‘patto’, il libro: genesi e statuto testuale del Milione, in Id., Dal viaggio al libro. Studi sul Milione, Verona 2004, pp. 129-154 (già in Medioevo romanzo e orientale. Il viaggio nelle letterature romanze e orientali. Atti del V Colloquio Internazionale. VII Convegno della Società Italiana di Filologia Romanza, a cura di Giovanna Carbonaro, Mirella Cassarino, Eliana Creazzo e Gaetano Lalomia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006, pp. 23-42), e di Cesare Segre, Chi ha scritto il ‘Milione’ di Marco Polo?, in I viaggi del ‘Milione’. Itinerari testuali, vettori di trasmissione e metamorfosi del ‘Devisement du monde’ di Marco Polo e Rustichello da Pisa nella pluralità delle attestazioni, a cura di Silvia Conte, Roma, Tiellemedia, 2008, pp. 5-16. 4 Beatus Odoricus de Portu Naonis, Relatio, in Sinica Franciscana, collegit, ad fidem codicum redegit et annotavit p. Anastasius van den Wyngaert O.F.M., vol. I, Itinera et relationes fratrum Minorum saeculi XIII et XIV,

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Nonostante gli indubbi legami che l’opera mostra col capolavoro poliano (e rustichelliano),5 dal tenore della dichiarazione citata si evince con chiarezza che, nel caso del resoconto odoriciano, il contributo dell’autore secondario all’elaborazione del testo fu di gran lunga meno rilevante che nel Devisement dou monde. Per ben due volte nell’arco di poche righe, infatti, fra Guglielmo da Solagna afferma di avere trascritto fedelmente il racconto orale di Odorico. Va rilevato in realtà, che tale asserzione non compare in tutta la tradizione, e anzi sembrerebbe che nella fase più antica del testo non fosse presente.6 Questo dato, in ogni caso, non ci pare sufficiente a mettere in dubbio la veridicità della testimonianza del Solagna, dal momento che vari elementi confermano l’ipotesi che l’oralità abbia giocato un ruolo determinante nell’elaborazione e nella prima diffusione della Relatio. In redazioni più tarde del testo odoriciano, tra cui la riscrittura eseguita nel 1340 a Praga dal frate slesiano Enrico di Glatz (oggi Kłodzko, nella Polonia sud-occidentale),7 sono aggiunti alla fine del resoconto due Firenze/Quaracchi, Collegio S. Bonaventura, 1929, pp. 413-495, in part. pp. 494-495 (cap. XXXVIII par. 7). 5 Sui rapporti tra la Relatio e il Devisement dou monde vd. Lucio Monaco, Introduzione, in Memoriale toscano di Odorico da Pordenone, ed. critica a cura di Lucio Monaco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990, pp. 42, 46-48; Alvise Andreose, Nota bio-bibliografica, in Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell’’Itinerarium’ di Odorico da Pordenone, Padova, Centro Studi Antoniani, 2000, pp. 18-19; Valeria Bertolucci Pizzorusso, Le relazioni di viaggio di Marco Polo e di Odorico da Pordenone: due testi a confronto, in I viaggi del ‘Milione’, cit., pp. 219-231. 6 Paolo Chiesa, Per un riordino della tradizione manoscritta della ‘Relatio’ di Odorico da Pordenone, in «Filologia mediolatina» nr. 6-7, 1999-2000, pp. 320-324. 7 Dopo la stesura della Relatio Odorico si mise in viaggio per raggiungere la curia pontificia di Avignone. Durante il tragitto si ammalò e, giunto a Pisa, fu trasportato ormai moribondo a Udine, dove morì il 14 gennaio 1331. In un secondo tempo una copia della Relatio fu portata ad Avignone dalla delegazione di frati guidata da fra Marchesino. Il testo circolò presso la

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brevi episodi che fra Marchesino da Bassano – il frate che guidava la delegazione di frati Minori incaricata di inoltrare presso il pontefice Giovanni XXII la richiesta di beatificazione di Odorico – avrebbe udito direttamente dalla voce del viaggiatore.8 In due manoscritti che tramandano una versione in italiano antico della Relatio, il Conventi Soppressi C.7.1170 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e l’Italiano XI, 32 (6672) della Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, il testo è immediatamente seguito da alguni altri belli chapituli, che, stando a quanto è detto nel testo, sarebbero stati raccontati da Odorico durante una sua permanenza nel convento veneziano di S. Francesco della Vigna.9 Quest’ultima

corte papale, dove fu trascritto da fra Enrico di Glatz, che, ritornato a Praga, nel 1340, lo rielaborò stilisticamente. Cfr. Monaco, Introduzione, cit., pp. 27-28 e 31-35; Chiesa, Per un riordino della tradizione manoscritta, cit., pp. 315-318; Alvise Andreose, “Unum referam de magno Cane quod vidi”. Ipotesi sull’origine e sulla prima circolazione dell’episodio ‘De reverentia Magni Chanis’ nell’‘Itinerarium’ di Odorico da Pordenone, in L’ornato parlare. Studi di filologia e letteratura per Furio Brugnolo, a cura di Gianfelice Peron, Padova, Esedra, 2007, pp. 467-487. 8 Cfr. Teofilo Domenichelli, Sopra la vita e i viaggi del Beato Odorico da Pordenone dell’Ordine de’ Minori, Prato, Ranieri Guasti, 1881, pp. 199-200 (capp. LXXV e LXXVI); Chiesa, Per un riordino della tradizione manoscritta, cit., pp. 323-324 e 338-341; Andreose, “Unum referam de magno Cane quod vidi”, cit., pp. 470-471. Le aggiunte di fra Marchesino sono tràdite da due versioni del testo: la redazione che quasi certamente fu preparata dopo la morte di Odorico per essere portata ad Avignone (recensio Marchesini nella classificazione proposta da Chiesa), e la rielaborazione di Enrico di Glatz, che dalla redazione avignonese pare dipendere direttamente (vd. Chiesa, art. cit., p. 328). 9 «Per cagione che ’l ditto frate Odorigo disse a bocca molte meravigliose cose ch’avea trovate, vedute e udite da persone degne di fede ne’ ditti paesi ov’elli era stato, le quali no sono scritte in questo libro o per brevità o per onestà o per domenticanza o per altra cagione, ònne scritte qui appresso alquante ch’io li udii dire uno dì e una sera ch’io fui con lui a Santo Francesco delle Vigne, luogo de’ frati Minori di Vinegia, stando a cena a lato a llui, mangiando co·llui a uno taglieri con molti altri relegiosi e

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testimonianza, insieme a quella di fra Marchesino, conferma l’idea che effettivamente l’espressione usata da Guglielmo da Solagna («in scriptis redegi sicut predictus Fr. Odoricus ore proprio exprimebat») non sia soltanto intesa a rivendicare la fedeltà della sua trascrizione al racconto di Odorico, ma raffiguri puntualmente la modalità con cui avvenne la mise en écrit dell’opera, certificando che il testo altro non è che la scrupolosa registrazione per iscritto del resoconto orale pronunciato dal viaggiatore. La successiva excusatio dello scriba («Nec curavi de latino difficili et ornato stilo, sed sicut ille narabat sic ego scribebam ad hoc ut omnes facilius intelligerent que scribuntur vel dicuntur») si dimostra più sfuggente, perché si presta a una duplice interpretazione. A una prima lettura, le parole del Solagna potrebbero indurre a ritenere che Odorico abbia narrato le sue imprese in latino. Sembra più plausibile, tuttavia, che quel «sicut ille narabat sic ego scribebam» voglia indicare che lo scriba nella sua trascrizione è rimasto aderente alle strutture sintattiche e lessicali del racconto orale, cioè di quella narrazione pronunciata da Odorico «di sua bocca» (ore proprio). La dichiarazione del Solagna non contiene un esplicito riferimento alla lingua usata da Odorico. Si limita soltanto a giustificare la scelta anti-retorica di evitare un linguaggio prezioso e uno stile

seculari, in quelli dì ch’elli tornò de’ ditti paesi.» (Libro delle nuove e strane e meravigliose cose, cit., p. 179 [cap. I, 1]). Su tale aggiunta si veda anche: Colombano Petrocchi, Il B. Odorico da Pordenone e il suo ‘Itinerario’, in «Le Venezie Francescane» nr. 1, 1932, pp. 204-214; Folker E. Reichert, Die Asienreise Odoricos da Pordenone und die Versionen seines Berichts, mit Edition der ‘Aufzeichnungen nach dem mündlichen Bericht des Reisenden’, in Chloe. Beihefte zum Daphnis. Erkundung und Beschreibung der Welt. Zur Poetik der Reise- und Länderberichte, hrsgg. von Xenja von Ertzdorff und Gerhard Giesemann, Amsterdam/New York, Rodopi, 2003, pp. 467-509 (il saggio reca in appendice l’edizione dei belli chapituli, alle pp. 481-509); Andreose, “Unum referam de magno Cane quod vidi”, cit., pp. 475-478.

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ricercato con la volontà di registrare nel modo più fedele possibile le parole proferite dal viaggiatore. Analogamente alla prassi adottata sempre più spesso dai notai coevi, il redattore persegue il rispetto della sostanza testuale attraverso una forte adesione alla forma linguistica originaria. Adesione che però non implica necessariamente la ripresa dello stesso codice linguistico. Se, come crediamo, è questo il vero significato delle parole del Solagna, sorge immediatamente il problema di stabilire quale sia stata la lingua usata da Odorico. Poiché nella tradizione medievale, almeno fino a Trecento inoltrato, lo scarto diamesico dall’orale allo scritto, porta con sé di norma anche un cambio di codice (la transcodificazione dal volgare al latino), non apparirebbe singolare – soprattutto in ambito ecclesiastico – ipotizzare che lo scriba abbia trasposto in latino un racconto che originariamente Odorico aveva pronunciato nel suo idioma materno. Si spiegherebbe così più agevolmente l’esplicitata scelta del Solagna di non fare ricorso a un «latino difficile» né a uno «stile ornato», ma a un registro linguistico che possa il più possibile restituire le movenze del racconto orale di Odorico. Come si vedrà nelle pagine che seguono, l’ipotesi che il testo dettato dal viaggiatore allo scriba nel maggio del 1330 fosse in volgare, trova conferma in diversi passi dell’opera.

Nel capitolo VII della Relatio, Odorico racconta di essersi imbarcato a Hormuz, in Persia, su una «nave cucita solo con corda» (navigio suto solo spago) e di essere giunto a Tana, vicino a Salsetta, in India, dopo ventotto giorni di navigazione. Dopo aver fornito alcune informazioni storiche e commerciali su questa città e dopo aver ricordato che in essa furono martirizzati quattro frati Minori, aggiunge:

Huius terre populus ydolatrat, nam adorant ignem, serpentem et arbores. Hanc terram regunt saraceni qui eam ceperunt violenter, nunc subiacentes imperio Doldali. [Tutta la popolazione di questo paese è idolatra (cioè induista) e adora il fuoco, il serpente e gli

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alberi. Questa terra è sotto il dominio dei musulmani, che la conquistarono con la forza e che ora sono sottoposti all’dominio Doldali].10

Tutti gli interpreti concordano nel ritenere che

l’espressione subiacentes imperio Doldali alluda alla dominazione sulla città del sultano di Delhi.11 La lezione Doldali è quella che si legge nel ms. 343 della Biblioteca Comunale di Assisi (siglato A), su cui si basa prevalentemente l’ormai superata – ma a tutt’oggi unica – edizione critica approntata dal padre Anastasio van den Wyngaert alla fine degli anni Venti del secolo scorso. Altre varianti confinate in appartato si direbbero, a prescindere da qualsivoglia considerazione stemmatica, più vicine all’originale: daldili dei mss. Barber. lat. 2558 della Vaticana (siglato B) e lat. 2584 della Bibliothèque Nationale de France (Y), e daldali del ms. 257 della Biblioteca Casanatense di Roma (C). Delle tre lezioni (doldali, daldili, daldali), la migliore è senz’altro quella dei testimoni BY, cioè daldili, che andrà interpretata come la sequenza di una preposizione articolata (dal) e del toponimo Dili, cioè Dihlī o Dillī, forma usata ancor oggi nelle varietà indiane per designare la città di Dehli. L’espressione vale dunque ‘del Dehli’, cioè ‘di Dehli’. Se ne era già accorto Henry Yule, che, commentando la forma, osservava: «Odoric, doubtless, in his dictation, said: “sotto la signoria del Dili”».12 Teofilo

10 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 423 (cap. VII par. 5). 11 Cathay and the Way Thither being a Collection of Medieval Notices of China, translated and edited by colonel sir Henry Yule, new edition revised throughout in the light of recent discoveries by Henri Cordier, vol. II: Odoric of Pordenone, London, Hakluyt Society, 1913, p. 115 n. 1 e p. 127 n. 1; Les Voyages en Asie au XIV

e siècle du bienhereux frère Odoric de Pordenone, Réligieux de Saint-François, publié avec une introdution et des notes par Henri Cordier, Paris, Ernst Leroux, 1891, p. 71 n. c. Da rilevare, tuttavia, che secondo altre fonti, il dominio del sultano di Dehli non si estendeva fino a Tana, cfr. Peter Jackson, The Delhi Sultanate. A Political and Military History, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, p. 204. 12 Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 115 n. 1.

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Domenichelli, sempre a tal proposito, rilevava che «L’aggiunta del Dal, o di altro articolo simile, è fatto ripetuto assai frequente in geografia».13 Dol- del ms. A deriverà più facilmente da del- che da dal-, ma si noti comunque che nelle varietà venete antiche la preposizione da poteva avere anche il valore di ‘di’, per cui, se al termine della recensio dovesse risultare che daldili era effettivamente la lezione presente nella stesura originale, non sarebbe necessario correggere dal- in del-, come suggerisce Yule. In ogni caso, quello che appare sicuro è che siamo in presenza di un sintagma volgare che lo scriba non è stato in grado di analizzare nei suoi elementi costituenti.

Un caso analogo si incontra nel capitolo in cui Odorico racconta di aver navigato lungo il fiume Yangzi:14

Dum per istud flumen Dotaly transirem sic inveni multas civitates, et veni ad unam que vocatur Jamçai, in qua est unus locus nostrorum fratrum Minorum. [Mentre navigavo su questo fiume Dotalay trovai molte città e giunsi ad una città che si chiama Jamçai (= Yangzhou), in cui c’è un convento di nostri frati Minori].15

Il fiume Yangzi viene qui indicato col nome nome

mongolo di Dalai o Talai ‘mare’, ‘lago’, ‘distesa d’acqua’, che alludeva alla sua impressionante larghezza.16 Dotaly (o Dotalay di altri manoscritti latini) è evidentemente la corruzione del sintagma de Talay. Ancora una volta dunque, lo scriba ha inteso il nesso ‘Preposizione + Nome’ come una forma unica.

13 Domenichelli, Sopra la vita e i viaggi, cit., p. 290. 14 Nell’edizione Wyngaert il toponimo si presenta in questa forma alterata anche nel capitolo precedente (Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 468 [cap. XXV par. 2]). Va rilevato, tuttavia, che, almeno a giudicare dalla varia lectio riportata in apparato, tale lezione parrebbe essere attestata dal solo ms. assisiate. Gli altri manoscritti utilizzati nella recensio leggono regolarmente T(h)alay. 15 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 469 (cap. XXV par. 1). 16 Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., pp. 206-207 n. 5; Cordier, Les Voyages en Asie, cit., p. 347.

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Un altro tipo di ‘errori di segmentazione’ è quello che nasce dal fraintendimento del sintagma costituito dalla sequenza ‘Articolo definito + Nome esotico’. Nel capitolo dedicato al racconto del martirio di quattro frati Minori a Tana d’India ricorre a più riprese la forma lo Melic:

Hoc secundum miraculum videns lo Melic, id est Potestas, ad se Fr. Iacobum vocavit et eum suis vestimentis fecit indui et dixit: «Videte fratres, ite cum gratia Dei, quia nullum malum paciemini vos a nobis, nam videmus vos esse bonos homines et sanctos et fidem vestram esse veram sanctam et bonam, sed ut vobis securius consulamus, hanc terram exeatis quam cicius potestis quia ipse Cadi laborat vobis auferre vitam» [Vedendo questo secondo miracolo, lo melic, cioè il podestà, chiamò a sé frate Giacomo, gli fece indossare le sue vesti e gli disse: «Ecco fratelli, andatevene in pace, perché non subirete più nessun male da noi. Vediamo infatti che siete persone giuste e sante e che la vostra fede è vera, santa e giusta. Tuttavia vi consigliamo per il vostro bene di partire da questo paese al più presto, perché il cadì cerca di togliervi la vita»].17

L’espressione lo melic va interpretata senza dubbio come un sintagma formato dall’articolo definito lo e dal termine arabo melik: si tratta cioè di un calco parziale dell’espressione araba al-melik (‘il re’), con cui i musulmani dell’India designavano il governatore o il magistrato preposto alla riscossione delle imposte.18 Anche qui, dunque, Guglielmo da Solagna sembra avere trascritto le esatte parole che Odorico aveva dettato in volgare, non capendo che la prima parte del sintagma era rappresentata dall’articolo definito.

Lo stesso fenomeno si incontra nel capitolo XXXIII. Odorico sta parlando di un importante centro monastico del

17 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 430 (cap. VIII par. 11). La forma ritorna anche in altri punti del testo, cfr. ivi, pp. 430, 431, 434 (cap. VIII parr. 12, 13, 14, 15, 19). 18 Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 122 n. 1; Cordier, Les Voyages en Asie, cit., p. 78 n. b.

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Tibet, da identificare forse con il monastero tibetano di Sa-skya, in cui risiedeva il Sa-skya-pa, capo spirituale della setta buddista di Sa-skya, che, verso il 1271, aveva ottenuto dal khan Qubilai la supremazia sul Tibet centrale:19

In ista civitate moratur lo Albassi, id est papa in lingua sua. Iste est capud omnium illorum ydolatrorum quibus dat et distribuit secundum morem suum omnia illa beneficia que ibi habet. [In questa città risiede lo Albassi, cioè il ‘papa’ nella loro lingua. Costui è il capo di tutti quegli idolatri, e a loro assegna e distribuisce secondo la sua volontà tutti i benefici [ecclesiastici] che ci sono lì].20

Dietro l’espressione lo Albassi si cela il termine turco-

mongolo baqsī, con cui i mongoli indicavano i preti buddisti, i monaci lama, gli sciamani o gli stregoni, ma che poteva assumere più in generale il valore di ‘capo religioso’.21 In Marco Polo compare la forma bacsi,22 in Riccoldo da Montecroce troviamo baxitas, plurale di baxita.23 Non è chiaro se al- costituisca una semplice

19 Folker E. Reichert, Incontri con la Cina. La scoperta dell’Asia orientale nel Medioevo, Milano, Biblioteca francescana, 1997 (trad. it. di Begegnung mit China. Die Entdeckung Ostasiens im Mittelalter, Sigmaringen, Thorbecke, 1992), p. 103. Altri interpreti identificano il centro con Lhasa (Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 248 n. 4; Cordier, Les voyages en Asie, cit., p. 457). 20 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 485 (cap. XXXIII par. 1). 21 Paul Pelliot, Notes on Marco Polo, 3 voll., Paris, Imprimerie nationale-Librairie A. Maisonneuve, 1959-1973, p. 63. Tale è anche l’opinione di Nilda Guglielmi, cfr. Odorico da Pordenone, Relación de viaje, introducción, traducción y notas [por] Nilda Guglielmi, Buenos Aires, Biblos, 1987, p. 148. Per un’altra ipotesi si veda Berthold Laufer, Was Odoric of Pordenone ever in Tibet?, in «T’oung Pao» nr. 15, 1914, p. 411. 22 Marco Polo, Milione, Le divisament dou monde. Il Milione nelle redazioni toscana e franco-italiana, a cura di Gabriella Ronchi, introduzione di Cesare Segre, Milano, Arnoldo Mondadori, 1982, pp. 402-403 (Devisement dou monde, LXXV 24). 23 Guillaume de Rubrouck, Voyage dans l'empire mongol, traduction et commentaire de Claude et René Kappler, préface de Jean-Paul Roux, Paris, Payot, 1985, p. 92.

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deformazione del termine (purtroppo su questo aspetto la testimonianza dei manoscritti latini non è unanime),24 oppure se si tratti dell’articolo arabo al-. Nel qual caso lo Albassi sarebbe un’espressione ridondante, in parte volgare (lo), in parte araba (Al-) e in parte mongola (-bassi), equivalente a sintagmi come l’Alcorano, peraltro normali in italiano antico. Odorico, cioè, non avrebbe avuto coscienza che l’espressione conteneva già l’articolo definito.

Un fenomeno di errata segmentazione (o più esattamente: di mancata segmentazione) di un sintagma da parte dello scriba potrebbe essere all’origine anche di una forma, apparentemente inintelligibile, che si incontra nei capitoli dedicati alla descrizione del palazzo del Gran Khan:

In medio autem palacii est una magna pigna alta passibus plus quam duobus, que tota est de uno lapide precioso nomine merdicas. Ipsa etiam tota est de auro ligata, et in quolibet angulo ipsius est unus serpens de auro qui verberat os fortissime. [In mezzo al palazzo c’è una grande cisterna alta più di due passi, che è tutta fatta di una pietra preziosa chiamata merdicas. La stessa cisterna è tutta avvolta da fasce d’oro, e in ogni suo angolo c’è un serpente d’oro che sbatte la bocca fortissimamente].25

Come hanno mostrato in modo convincente Antonio De

Biasio, Gilberto Ganzer e Giulio Cesare Testa,26 la lezione merdicas, che nei manoscritti latini figura anche in altre varianti (merdecas, merdacas, merdetas, ecc.),27 va interpretata

24 Nei testimoni latini editi, accanto alla forma cominciante con al-, è attestata anche la variante con a- (abasi, abbassi, abassi), cfr. Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 328 n. 1; Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 485 apparato. 25 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., pp. 472-473 (cap. XXVI par. 3). 26 Tali ipotesi è stata illustrata dettagliatamente nella Mostra didattica ‘Mar di Cas’ (Mare di Giada), a cura di Antonio De Biasio, Gilberto Ganzer, Giulio Cesare Testa, Pordenone 10-31 ottobre 1998. 27 Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 319 n. 10 ; Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 473 apparato.

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come mar de (o di) cas, ovvero ‘Mare di giada’ – khas [Xas] essendo il termine mongolo per indicare la giada –, traduzione del cinese Du shan dayuhai ‘il Grande Mare di Giada dei Monti Du’, nome con cui si indicava una cisterna di giada fatta costruire da Qubilai a partire dal 1253 per contenere il vino destinato alla corte e collocata nel 1266 nella cosiddetta ‘Sala della Luna’. Si potrebbe pensare che la forma pronunciata da Odorico fosse mar de (o di) cas: il viaggiatore, in altre parole, non conoscendo il significato del termine mongolo khas, avrebbe tradotto nel suo volgare solamente la prima parte del sintagma (mar de). Tale espressione sarebbe stata poi fraintesa dal Solagna, che non avrebbe capito che la prima parte della stringa non rappresentava un esotismo, ma doveva essere analizzata come la sequenza di due lessemi volgari: il Nome mar e la Preposizione de. Va rilevato tuttavia, che tutti i manoscritti latini editi leggono mer- e non mar-, come ci si aspetterebbe: nelle varietà venete e friulane, infatti, l’esito regolare del lat. MARE è mar. Tutto lascia pensare, dunque, che la forma mer- figurasse già nella versione latina originaria. Di conseguenza, se si accetta che la lezione merdicas/merdecas sia frutto di un’incomprensione da parte dello scriba, bisogna ammettere che durante la dettatura si sia verificato anche un altro errore (stavolta ‘acustico’), che avrebbe prodotto la sostituzione del primitivo mar con mer.28

28 Si affaccia tuttavia anche un’altra spiegazione. Sappiamo che presso la corte mongola di Qaraqorum era attivo verso il 1254 l’orafo parigino Guillaume Boucher, che aveva realizzato una fontana per l’erogazione di qumiz (latte di giumenta fermentato) per il palazzo del khan Möngke, fratello e predecessore di Qubilai (cfr. Leonardo Olschki, Guillaume Boucher. A French Artist at the Court of the Khans, Baltimore, Johns Hopkins Press, 1946 [rist.: New York, Greenwood Press, 1969], pp. 117-118). Nulla vieta di ritenere che Boucher stesso o qualche suo collaboratore avesse partecipato anche alla costruzione delle condutture che dalla succitata cisterna di giada portavano il vino ai commensali (cfr. Relatio, cap. XXVI par. 3: «Per hanc pignam defertur potus per conductus qui in

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L’errata transcodificazione dal volgare al latino può portare anche a travisamenti di segno opposto, ossia a casi il cui il toponimo viene interpretato come un nome comune e dunque tradotto. La città di Kollam (o Quilon), sulla costa del Malabar, vicino a Travancore, nell’India sud-occidentale, viene designata nei resoconti di viaggiatori contemporanei o di poco posteriori a Odorico con il toponimo di Columbum: così, per esempio, la chiamano il domenicano Jordan Catala de Sévérac29 e il francescano Giovanni dei Marignolli.30 Si tratta dell’adattamento latino del nome sanscrito della città, ossia Kolamba.31 In tutti i manoscritti latini editi della Relatio (e in quelli inediti che abbiamo potuto consultare) si incontra invece la forma Polumbum32. Pur in assenza di una recensio sistematica basata sull’intera tradizione, è ragionevole ritenere che tale lezione comparisse già nella stesura originale. Come rileva infatti Yule, «it is not easy to see how the P go into all, or nearly all, the MSS. of Odoric, unless the error occurred in the first transcription».33 Ma più che a un errore di trascrizione, l’innovazione appare dovuta a un ‘eccesso di zelo’ da parte dello scriba, che (consciamente o inconsciamente) ha reso il toponimo riferito oralmente da Odorico, Colombo, con una delle forme latine

curia Regis habetur. Iuxta hanc pignam manent multa vasa aurea cum quibus omnes volentes bibere bibunt»). Di conseguenza si potrebbe pensare che, presso i frati francescani che partecipavano alle feste di corte del Gran Khan, tale marchingegno venisse indicato col nome con cui gli artefici francesi lo designavano: mer de cas ‘mare di khas’. 29 Christine Gadrat, Une image de l’Orient au XIVe siècle. Les Mirabilia descripta de Jordan Catala de Sévérac: édition, traduction et commentaire, Paris, Ecole des Chartes, 2005, pp. 254 e 258. 30 Sinica Franciscana, cit., vol. I pp. 537 e 546. 31 Cfr. Pelliot, Notes on Marco Polo, cit., pp. 399-402. 32 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 438 (cap. VIII par. 24) e p. 440 (cap. X par. 1). 33 Yule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 129 n. 1.

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con cui era possibile tradurre l’it. colombo, cioè Polombum.34

La conclusione a cui pensiamo di essere approdati, oltre a precisare ulteriormente le fasi dell’elaborazione dell’opera, può talvolta fornire informazioni decisive per la sua interpretazione. Si pensi, in particolare, alla spinosa questione dell’identificazione dei toponimi e, soprattutto, della decifrazione dei termini esotici. Come è noto, uno dei problemi maggiori che i testi odeporici medievali pongono allo studioso è proprio quello di interpretare, sulla base delle informazioni di cui dispone, i nomi e le espressioni orientali che i viaggiatori riportano in modo più o meno deformato. Ora, se si accetta l’ipotesi che Odorico abbia dettato al confratello Guglielmo di Solagna il suo resoconto in volgare, bisogna ammettere che i termini orientali siano stati adattati al sistema fonologico proprio del suo idioma materno (il friulano o il veneto antico). Un caso in cui tale presupposto ci permette di pervenire a una migliore intelligenza del testo, si incontra nel capitolo VIII della Relatio. Odorico, dopo aver preso con sé le reliquie dei frati Minori martirizzati a Tana, racconta di essersi imbarcato a Kollam (Quilon), in India, per raggiungere Zayton (Quanzhou), in Cina:

Cum autem illic in Polumbum fuerimus nos ad portum, aliam navim nomine Çocum nos ascendimus, ut iam dictum est, ut in Indiam superiorem nos irremus ad quamdam civitatem Çaitum, in qua sunt duo loca nostrorum fratrum, ut ibi istas sanctas reliquias poneremus. [Quando lì a Quilon giungemmo al porto, salimmo su una nave chiamata çocum, come si è già detto, per raggiungere in India superiore (la Cina meridionale) una città di nome Zayton

34 Il latino classico possedeva due lessemi distinti (seppure simili) per designare due tipi affini di volatili: columbus ‘colombo’, ‘piccione’ e palumbus ‘colombaccio’, ‘colombo selvatico’. Nel latino volgare e nel latino medievale la distinzione era venuta meno, cosicché la seconda forma – attestata anche nella variante polumbus (cfr. rom. porumb) – poteva indicare genericamente il ‘colombo’.

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(Quanzhou), dove si trovano due conventi di frati Minori, per deporre lì queste sante reliquie].35

La forma çocum che si legge nell’edizione Wyngaert

non è affatto sicura. In altri manoscritti latini, infatti, il nome di questa imbarcazione compare in diverse forme: zuncum, zocum, cocum, conchum, zochi, concluum, lonclum, etc.36 L’unico studioso che ha tentato di spiegare questo passaggio è Yule, che traduce «another ship called a junk».37 In effetti va notato che alcuni testimoni, tra cui il manoscritto Cicogna 2408 della Biblioteca del Museo Correr di Venezia, recano la lezione zuncum, che potrebbe essere l’adattamento in veneto o in friulano antico della forma malese ýūng (da cui il francese jonque e l’italiano moderno giunca), che designa un tipo di veliero in bambù, molto diffuso in Oriente, soprattutto in Cina, di forma piatta e dotato di vele fatte di stuoie, capace di trasportare un gran numero di passeggeri.38 La testimonianza del viaggiatore arabo Ibn Battuta conferma che al tempo di Odorico dalle coste dell’India meridionale partivano delle giunche cinesi dirette verso il sud della Cina:

Comunque ci fermammo nel porto di Calicut, dove in quei giorni c’erano tredici navi cinesi, e sbarcati in città, venimmo sistemati

35 Odoricus de Portu Naonis, Relatio, cit., p. 438 (cap. VIII par. 24). 36 Ibid., apparato. Vd. ancheYule-Cordier, Cathay and the Way Thither, cit., p. 293 n. 7. 37 Ivi, p. 131. L’identificazione dell’imbarcazione nominata da Odorico con una giunca cinese viene proposta da Yule anche altrove: cfr. Hobson-Jobson, being A Glossary of Anglo-Indian Colloquial Words and Phrases and of Kindred Terms Etymological, Historical, Geographical, and Discursive, by Henry Yule and the late Arthur Coke Burnell, London, J. Murray, 1886, p. 472 s.v. junk («This is one of the oldest words in the Europeo-Indian vocabulary. It occurs in the travels of Friar Odorico, written down in 1331 [...]). 38 Jacques Dars, La marine chinoise du Xe au XIVe siècle, Paris, Economica, 1992, pp. 93-99.

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ognuno in una casa. Aspettammo tre mesi ospiti del sultano infedele prima di poter ripartire per la Cina, perché per viaggiare sul mare di Cina bisogna assolutamente essere a bordo di navi cinesi – che adesso descriveremo. [...] Le navi cinesi sono di tre tipi: le più grandi si chiamano [junk], le medie zaw e le piccole kakam. Le prime hanno dodici vele o anche meno, fino a un minimo di tre, in canne di bambù intrecciate come stuoie, che non vengono mai ammainate, ma girate da una parte o dall’altra a seconda di dove tira il vento – e quando la nave è all’ancora, le lasciano ondeggiare all’aria.39

Tale congettura risulta proficua sia sotto il profilo

ecdotico, sia sotto quello interpretativo, perché da un lato suggerisce quale potrebbe essere, nella varia lectio, la forma da accogliere a testo, dall’altro fornisce una valida ipotesi sul mezzo di trasporto usato da Odorico nella seconda parte del suo viaggio verso il Cathay.

In conclusione, ci auguriamo di essere riusciti a dimostrare che l’esegesi di un testo come la Relatio di Odorico da Pordenone richiede di integrare diversi livelli di analisi. Accanto alla necessaria definizione di un testo critico affidabile (obiettivo che per ora resta purtroppo distante), un passaggio obbligato di qualsiasi discorso critico sull’opera dovrà essere l’esatta considerazione delle problematicità insite in ciascuna delle fasi della sua elaborazione: in primo luogo la ricezione delle informazioni da parte dell’autore; secondariamente, la trasmissione di tali informazioni dall’autore allo scriba; infine, la rielaborazione dei dati da parte dello scriba nel momento della definitiva mise en écrit.

39 Ibn Battuta, I viaggi, a cura di Claudia M. Tresso, Torino, Einaudi, 2006, p 624.

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BARBU ŞTEFĂNESCU

Însemnările olografe de pe cărţile bisericeşti:

puterea de informare asupra sensibilităţii lumii rurale1

Dacă s-a remarcat că pentru majoritatea popoarelor

europene istoria înseamnă asumarea unui «mare trecut ţărănesc»

2, constatarea este cu atât mai adecvată în cazul

românilor la care remanenţa rurală, deci perpetuarea unui cadru tradiţional de existenţă, este masivă şi mai îndelungată: în România de astăzi, aproape jumătate din populaţie locuieşte la sat. Dacă reducem discuţia la jumătatea occidentală a României, cunoscută generic sub numele de Transilvania, elementul etnic majoritar al unui spaţiu prin excelenţă multicultural, cel românesc, a trăit în împrejurări istorice specifice în exclusivitate în structuri rurale, până într-acolo că s-a pus semnul egalităţii între români şi ţărani.

La modul general, ţăranul este perceput istoriografic drept o fiinţă discretă, datorită situării sale, dacă nu în afara, cel puţin la periferia cuvântului scris. Mai ales, discursul lumii ţărăneşti despre ea însăşi este unul precar, istoricul găsind cu dificultate mijloace documentare pentru a străpunge carapacea închiderii între limitele oralităţii cvasigenerale, prin mărturisiri despre sine a ţăranului însuşi. Un tip de sursă care are asemenea calităţi o reprezintă modestele însemnări («adnotări») marginale făcute pe cărţile bisericeşti la nivelul secolelor XVI-XX, fascinante prin umanitatea trăirilor, prin sensibilitatea exprimată

1 Problematica este tratată pe larg la: Barbu Ştefănescu, Sensibilitate rurală, violenţă şi ritual, Editura Universităţii din Oradea, 2006. 2 Gail Kligman, Nunta mortului. Ritual, poetică şi cultură populară în Transilvania, Traducere de Mircea Boari, Runa Petringenaru, Georgiana Fornoaga, West Paul Barbu, Editura Polirom, Iaşi, 1998, p. 191.

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simplu şi direct, cu mare forţă de convingere, de cei care scriu sau de semenii lor, ţărani, despre şi pentru care scriu. Aceste «cronici mărunte», «din interior»3, sunt făcute de oameni cu rudimente de conştiinţă istorică, pentru a alimenta şi reîmprospăta memoria colectivă, atât de imprecisă, selectivă, în forma ei orală; ele devin esenţiale pentru orice tentativă interesată să coboare cercetarea la nivelul «destinelor majoritare», care ambiţionează să scrie «istoria prin cei mici»4.

Aparenţa de viaţă ţărănească cenuşie, monotonă, spre care conduce o privire superficială, de sus şi de la distanţă, asupra satului românesc transilvănean la începuturile modernităţii, este dezminţită, prin prisma acestei categorii de documente mai puţin convenţionale pentru istoric, de fapte, atitudini, gesturi şi cuvinte ce dezvăluie o lume structurată în jurul unor valori simbolice, între care aspiraţia spre Dumnezeu şi spre Împărăţia Cerurilor transpare din grija pentru Biserică, pentru destinul postum al sufletului. De cele mai multe ori fraze simple, arhaice, stângace dar cu atât mai apropiate de esenţa sufletească a omului de la ţară şi care exprimă în mare măsură felul lui de a simţi, de a se comporta, de a lua atitudine faţă de problemele vieţii, ale morţii, ale lumii de dincolo de mormânt, în toate cazurile, ale relaţiei cu Divinitatea.

Nu întâmplător, gama cea mai largă a însemnărilor este cea legată de viaţa cărţii însăşi, de calitatea sa de dar cu valenţe transcedentale şi comunitare, de gestionarea ei ca bun spiritual şi material cu valoare mare de către preot, însăşi formulările fiind încadrabile unui tipic, unei retorici ce ţine de pregătirea de «operator al sacrului» a celui care scrie cel mai adesea5.

3 Jean-Francois Soulet, Istoria imediată, Traducere şi note: Mircea Platon, Prefaţă, Florin Constantiniu, Editura Corint, Bucureşti, 2000, p. 48. 4 Paul Cernovodeanu, Nicolae Iorga şi Istoria românilor „prin cei mici”, în «Revista istorică», serie nouă, 1991, nr. 11-12, p. 628. 5 Jacques Paul, Biserica şi cultura în Occident, vol. II, Traducere de Elena-Liliana Ionescu, Editura Meridiane, Bucureşti, p. 149.

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Studiile întreprinse de lingvişti asupra textelor medievale au pus în lumină, între altele, «neobişnuita abundenţă a termenilor semnificând dania sau actul de a oferi», firească într-o lume în care actul oblativ era privit ca unul din simbolurile de bază ale puterii şi autorităţii ce decurge din ea, ca act fondator al relaţiile interpersonale

6. Dacă instituţia

darului este fără îndoială precreştină, creştinismul a valorizat-o, impunând-o ca normă comportamentală de bază pentru credinciosul întru Hristos, odată cu textele Noului Testament: «Darul este iubire, iubire faţă de Dumnezeu», pentru că «darul şi adevărul au venit prin Iisus Hristos» (Ioan, 1, 17)

7, formulă

ce exprimă originalitatea sacrului creştin, centrat pe persoana Mântuitorului, cel care îi conduce pe oameni spre sfinţenie, îi apropie de Dumnezeu, îi ajută să intre în comuniune cu El

8.

Ca gest ritual, darul exprimă credinţa în necesitatea păstrării legăturilor permanente şi amiabile cu forţele supranaturale ce domină spiritualitatea tradiţională dar şi menţinerea echilibrului în relaţiile presupuse între comunitatea viilor şi cea a strămoşilor

9, de a intermedia între lumi aflate în

planuri diferite: între lumea profană şi cea sacră există incompatibilităţi ce nu pot fi depăşite decât prin rituri care să reducă treptat distanţele, cărora li se încadrează şi actul oblativ

10.

Antropologii au identificat în cadrul instituţiei darului variante, precum cele ale ofrandei ori jertfei (sacrificiului). 6 Alexandru-Florin Platon, Societate şi mentalităţi în Europa medievală. O introducere în antropologia istorică, Editura Universităţii „Al. I. Cuza” Iaşi, 2000, p. 40. 7 Ofelia Văduva, Magia darului, Bucureşti, 1997, p. 77. 8 Julien Ries, Sacrul în istoria religioasă a omenirii, Editura Polirom, Iaşi, 2000, p. 194-195. 9 Ofelia Văduva, Paşi spre sacru. Din etnologia alimentaţiei româneşti, Editura Enciclopedică, Bucureşti, 1996, p.119. 10 Arnold Van Gennep, Riturile de trecere, Traducere de Lucia Berdan şi Nora Vasilescu, Studiu introductiv de Nicolae Constantinescu, Postfaţă de Lucia Berdan, Editura Polirom, Iaşi, 1996, p. 15.

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Chemată să intermedieze între om şi Divinitate prin intermediul cuvântului divin şi al bisericii, cartea dăruită primeşte, în ochii celor care scriu despre practicile oblative relative la ea, sensul de jertfă:

Această carte s-au cumpărat de mai mulţi creştini a s. biserici din satul Groşi şi Bârzeşti a 45 de forinţi fie-le jertfa aceasta primită înaintea lui Dmneu întru vecinica aducere aminte. S-au scris în Groşi în 6 iunie 1851. Scris-am eu, Bica protopopul Beliului şi preotu comitatului Bihor

11.

Pagina tipărită, indiferent de domeniul la care se referă

cuvântul scris, este investită la începutul epocii moderne cu o dimensiune sacră

12, face parte din categoria obiectelor sacrale

aflate în consubstanţiere cu Divinitatea şi constituie un important mediator sacralizat. De unde, gama de sentimente contradictorii pe care prezenţa sa o impune utilizatorilor ori beneficiarilor mesajului divin pe care-l transmite, de veneraţie şi de teamă: pe un Liturghier (Târgovişte, 1713) este consemnat faptul că

A fost găsit la familia Culici din Dealul Ciorii de către Romolus

Raica din Strungari, omul o ţinea în fundul unei lăzi cu haine şi nu se atingea de ea, pentru că nu-i permis să pună mâna orice om pe Evanghelier. Numa popii şi călugării pot lua în mână asemenea cărţi13.

Cartea este, în primul rând, un obiect cu o valoare spirituală

foarte mare; chemată să medieze mai ales în plan transuman14

, 11 Triod, (Blaj, 1813), exemplarul (ex.) de la Groşi (Arad) (Titus Roşu, Însemnări şi inscripţii bihorene, Editura Universităţii din Oradea, 1999, p. 135). 12 Robert Muchambled, Societé et mentalités dans la France moderne, XVI-e - XVIII-e siecle, Armand Colin, Paris,1990, p. 143. 13 Doina Lupan, Cartea veche românească în biblioteca Muzeului din Sebeş, în «Apulum», XIX, 1981, p. 483. 14 Doru Radosav, Carte şi societate în Nord-Vestul Transilvaniei (sec. XVII-XIX), Oradea, 1995, p. 214.

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donaţia sa este încadrabilă sacrului de transgresiune, cel care face posibilă depăşirea interdicţiilor care delimitează sacrul de profan15, având menirea să atragă contra-darul iertării, al expiaţiei şi redemţiunii. Iertarea este cerută în baza «schimbului de prestaţii» între credincioşii şi divinitate

16.

Este în acelaşi timp un «obiect» material17

foarte scump, reprezintă o importantă valoare de schimb, o marfă prezentă pe piaţă, fiind evaluată în bani sau prin raportare la alte mărfuri: vitele, cerealele, ziua de lucru etc., intrând, frecvent, alături de bani, în preţul cărţilor, într-o societate în care lipsa numerarului făcea ca trocul să-şi continue cariera. Însemnările cu statut de acte de vânzare-cumpărare consemnează, cu stricteţe, modalităţile de achitare a preţului cărţilor:

Această (...) carte, ... o au cumpărat şerbul lui Dumnezeu Vasile Grigore Săbădaşul din sat din Noghifalău, din vidicul Bistriţei, şi cu frate(le) său, cu Ionuţ, şi au dat pre dînsa 30 şi 4 de mi(e)rţe, 4 măji de grîu...

18

[Această carte am luat-o] eu, Bodea Toduţă din Peştire, feciorul lui Bodea Mihai, şi o am cumpărat [de] la popa Ion, [în tîrgul] de(n) Oradea, pe 2 boi

19

15 Mihaela Căluţ, Conceptul de sacru la Jean-Jacques Wunenburger, studiu introductiv la: Jean-Jacques Wunenburger, Sacrul, Traducere, note şi studiu introductiv Mihaela Căluţ, Postfaţă Aurel Codoban, Editura Dacia, Cluj-Napoca, 2000, p. 18. 16 Doru Radosav, Carte şi societate...., cit., p. 217. 17 Ibidem, p. 155. 18 Varlaam, Carte românească de învăţătură (Iaşi, 1643), ex. de la Mărişelu (Bistriţa-Năsăud) (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti. Însemnări de demult, Cuvânt înainte de Prea Sfinţitul Dr. Vasile Coman, Episcopul Oradiei, Editura Episcopiei Ortodoxe Române a Oradiei, 1990 (în continuare: Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti...., p. 146). 19 Chiriacodromion (Alba Iulia, 1699), ex. de la Aştileu (Bihor) (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., p. 172).

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Biblia lui Şerban Cantacuzino era cumpărată la Lugoj, în anul 1723, cu 50 de florini şi un cal20; «Am dat această sfîntă carte eu, popa Sandu ..., lui Vasilca din Agîrbici Dumitraş pe douăzeci şi 4 de oi cu m(i)ei»; la 1834, un Penticostar era cumpărat «de fii lui Popa Mihai», din Leheceni, în schimbul venitului obţinut de crâşma satului pe doi ani

21; «Această carte

anume s Mineiu l-au cumpărat trei oameni de omenie din satul Peştere cu 32 de zloţi şi 3 zile de lucru...»

22.

Şi, desigur, şirul exemplificărilor ar putea continua, asupra unui aspect asupra căruia datele abundă.

Caracterul de obiect consacrat, nu împiedică încheierea târgului după practici laice statuate de tradiţie, cum sunt arvunirea (garanţia că târgul nu mai putea fi stricat, cumpărătorul care se răzgândea pierdea în mod automat suma dată ca «arvună» sau «aleu »)23:

...deci trimiţând Dumnezeu un om la Oradea cu acestă sfântă carte, s-au vestit la jupânul Andraş, deci dumisa au pus aleu pentru dânsa ca s-o cumpere să meargă la dumisa

24.

Un Liturghier era cumpărat, la 1689, de către Toader

Olteanul în târg la Bistriţa, de la Gligor Coşalcă din Bârgău, la sărbătoarea numelui cumpărătorului, spre o a dărui: «o au dat pomană popii, lui Ştefan din Dumitra Mică», pentru sufletul său şi al soţiilor sale Todora şi Ileana; târgul s-a încheiat cu obişnuitul «aldămaş» la care participă, în afara celor două

20 Valeriu Leu, Cartea şi lumea rurală în Banat 1700-1830, Editura Banatica, Reşiţa, 1996, p. 49. 21 Penticostar (Blaj ), ex. de la Leheceni (Bihor) (Titus Roşu, op.cit., p. 34). 22 Antologhion (Bucureşti, 1766), ex. din Peştere (Bihor), însemnare din 1819 a preotului Teodor Ursovici (Titus Roşu, op.cit., p. 238). 23 Doina Lupan, Vechi obiceiuri juridice de pe Valea Ampoiului, în «Apulum», XXI, 1983, p. 400. 24 Cazanie (Bucureşti 1778), ex. al satului Berechiu (Bihor), (Titus Roşu, op.cit., p. 168-169).

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persoane care încheie târgul, martorii: Chifor din Mititei, protopopul David din Uifalău, popa Dumitru din Runcu şi Onul, judele din Dumitra Mică, precum «şi alţi oameni buni». Tranzacţia este făcută în condiţii favorabile de timp - la Sf. Toader - am putea spune şi în condiţii favorabile de loc - cel al târgului care la marile sărbători este investit şi el cu valenţe ale sacrului - întărit de prezenţa ca martori a unor notabilităţi bisericeşti ale zonei, a autorităţii comunitare, a altor oameni de încredere, «buni».

Cartea de cult atrage în jurul său, în circumstanţe excepţionale, puseuri de solidaritate umană şi creştină. Exemplifică bine această afirmaţie însemnarea din 1710 făcută de preotul din Fofeldea (Sibiu), pe un Miscelaneu, manuscris din secolul al XVII-lea. Iniţiativa preotului, «mult păcătosul popa Toma», de a repara legătura cărţii, care «au fost stricată», la un meşter din Sibiu – «o am dus eu, popa Toma, în Sibiu de au dres un neamţ, pe 2 florinţi» - este dată peste cap de epidemia de ciumă care izbucneşte pe neaşteptate: «Şi au dat ciuma». Satul Fofeldea nu se poate mobiliza acum pentru a aduna suma necesară: «bani n-au fost», scrie simplu dar grav preotul care trebuie să scoată cartea datorită pericolului instituirii carantinei, a posibilei morţi a meşterului, a înstrăinării cărţii, de care s-ar face vinovat în faţa lui Dumnezeu el, preotul: «Ci m-am nevoit de m-am dus să o scot», găsind înţelegere «la neşte oameni buni» care i-au împrumutat suma necesară scoaterii cărţii din Sibiul asediat de ciumă. Dar aceleaşi împrejurări au făcut ca preotul să nu-şi poată onora promisiunea de a înapoia banii împrumutaţi la împlinirea sorocului de trei zile: «Şi satul n-au fost harnici să dea banii». În aceste condiţii cartea a rămas zălog şase sau şapte săptămâni, «pînă cînd milostivul Dumnezeu au îndemnat pre Oprea Pura din Holţman de au dat un florintu şi Stan morariul au dat 50 de bani şi Oprea Tătulia au dat 40 de bani, de am plătit». Ceea ce n-a reuşit comunitatea în ansamblul ei,

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au reuşit trei străini satului dar aparţinând aceleaşi comunităţi spirituale: «Şi aceşti oameni buni au dat pomana sufletelor lor (...)». Răscumpărarea cărţii prin actul pios al celor trei este în măsură să restabilească statutul juridic al cărţii, să aducă liniştea în sufletul preotului încercat: «Am scris aceasta eu, mult păcătosul popa Toma, din satul Fofelde, în pace şi sănătate».

Prin raritatea ei, prin greutatea procurării, coroborate cu cererea crescută spectaculos, ca urmare a impactului unui nou tip de devoţiune, cartea reprezintă o valoare spirituală, culturală, de reprezentare, socială şi materială mare, şi tentaţiile în jurul ei sunt pe măsură. Slăbiciunile omeneşti, împrejurările istorice favorizante, situaţii tulburi, războaie, greutăţi, fac ca gândul de a înstrăina sau de a-şi însuşi prin mijloace ilicite acest bun de mare valoare să încolţească în permanenţă în mintea unora. De unde, nevoia de a găsi cele mai eficace mijloace de protejare a lor. În sintaxa actelor de donaţie, aşezarea cărţii la biserică este însoţită de imprecaţii, blesteme grele, bisericeşti25.

Blestemul este definit ca «un act de magie verbală, bazat pe credinţa în puterea cuvântului de a institui, de a modifica o stare existentă»”26. El este inversul binecuvântării; ca atare, Dumnezeu putea să blesteme sau să se folosească de acest drept pentru a-l pune la dispoziţia altora: reprezentanţi ai săi pe pământ - preoţii, cei care n-au alte mijloace de a se apăra (săraci, subjugaţi), cei care acced la acest drept prin autoritatea paternă27.

Blestemele întăresc puterea rituală a cărţii şi sunt menite să apere sensul donaţiei de pericolele distrugerii, înstrăinării prin vânzarea abuzivă, prin furt, prin zălogire:

25 Dan Horia Mazilu, O istorie a blestemului, Editura Polirom, Iaşi, 2001, p. 276. 26 Ibidem, p. 13. 27 Ibidem, p. 27.

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În numele tatălui şi a fiului şi Duhului Sfânt. Amin. Această sfântă Evanghelie o au cumpărat roaba lui Dumnezeu Todoră în 11 florinţi şi un mărieş, pentru sufletul său şi a părinţilor ei, anume Diurca Ion şi maica sa Ohima şi a tot rodul ei până la şeptelea niam să le fie pomană în veci. Şi o au pus şi o au dat pomană în veci. Şi o au dat pomană în beserica din Negreşti. Şi cine o va clinti sau o va fura şi cine o va vinde şi cela cine o va cumpăra şi batăr cine o va clinti şi o va sminti din besereca mai sus numită Negreşti, să fie afurisit, anathema, procliat, blăstămat de Tatăl, Fiul şi Duhul Sfânt de tri sute 18 sfinţi părinţi. Scrisu-s-au acesta pomelnic în Negreşti, supt stăpânire înălţate creesi nostre Marie Terezii, supt vlădicia de la Munkaci, Ioan Bradaci, în zilele preotului Constantin. Anul Domnului 1768 luna lui septemvrie 14 zile

28.

Trecută, indiferent din ce pricini în mâini străine, uneori

ale necredincioşilor ori ale celor care, chiar botezaţi, se situează, prin comportament, în afara lumii creştine - hoţi, lacomi, tăinuitori, jefuitori etc. -, cartea a fost scoasă din cadrul ei specific, sacralitatea ei a fost pusă în pericol prin posibila contaminare cu profanul cel mai abject, aflat la cea mai mare distanţă de Dumnezeu. De aceea, nu este suficientă doar recuperarea ci şi purificarea ei rituală, care să reafirme încărcătura sacră iniţială şi cea dobândită prin aşezarea sa la Biserică. «...deci banii trec, dar pomana va rămâne în veci», scria protopopului Lup din Satul Nou (Bistriţa-Năsăud), cel care, convins de acest lucru, a întreprins investigaţii îndelungate şi dificile pentru a recupera o carte înstrăinată în condiţiile unei invazii tătare din a doua jumătate a secolului al XVII-lea («această carte au fost peri(tă) în răutăţile cele de cînd au robit tătarii»):

am răscumpărat-(o) cu multă cheltuială şi am umblat la 3 scaune şpăneşti şi am dat 23 de florinţi (...) precum şi Iovă Costin şi Henţu

28 Evanghelie (Blaj, 1765), ex. de la Negreşti Oaş (Elena Bărnuţiu, Carte românească veche în colecţii sătmărene, Editura Muzeului Sătmărean, Satu Mare, 1998, p. 133).

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Ionuţ, cum că lor le-am dat 12 florinţi de au umblat cu mine pînă o am dobîndit. După un asemenea efort şi cu mulţumirea izbânzii cu

ajutorul lui Dumnezeu, statutul cărţii este fixat din nou: ea rămâne feciorilor sau nepoţilor săi care vor învăţa carte, care vor şti să o preţuiască şi să o îngrijească, iar dacă s-ar afla în familie cineva care să nu ştie carte, să o dea pomană la biserica unde slujeşte el (protopopul) sau unde va merge, după moartea lui, preoteasa rămasă văduvă ori unul din feciorii săi, cel mai destoinic şi mai cucernic

29.

Puterea de informare a acestui tip de sursă este ridicată şi cu privire la problematica relaţiei dintre scris şi oralitate, a formelor elementare de sociabilitate rurală, a jocului permanent dintre tendinţele de destructurare şi cele de agregare comunitară, a formelor de manifestare a religiozităţii populare. Însemnările la care ne raportăm introduc şi în problematica destul de rău cunoscută a ritualului, cu rolul său determinant în societăţile tradiţionale, cu funcţiile sale reglatoare social30, dar foarte discret probat istoriografic, în ciuda faptului că orice societate se află în posesia unui cod al comunicării rituale, capabil să reafirme coeziunea socială şi spirituală a grupului31, să asigure interacţiunea în mai multe planuri: individ-individ, individ-grup social, individ/grup social-divinitate32.

Preotului i se cere frecvent de către comunitate să rezolve, prin «puterea» sa de operator al sacrului, o serie de lucruri, dincolo de aria de competenţă stabilită de canoane. În această categorie de situaţii în care preotul trebuia să facă în faţa comunităţii dovada 29 Varlaam, Carte românească de învăţătură (Iaşi, 1643), ex. de la Bozieş (Bistriţa Năsăud) (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., cit., p. 159). 30 Mihai Fifor, Comunicare, ritual, ritualizare. Repere teoretice, în «Symposia. Caiete de etnologie şi antropologie», nr. 1, 2002, p. 81. 31 Ibidem, p. 91. 32 Ibidem, p. 81-82.

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puterii sale spirituale, canonice ori necanonice, se situează şi implicarea promptă a preotului din localitatea bihoreană Spinuş, confruntată la 1847 cu o invazie de lăcuste:

În anul acesta [1847], în 12 august, într-o zi de joi, după masă pe la ora 5, de la răsărit s-au abătut un grozav nor de lăcuste, deodată tot orizontul a fost acoperit şi populaţia a fost cuprinsă de panică - situaţie în care reacţia preotului este fermă, mai întâi în plan practic - Preotul din loc imediat a dat poruncă să se tragă clopotul într-o ureche şi cu alte mijloace au făcut larmă ca toţi oamenii să meargă în hotar să facă foc între porumburi şi grâu. Deodată fumul a acoperit tot hotarul. Rezultatul a fost că masa de lăcuste nu s-a aşezat în

hotarul comunei Spinuş pe pământurile proprii, urbariale, ci doar pe pământul moşierului, «pe care au stat câteva zile, distrugând toate semănăturile». Suntem cu un an înaintea desfiinţării relaţiilor feudale şi cu şase ani înaintea legiferării ei. Moşierul era în drept să ceară ţăranilor să intervină; o face prin intermediul judelui sătesc:

Moşierul din sat a dat poruncă birăului Iliyes, care a fost un om slăbănog şi fricos, să mâie poporul pentru alungarea lăcustelor. Asta nu a reuşit. Clopotul nu a influenţat asupra poporului. Lipsa de eficienţă a măsurilor şi poruncilor domneşti şi

rezidenţa lăcustelor în hotarul satului - putând oricând să se mute pe culturile locuitorilor săi - au determinat o nouă intervenţie a preotului, adaugând mijloacelor materiale pe cele spirituale, procesiunea cu caracter excepţional, la care se recurge în caz de calamităţi naturale ori boli33, în măsură să determine mobilizarea comunitară promptă:

De aceia, preotul a chemat poporul la biserică prin trasul clopotului şi, îmbrăcat în odăjdii, a pornit în procesiune în partea de sus a

33 Ioan Horga, Contribuţii la cunoaşterea josefinismului provincial, Editura Universităţii din Oradea, 2000, p. 23-24.

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satului şi poporul văzând această nenorocire, şi că nu este glumă, au venit în procesiune şi mici şi mari, şi bătrâni şi au mers la dealul de sus, la moara lui Pătcaş, au trecut râtul până la marginea hotarului, până la hotarul Ciuhoi, unde lăcustele s-au lăsat şi au mâncat tot porumbul verde. Poporul a fost îngrozit. Preotul a îngenunchiat pe pământ şi, cu ceremonia bisericii orientale, a rostit rugăciunile de blestem, rugându-să lui Dumnezeu să ajute poporului, l-a pus să se roage, apoi poporul s-a ridicat în picioare. După aceia, preotul a înfipt în pământ praporii, doi în frunte şi doi în margine - gest simbolic, de circumscriere a hotarului într-un perimetru magic

34, de exorcizare, care se trăgea şi pentru a apăra

satul de ciumă -, apoi (...) au năvălit asupra lăcustelor, au lovit pentru a le omorî cu picioarele şi a continuat atacul până când lăcustele au fost alungate din hotarul Ciuhoi, astfel că în acea zi s-a terminat cu lăcustele (...)

35.

Pericole de dezintegrare socială vin şi dinspre plaga

alcolismului, semnalată în însemnările marginale. În jurul anului 1650, în faţa protopopului Braşovului, Vasile Hoban, se prezinta Radu Murgan pentru a face legământ în numele cumnatului său Costea, că cel din urmă se va abţine de la băutură un an de zile: «cum că într-un an vin să nu mai bea»; Radu Murgan este îngrijorat de soarta surorii sale, pentru că, datorită beţiei Costea neglijează treburile gospodăreşti, lăsate aproape exclusiv în sarcina soţiei, fapt pentru care în legământ este inserată şi obligaţia: «precum va duce muierii lucru în casă şi bucate de va putia, să muncească împreună cu femeia, unul de o parte, altul de altă parte»; aflăm indirect că relaţiile cu soţia se tensionaseră, fapt pentru care legământul prevede împăcarea lor: «să o cinstească ca pre o muiere şi muiarea ca pre un bărbat»; girantul acestui legământ este, deci, cumnatul împricinatului, fratele soţiei, cel chemat să apere cinstea şi onoarea surorii sale; nerespectarea legământului incumbă obligaţia pentru Radu Murgan de a-l demasca pe Costea

34 Robert Muchambled, Societé et mentalités..., cit., p. 74. 35 Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., cit., p. 337-338.

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autorităţii ecleziastice, în faţa căreia se face legământul: «şi nefăcând unele ca acestea să aib eu, Radu Murgan, a sta faţă înaintea părintelui (Vasile Hoban) şi înaintea cinstitului sobor, iar bând vin să-l dau înaintea părintelui de faţă»; prealabil pedepsei hotărâte de instanţa bisericească, vinovatul trebuia să suporte o pedeapsă corporală foarte aspră, în două etape: una la nivel familial: «să-l bag în coteţ în piali goală, să şazî 3 zil(e)», alta publică: «şi să-i dau 300 de toiege pe pod», «în mijlocul târgului»; nerespectarea acestei obligaţii din partea garantului Radu Murgan, urma să conducă la acceptarea aceleaşi pedepse pentru el însuşi. Pentru a i se conferi valoarea legală cuvenită, înţelegerea redactată de protopopul Vasile Hoban este certificată de Radu Murgan prin punerea degetului: «Şi pentru credinţă mi-am pus şi degetul, ca să să crează în tot locul şi la fieşte judecată»

36.

Dintre cele trei momente esenţiale din viaţa fiecărui individ, în egală măsură şi momente sociale în grupurile tradiţionale, cel mai greu de gestionat de către comunitate este cel legat de necunoscutele «Marii Treceri». Destinul postum al sufletului mortului, în percepţia creştinismului popular românesc, nu depinde în primul rând de faptele săvârşite pe pământ de defunct, ci mai ales de rigoarea împlinirii normei rituale ce încadrează momentul morţii37, orice abatere de la ea riscând să prefacă mortul în strigoi38.

Indivizii pentru care nu s-au executat rituri funerare, scria Arnold Van Gennep, la fel ca şi copii nebotezaţi, cei care nu au primit

36 Manual de filozofie, sec. XVII, păstrat în Şcheii Braşovului (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., cit., p. 127). 37 Mihaela Străin, Imaginea oficială şi populară a strigoiului, în Nicolae Bocşan, Sorin Mitu, Toader Nicoară (coordonatori), Identitate şi alteritate. Studii de istorie politică şi culturală, 3, Presa Universitară Clujeană, 2002, p. 312. 38 Ion Ghinoiu, Lumea de aici, lumea de dincolo. Impostaze româneşti ale nemuririi, Editura Fundaţiei Culturale Române, Bucureşti, 1999, p. 266.

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nume sau au rămas neiniţiaţi, sunt sortiţi unei existenţe jalnice, fără a putea vreodată să pătrundă în lumea morţilor sau să fie agregaţi în societatea lor. Sunt morţii cei mai periculoşi; ei ar dori să revină în lumea celor vii şi, neputând s-o facă, se comportă ca nişte străini ostili39.

Dacă în cazul morţii prin îmbătrânire, ce urmează

căsătoriei şi naşterii copiilor, ritualizarea repetată şi accelerată în preajma morţii, înlesneşte trecerea, în cazul morţii intempestive, încadrabilă morţii «rele», ce exprimă sfârşitul unui individ a cărei viaţă şi fapte «au eludat modelul creştin»

40,

schimbarea bruscă de statut, nu lasă timp pentru împlinirea tuturor secvenţelor rituale, mai ales nu permite administrarea ultimei împărtăşenii

41.

Însemnarea făcută de popa Ionăşel din Vinţeşti, la 1752, pe un Penticostar, tipărit la Râmnic, la 1743, se referă la o tragedie posibilă oriunde în condiţiile de excepţionalitate ale bântuirii unei epidemii de ciumă. Suntem în prezenţa unei drame existenţiale, al cărei caracter extraordinar se detaşează pe fondul unei mortalităţi de ciumă cvasigenerală, prin dimensiunile tragediei familiale, gestionată de preot în spiritul vremii. Soţii Bud Mihoc, poreclit Zimbru Mihoc, şi soţia lui Gafie, se pomenesc în preajma vârstei de 70 de ani, fără cei şase copii ai lor, cinci băieţi încă necăsătoriţi şi o fată măritată, «luaţi» toţi, de «omorul de ciumă», «şi au rămas numai bătrîni(i) amîndoi, singuri, fără de ficior». Exprimarea preotului Ionăşel invocă feciorii, prin termenul singular de «ficior», pentru că n-a rămas nici unul dintre ei, neinvocarea şi a fetei datorându-se faptului că ea era căsătorită – numită ca atare de preot («făme(i)a») -, plecase din casă, aparţinea altei unităţi familiale, îşi împlinise menirea sub acest aspect.

39 Arnold Van Gennep, Riturile..., cit., p. 142-143. 40 Doru Radosav, Sentimentul religios la români..., cit., p. 146-147. 41 Ibidem, p. 137.

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Pierderea celor cinci era pentru bătrâni cu atât mai dureroasă, cu cât erau feciori şi se ştie că în concepţia tradiţională feciorii «reprezintă principiul vitalităţii maxime a comunităţii»42 - o însemnare din satul Răchitova (Hunedoara) consemna moartea, cauzată de ciumă, a 300 de suflete în localitate, ce a avut drept consecinţă pustiirea a 28 unităţi familiale, dar deplânge cu deosebire aflarea printre ele a 60 de feciori

43; erau, apoi, toţi

holtei, deci depăşiseră diversele pericole ce-i păşteau atunci pe copiii mici, - şi a căror moarte ca «îngeri fără de păcate» nu este percepută prea tragic pentru că, murind la o vârstă fragedă, pe de o parte, părinţii nu avuseseră posibilitatea să-şi reverse afecţiunea asupra lor, pe de altă parte, puritatea lor conferită de imposibilitatea de a aduna păcate importante era o garanţie a integrării lor fireşti în lumea de dincolo -, aparţineau cetei feciorilor, trecuseră cu bine riturile de iniţiere pentru a fi integraţi unei noi categorii, cu mare prestigiu social, ajungând în pragul întemeierii unor familii proprii. Mai mult, nici unul nu apucase să se căsătorească, să intre în rând cu lumea. De aceea, moartea la acestă vârstă, în floarea vieţii, era percepută cel mai dureros în lumea tradiţională a satului

44. Cuvintele

preotului exprimă şi un alt punct de vedere general în epocă: pierderea a cinci feciori putea lăsa un număr de fete nemăritate, restrângând reproducţia biologică a comunităţii; în gândirea arhaică, doar căsătoria «raţionalizează viaţa şi moartea»

45, fapt

pentru care în mod tradiţional, în lumea ţărănească românească şi nu numai, tinerii morţi la vârsta căsătoriei erau căsătoriţi simbolic pe lumea cealaltă («nunta mortului»)

46.

42 Gheorghe Şişeştean, Forme tradiţionale de viaţă ţărănească, Zalău, 1999, p. 37. 43 Teologie morală (Blaj,1796), ex. de la Densuş (Hunedoara) (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., cit., p. 197). 44 Kail Kligman, op.cit., p. 112. 45 Ibidem, p.40. 46 Ibidem, p.41.

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Îngrijorarea comunitară, exprimată indirect, se face totuşi într-o perioadă în care lumea este mult mai puţin impresionată de moarte. Cu toate acestea, soarta ieşită din comun a celor doi soţi nu poate să nu-l impresioneze pe preot, să nu o considere drept un semn, încadrabilă unui recitativ de încercări trimise de Dumnezeu pe capul oamenilor: «Deci aceste am scris, să să ştie, că pe acea vreme înbla pro(c)ţiile, adec(ă) cerca nemişigul în Maramurăş»; excepţionalul situaţiei în care se încadra şi drama ce face obiectul însemnării este însoţit, dovedit, de perturbarea ordinii lumii, ce anunţă catastrofele cele mai oribile

47, în cazul de faţă de inversarea

valorilor altimetrice, a formelor de relief: «Dec(i) ace(a) să ştiţi că aşe să ridicasă zăpodiile şi să aşezasă dealurile, cît s-a făcutu-să minune mare». Este primul din semnele identificate de Sfântul Ieronim ca vestitoare a sfârşitului lumii: marea se va ridica deasupra munţilor48; aceste semne corespund simbolic, inversării ordinii morţii în rândurile familiei Bud: nu bătrânii, aflaţi la o vârstă la care moartea ar fi fost firească, sunt seceraţi de ciumă, ci copiii. Este o dovadă a puterii lui Dumnezeu în faţa oamenilor, manifestată prin frâu liber lăsat forţelor sacrului malefic, gândesc părinţii îndureraţi. Moartea celor şase copii ai lor îi determină pe cei doi bătrâni să se gândească la păcatele proprii, în societăţile tradiţionale boală fiind considerată consecinţă a unor vrăji, blesteme ori a unor păcate grave49, şi, în consecinţă, să-şi caute alinare într-o devoţiune mai mare: «Iară (a)cei aşe îndrăgiră beserica, cum auziră clopotul, ei numai că sosiră la beserică amândoi, seara la vecernie, dimineaţa la utrenie, şi la sf(ăn)ta liturghie», convinşi că ceea ce li s-a întâmplat s-a datorat carenţelor anterioare pe acestă linie: «Rău

47 Jacques Paul, Biserica şi cultura..., cit., vol. II, p. 288-289. 48 Lucian Boia, Sfârşitul lumii, o istorie fără sfârşit, traducere din limba franceză de Walter Fotescu, Editura Humanitas, Bucureşti, 1999, p. 54. 49 Gheorghe Şişeştean, Antropologia şi sociologia sacrului, seria Limes-Lekton 5, Editura Limes, Editura Lekton, Zalău, 2002, p. 110.

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s-au mîniat Dumnezeu pre noi!». Această atitudine este încurajată de preot, «păcurar şi păstor turmei lui Hs.», şi direcţionată spre acte de devoţiune superioare, ce se bucură de preţuirea lui Dumnezeu în cel mai înalt grad şi ca atare se vor bucura de o consideraţie asemănătoare şi sufletele feciorilor lor:

Deci eu, fiindu-l(e) duhovnicu, popa Ionăşel, i-am îndemnat şi le-am zis: „Iată, dacă vă pare rău, ... ne cumpără carte(a) ce(a) luminată, care se începe în ziua de Paşti, pînă la Dumineca Mare ţine rânduiala ei. Acceptată soluţia de către cei doi părinţi îndureraţi,

încep demersurile pentru cumpărarea cărţii: «am mersu şi eu, popa Ionăşel, şi cu Mihoc în Băiţe», unde cei doi cumpăra cartea: «şi au dat pe carte(a) aceasta 12 florinţi vonaşi, Mihoc şi cu Gafie»”, pentru răscumpărarea păcatelor lor şi a «a tot rodul lor, să le fie pomană pînă în ve(a)cu»”, pe care o donează bisericii din Budeşti: «şi o au făgăduit la hramul lui Sf. Nicolae în sat în Budeşti».

Cartea nu este aleasă de preot la întâmplare, este una, a cărei folosinţă începe în ziua Învierii, la Paşti, în speranţa repetării modelului cristic şi în cazul de faţă. Morţi de ciumă, cei şase copii ai familiei Bud n-au putut beneficia de tainele spovedaniei şi a cuminecăturii ceea ce înseamnă marginalizarea sufletelor lor, amânarea momentelor de integrare în lumea morţilor. Donaţia de carte rămâne singurul şi cel mai important gest pe care părinţii atât de greu loviţi de soartă îl pot face pentru a influenţa benefic evoluţia postumă a sufletelor copiilor lor. Prin ea încredinţează cu mai mare încredere soarta lor în mâinile lui Dumnezeu, singurul care le poate ajuta în zbuciumul lor, îi poate linişti pe părinţii bătrâni şi dezorientaţi, pentru a-şi duce zilele ce le-au mai rămas, aplecaţi spre cele bisericeşti, poate aduce un plus de siguranţă comunităţii greu încercată de epidemie.

Dacă violenţa este frecventă în lumea ţărănească transilvăneană a Vechiului Regim, crimele, cel puţin prin

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prisma însemnărilor de pe cărţile de cult, desigur selective, rămân de domeniul excepţionalului. Cele câteva cazuri eşalonate pe aproape un secol şi jumătate mărturisesc mai degrabă raritatea, precum şi diminuarea fenomenului criminalităţii rurale cu cât ne apropiem de zilele noastre, dacă nu este vorba, mai degrabă, de un transfer treptat de competenţe spre justiţia de stat, ce-şi asumă, tot mai mult, rezolvarea cazurilor de omor, şi ca atare pierderea importanţei rituale a ceremoniilor comunitare de împăcare, rolul lor fiind uzurpat de pedepsele exemplare date de tribunalele teritoriale.

În principiu, legea îi pedepsea cu moartea pe cei care se făceau vinovaţi de crimă la începutul epocii moderne; însemnările marginale pe cărţi consemnează şi astfel de situaţii: la 1846, la 13 iunie, erau spânzuraţi în hotarul localităţii Petreşti (Alba), «Niculae din Deal, Simion Mireanul din Răchita şi Simion din Pianul de Sus», pentru vina de a fi «omorât pe Sînea şi pe Ion Dăianul cu muiere cu tot»; crimă gravă care exclude «greşeala» şi pentru care pedeapsa nu poate fi decât exemplară, cu un pronunţat caracter pedagogic: furcile nu mai sunt ridicate la locul lor obişnuit, ci «la tîrgu cel de marhă», loc în care locuitorii satelor din zonă se adună ritmic, săptămânal; efectul a fost cel scontat: la execuţie s-au adunat tot atâţia oameni ca la un târg de ţară50. Satele nu erau însă interesate ca după ce pierduseră unul sau mai mulţi membri să mai piardă încă alţii. Ca atare, evitau să-i dea pe criminali pe mâna autorităţilor, preferând să intermedieze împăcarea între familiile, neamurile aflate în conflict.

Tensionarea vieţii comunitare printr-o crimă, săvârşită de un membru asupra altui membru al său se facea în mai multe planuri, desfăşurate de-a lungul principalelor linii de solidaritate: între rudele celui ucis şi neamul ucigaşului; între ucigaş şi membrii propriului grup familial care-şi compromit statutul social prin fapta comisă de unul dintre ei, fie că se 50 Doina Lupan, Cartea veche românească..., cit., p. 485.

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solidarizează sau nu cu ea; între ucigaş şi ansamblul comunităţii viilor; între ucigaş şi sufletul celui ucis, cel din urmă acuzând, în credinţa populară, grave probleme de integrare în noua sa lume, tocmai datorită caracterului violent al morţii care nu permisese administrarea ultimei împărtăşenii, având din aceste considerente tendinţa de revenire prin acţiuni malefice, nu numai asupra ucigaşului, a familiei sale ci şi a ansamblului comunităţii care nu a fost în măsură să preîntâmpine asemenea crize; acţiunea sa este presupusă a se bucura de solidaritatea lumii morţilor, a ascendenţilor săi direcţi şi a întregii comunităţi a lumii subpământene; tensionarea se face - lucru şi mai grav - nu numai între ucigaş şi divinitate ci între divinitate şi ansamblul comunitar, prima alarmată de încălcarea regulilor de convieţuire creştină, la care era chemată să vegheze comunitatea.

O crimă care leza onoarei unei familii, a unui neam, reclama acţiunea de răzbuna asupra făptuitorului dar şi faţă de neamul acestuia, putând declanşa un potenţial şir de «vendetta». De aceea, nu pedepsirea răufăcătorului stă mai întâi în atenţia grupului ci grija ca criza creată prin fapta reprobabilă să nu degenereze într-un factor destructiv iremediabil; oricât de gravă ar fi fapta comisă de cineva, comunitatea are în vedere mai ales depăşirea grabnică a consecinţelor sale negative, prin împăcarea publică, simbolică, a părţilor. Mai mult, comunitatea se străduieşte să transforme acest moment de criză al dezintegrării într-unul de reagregare, asimilând violenţa unui act sacrificial creator, capabil să conducă la regenerarea grupului, la reafirmarea liniilor de sociabilitate.

Însemnarea păstrată pe paginile unui exemplar din Noul Testament (Alba Iulia, 1648), scrisă într-un sat din ţinutul Zarandului, aduce, în raport cu altele, un element specific

51.

51 Noul Testament (Alba Iulia, 1648), ex. păstrat la Sibiu (Florian Dudaş, Memoria vechilor cărţi româneşti..., cit., p. 186-187).

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Interdicţia de a o vinde, de a tăinui, de a o fura, de a o lua cu sila, este întărită de precizarea: «că este cumpărată pentru moartea bunului fecior anume Toader»; gravităţii sancţiunilor fixate prin imprecaţie i se adaugă, prin aceste cuvinte, accente agravante: nu este o donaţie obişnuită, ci una determinată de un eveniment comunitar, a cărui excepţionalitate constă în moartea unui fecior, adică a unui membru al comunităţii cu potenţial de valorizare socială maxim, la care autorul însemnării adaugă o nuanţă eufemistică: Toader fusese un fecior «bun», situat în segmentul elitar al cetei feciorilor din sat, din punctul de vedere al percepţiei comunitare, prin calităţile personale dar şi prin ascendenţa sa imediată: tatăl său este liderul comunitar, cneazul («chinezul»); cartea este semn al iertării de către tatăl acestuia a ucigaşului, al împăcării la rugămintea ucigaşului, cel care a cumpărat cartea, dar al cărui nume nu este pomenit - ucigaşul supunându-se pedepsei interzicerii pomenirii, sancţiune considerată tot atât de grea, poate mai grea decât moartea însăşi52 - , conform înţelegerii : «cum că tatu-său, anume Bogdan Chinezul, l-a iertat pentru că au făcut pace dacă l-au rugat acel ucigaş ce au ucis pe feciorul lui Bogdan, că va cumpăra această carte pentru sîngele acela nevinovat»; pentru gravitatea faptei sale în diverse planuri, cel ce a ucis, este şters astfel, simbolic, din memoria colectivă, este supus unei «izgoniri din istorie»53; sintagma «sângele nevinovat» este una consacrată în textele creştine, pentru a sublinia enormitatea păcatului săvârşit, prin vărsarea lui54; durerea tatălui pentru pierderea «bunului» fecior este evidentă din formularea textului dar şi din dorinţa de răzbunare pe care şi-o controlează cu greu pentru moment dar pe care nu este sigur că o va controla şi pe viitor şi că nu va recurge instinctiv la legea

52 Dan Horia Mazilu, O istorie a blestemului..., cit., p. 402. 53 Ibidem, p. 106. 54 Ibidem,, p. 81-82.

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talionului; pentru a se împiedeca impulsurile spre răzbunare, ceea ce ar mări şi mai mult zestrea de păcate adunate în jurul acestei morţi – violenţa reacţională are accente agravante în raport cu alte forme ale violenţei umane55 -, se propune şi se acceptă de jure împăcarea; dar teama de a nu putea stăpâni emoţiile duce la cuprinderea în cadrul înţelegerii şi a unor restricţii în ceea ce-l priveşte pe ucigaş, cum este cea de a nu mai locui în sat cu familia victimei, «iară întru acest chip l-au iertat, omu în sat să nu şază», pentru a preîntâmpina izbucnirea în anumite condiţii a conflictului şi ale cărui consecinţe ar fi imprevizibile: «că şezînd într-un sat, ori la beţie, ori la trezie, nu ştim (ce) se va întîmpla»; această înţelegere adusă la cunoştinţa tuturor notabilităţilor «protopopilor, preoţilor şi boierilor mireni», este cea mai bună care se poate face şi pentru comunitate care, la modul general, se debarasează cu rapiditate de cei care puneau în pericol liniile de agregare56, în cazul de faţă prin mutarea (presupusă) în alt sat a ucigaşului, îndepărtează nu numai pericolul rediscutării ulterioare a echilibrului afirmat formal prin actul de împăcare, ci direcţionează în altă parte şi fluxul de energii negative ce ar putea veni dinspre sufletul celui ucis, a lumii nevăzute subpământene a morţilor; ucigaşul îşi asumă în acest caz rolul unui veritabil ţap ispăşitor: el duce cu sine, în afara spaţiului comunitar, păcatul de moarte. În acelaşi timp, criminalul nu doar că nu rămâne nepedepsit, dar el urmează să suporte în continuare statutul de marginal, de străin, «Orice om - scria Georges Duby - de îndată ce iese din satul părinţilor săi -, se considera oriunde străin, deci suspect, ameninţat. I se putea lua totul», chiar viaţa: «voi fi zbuciumat şi fugar pe pământ şi

55 Toader Nicoară, Istorie şi violenţă. Lecturi posibile, în «Caiete de antropologie istorică» anul I, 2003, nr.2, p. 11. 56 Nicolae Mihai, Gestul interzis. Imaginea sinuciderii în Oltenia primei jumătăţi a secolului al XIX-lea (Cazul Petre Carapancea din 1835), în «Symposia. Caiete de etnologie şi antropologie», nr. 1, 2002, p. 297.

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oricine mă va întâlni mă va ucide», sunt temerile lui Cain atunci când ia cunoştinţă de blestemul divin57; angoasa înstrăinării este mai puternică în cazul celor exilaţi, cei care sunt alungaţi din lumea lor firească, de pe pământul natal, «acolo unde mormintele strămoşilor stabilesc o continuitate istorică ce creează cadrul existenţei, bazat pe legături strânse de rudenie şi de vecinătate formate de-a lungul timpului» şi care pleacă cu un mare handicap printre străini

58. Asemenea lui

Cain, ucigaşul nenominalizat «este condamnat la separare», la «ruptura de grup», la izolare, la excludere, asimilate unei alte ipostaze a morţii: «Rupt de ai săi, pierzându-şi rosturile şi raporturile cu ceilalţi, insul moare, căci intră, în fapt, sub puterea de separare a morţii»59.

Omorârea unui membru al comunităţii, reprezintă, cantitativ, foarte puţin în comparaţie, de pildă, cu «un omor de ciumă», ce făcea puncţii demografice

60 mult mai substanţiale;

şi în cazul omorârii lui Teodor, feciorul cneazului Bogdan, de către un consătean şi în cazul omorului de ciumă, a celor şase copii ai familiei Bud, a fost voia lui Dumnezeu; nuanţarea începe însă atunci când avem în vedere agentul omorului: ciuma este un personaj temut, dar impersonal; după o asemenea teribilă încercare nu-ţi rămâne de făcut, decât să-ţi reconciliezi relaţiile cu Divinitatea, pentru tine, dar mai ales pentru sufletul celor ce au pierit, pentru că, probabil, pe această linie, ai greşit; în celălalt caz, «unealta» diabolică a uciderii este un om, un consătean, de aceea percepţia subiectivă, emoţională, este mult amplificată, cu atât mai mult cu cât este fiul liderului comunitar; gravitatea faptei ia în acest caz accente destructive

57 Dan Horia Mazilu, O istorie a blestemului..., cit., p. 32. 58 Bronislaw Geremek, Marginalul, în Jacques Le Goff (coordonator), Omul medieval, Traducere de Ingrid Ilinca şi Dragoş Cojocaru, Postfaţă de Alexandru-Florin Platon, Editura Polirom, 1999, p. 320. 59 Dan Horia Mazilu, op.cit., p. 32-33. 60 Robert Muchambled, Societé et mentalités..., p. 57.

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dramatice şi pentru că este un atentat la adresa autorităţii comunitare; dacă şi fiul cneazului poate cădea victimă unui omor, ce siguranţă mai pot avea ceilalţi membrii obişnuiţi ai comunităţii? Chiar voinţa lui Dumnezeu fiind, faptul că te-ai găsit să înfăptuieşti tu, un apropiat, această crimă, pune în evidenţă şi o posibilă intervenţie de altă natură, dinspre celălalt «regat», cel care se supune lui Dumnezeu dar are în raport cu acesta un anumit grad de autonomie; uciderea unei fiinţe dragi de unul cu care împarţi o sumă de valori şi de experienţe, în ciuda eforturilor de a accepta în spirit creştin împăcarea, nu înlătură întreaga cantitate de ură care poate ieşi de sub control; pentru a nu fi nevoit să abdice sub un impuls nefericit de la calitatea de bun creştin dar şi pentru a da un exemplu de cumpătare, de reţinere, Bogdan Chinezul cere ca ucigaşul să se mute în alt sat.

Aşadar, ca rit sacrificial, donaţia de carte către biserică pentru a uşura împăcarea, detensionarea relaţiilor comunitare, îşi afirmă funcţia terapeutică, se constituie în element central al unei strategii de liniştire în plan individual şi colectiv, în lumea rurală transilvăneană de la începuturile modernităţii.

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MIRCEA BRIE

Registrele parohiale de stare civilă din Transilvania în a doua

jumătate a secolului al XIX-lea. Semnificaţie documentară

1. Registrele parohiale şi începuturile demografiei istorice

Ca disciplină independentă în domeniul ştiinţelor

sociale, demografia istorică s-a constituit în perioada postbelică, emancipându-se atât de sub tutela demografiei, cât şi a istoriei1. După cum afirma geograful francez Pierre George2,

demografia istorică este o ştiinţă nouă sau relativ nouă, una din ultimele venite între ştiinţele umane, fiică a căsătoriei cifrelor şi a ştiinţelor sociale, înrudită cu geografia – ştiinţa localizărilor şi a spaţiului –, cu istoria – ştiinţa conjuncturilor şi a timpului –, disciplinată prin rigorile economiei, supusă ineluctabilelor imperative ale biologiei. Termenul de demografie istorică a fost folosit însă

pentru prima dată cu prilejul celui de-al VIII-lea Congres Internaţional de Ştiinţe Istorice din 1933, unde J. Bourdon a prezentat o comunicare intitulată Les méthodes de la démographie historique. Sensul acestui termen a fost însă sinonim cu istoria populaţiei3. În acelaşi sens, de istorie a

1 Jacques Dupâquier, Introduction à la démographie historique, Gamma, Paris – Tournai – Monreal, 1974, p. 9. 2 Apud Ştefan Pascu, Demografia istorică, în volumul colectiv Populaţie şi societate. Izvoare de demografie istorică, vol. I, apărut sub redacţia lui Ştefan Pascu, Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1972, p. 30. 3 Apud Sorina Paula Bolovan, Familia în satul românesc din Transilvania. A doua jumătate a secolului al XIX-lea şi începutul secolului XX, Centrul de Studii Transilvane, Fundaţia Culturală Română, Cluj-Napoca, 1999, p. 14.

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populaţiei, foloseşte şi Roger Mols sintagma „demografie istorică” atunci când analizează geneza medievală a oraşelor europene4. De altfel, acest autor schiţează o primă istorie a registrelor parohiale în Europa Occidentală5, el interesându-se de perioada lor de apariţie în diversele ţări. De asemenea, este evidenţiată importanţa şi valoarea, pentru demografia istorică, a acestor documente.

Autorul unui Manual de demografie (Philippe Mouchez), publicat în 1964, consideră absolut necesar un studiu demografic retrospectiv6, respectiv o demografie în evoluţia sa istorică. El avertizează însă asupra faptului că o astfel de cercetare este greoaie şi foarte complexă, ce necesită studiul unor surse de informare multiple, contradictorii uneori. El se pronunţă pentru recuperarea acestor izvoare, pentru confruntarea lor (până este asigurată o compatibilitate), iar rezultatele obţinute să fie analizate prin folosirea unor ipoteze de lucru. Interesul pentru aceste surse documentare, mai cu seamă pentru registrele parohiale, este mai vechi. Ele au fost adesea analizate, catalogate, mai puţin, însă, cercetate efectiv. Un interesant studiu, apărut în anul 1912, sub numele de Les registres paroissiaux en Belgique7, a fost publicat de către J. Vannerus. Autorul studiului nu face însă altceva decât să inventarieze aceste documente, să le semnalizeze existenţa,

4 Ibidem; Lucrarea lui Roger Mols, publicată în 3 volume, se intitulează Introduction à la démographie historique de villes de l`Europe du XIVe au XVIIe siècle şi a apărut la Editura Receuil de Travaux din Louvain în anii 1954-1956. 5 André LaRose, L’enregistrement des événements démographiques par les églises: une question internationale, în volumul colectiv Populaţie şi societate. Izvoare de demografie istorică, vol. III, apărut sub redacţia lui Ştefan Pascu, Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1980, p. 25. 6 Annie Vidal, Démographie. Eléments d`analyse et évolution du peuplement humain, Presse Universitaires de Grenoble, 1994, p. 13. 7 Brunnel C., L’enregistrement des baptêmes, mariages et décês, sous l`ancien régime, en Belgique, în Populaţie şi societate, III, cit., p. 69.

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importanţa şi rolul lor. O cercetare, în sensul despuierii acestora nu este însă realizată.

Fondatorul demografiei istorice este considerat fără nicio îndoială Louis Henry8. Acesta, împreună cu Michel Fleury, a fost autorul primului manual de demografie istorică (publicat la Paris, în anul 1956, sub numele de Des registres paroissiaux et l`histoire de la population. Manuel de dépouillement et d`exploatation de l`état civil ancien). Cei doi autori propun pentru completarea datelor demografice, utilizarea şi a altor izvoare, nefolosite până atunci în acest scop. Ei vor aplica o metodă nouă, modernă, novatoare, de despuiere şi analiză a registrelor parohiale de stare civilă, în sensul reconstituirii evenimentelor demografice (naşterea, căsătoria, decesul). Metoda reconstituirii familiei, prin analiza registrelor parohiale de stare civilă, propusă de L. Henry şi M. Fleury, a revoluţionat domeniul care se ocupa de studierea populaţiei9. Louis Henry consideră că registrele parohiale de stare civilă sunt sursa fundamentală de informare pentru perioada prestatistică, tocmai din acest considerent propune reconstituirea vieţii biologice a familiei. El consideră familia ca fiind grupul social cel mai important al comunităţii, al societăţii. În anul 1958, L. Henry şi E. Gautier, după o cercetare asupra comunităţii şi familiei din satul Crulai, publică o lucrare care stabileşte într-o manieră şi mai clară noile metodologii ale demografiei istorice10. Este prima monografie abordată din perspectiva demografiei istorice. Demografia istorică începe să se definească acum prin sursele sale de documentare (registrele de stare civilă) şi prin metodele

8 Vidal, Démographie, cit., p. 15. 9 Sorina Paula Bolovan, Istoria familiei şi demografia istorică în România la început de mileniu, în «Caiete de antropologie istorică», anul I, nr. 1, Cluj-Napoca, 2002, p. 24. 10 L. Henry, E. Gautier, La population de Crulai, paroisse normande: étude historique, Institut national d’études démographiques, Paris, 1958.

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folosite (a fost introdusă microanaliza bazată pe cuplarea datelor nominative)11. Numeroase monografii, ale căror cercetări au avut drept fundament metoda despuierii registrelor parohiale de stare civilă, au fost elaborate în perioada următoare. Între acestea amintim lucrarea Beauvais et le Beauvaisis de 1600 á 1730, semnată de P. Goubert12. Metoda folosită de către autor i-a permis să surprindă comportamentul familial al ţăranilor din zona Beauvais13, reuşind astfel să explice frecvenţa redusă a ilegitimităţii, raritatea celibatului, vârsta târzie la căsătorie, durata intervalului dintre naşteri, nivelul natalităţii etc.

Metoda folosită de către cei doi deschizători de drum a fost urmată de sute de istorici din întreaga Europă. Registrele parohiale au încetat să mai fie ‘gloata adormită’ a vechilor arhive14, ele fiind cea mai importantă, de cele mai multe ori unica, sursă de documentare pentru istoria celor mulţi şi umili. Demografilor şi istoricilor li s-au asociat, în perioada următoare, sociologi, antropologi, etnografi, astfel abordarea a devenit una mult mai largă. Registrele de stare civilă au devenit importante surse de documentare pentru tot mai variate domenii de cercetare. Astfel, perspectivele de abordare a comunităţii rurale şi a familiei s-au extins considerabil.

Cu prilejul Congresului mondial al Comitetului Internaţional de Ştiinţe Istorice desfăşurat în anul 1960, în oraşul Stockolm, L. Henry a realizat o expunere sintetică a metodelor demografiei istorice. Specialiştii prezenţi la manifestare au decis înfiinţarea unei Comisii Internaţionale de

11 Bolovan, Familia în satul românesc, cit., p. 15. 12 Pierre Goubert, Beauvais et le Beauvaisis de 1600 á 1730. Contribution á l’histoire sociale de la France au XVIIeme siècle, Service d’Edition et de Vente des Publications de l’Education Nationale, Paris, 1960. 13 Bolovan, Familia în satul românesc, cit., p. 16. 14 Pierre Chaunu, Civilizaţia Europei clasice, vol. I, Editura Meridiane, Bucureşti, 1989, p. 212.

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Demografie Istorică15. În anul 1963, a fost înfiinţată, la Paris, Societatea de Demografie Istorică (prezidată pe rând – până în 1975 - de către Marcel Reinhard, Pierre Goubert, Louis Henry şi A. Armengaud), al cărei periodic, «Annales de démographie historique», a jucat un rol important în promovarea noii discipline istorice16. Publicaţia «Annales de démographie historique», editată începând cu anul 196517, a avut un rol covârşitor în impunerea disciplinei pe plan internaţional. Demografia istorică a evoluat progresiv din punct de vedere tehnic şi metodologic. Numeroşi istorici, demografi şi statisticieni îşi vor revizui metodologia folosită în studiul populaţiei. Modul de utilizare şi recuperare a datelor statistice, care până la acea dată nu se dovediseră interesante pentru cercetarea istorică, capătă un nou imbold odată cu analiza efectuată de Bertrand Grille asupra surselor statistice18. Familia, mariajul şi nupţialitatea, fecunditatea şi natalitatea sunt subiecte tot mai mult dezbătute în cercurile istoricilor demografi francezi ai acestei perioade19.

15 Bolovan, Istoria familiei şi demografia istorică, cit., p. 25. 16 Ioan Horga, Consideraţii pe marginea evoluţiei demografiei istorice: metodă, surse de documentare, modelare proprie, în Corneliu Crăciun, Antonio Faur (coord.), Istoria - ca experienţă intelectuală, Editura Universităţii din Oradea, Oradea, 2001, p. 446; Bolovan, Familia în satul românesc, cit., p. 16; Idem, Istoria familiei şi demografia istorică, cit., p. 25. În acelaşi an la Ottawa, Consiliul Uniunii Internaţionale pentru Studiul Ştiinţific al Populaţiei a hotărât înfiinţarea unui comitet de demografie istorică, a cărui scop era de asemenea promovarea noii discipline (Ibidem). 17 Aceasta fiind publicată şi în anul 1964, dar sub numele de „Études et chronique de démographie historique”. 18 Bertrand Grille, Les sources statistiques de l’histoire de France, Paris, 1964. 19 În aceşti ani apar lucrări cu rol important în consolidarea ştiinţei demografiei istorice, atât sub aspect metodologic, cât şi prin promovarea unor noi direcţii de cercetare: Alain Girard, Le choix du conjoint. Une enquete psycho-sociologique en France, Presse Universitaire de France - Institut national d’études démographiques, Paris, 1964; L. Henry, La fécondité du mariage: Nouvelle méthode de mesure, Institut national d’études démographiques, Paris, 1965; Idem, Le manuele de demographie

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Ample lucrări de interes au apărut şi în afara Franţei, în Belgia, Marea Britanie, Republica Federală Germania, Statele Unite ale Americii, etc. În anul 1964, la Cambridge, o echipă de cercetare condusă de către Peter Laslett şi E.A. Wrigley a pus bazele unei prestigioase instituţii de profil: Cambridge Group for History of Population and Social Structure, reorganizată, în anul 1974, ca unitate independentă de cercetare. Cercetările efectuate de către această instituţie au permis abordarea şi a altor problematici legate de viaţa familiei20. De asemenea, structura social-economică a gospodăriilor ţărăneşti din perioada prestatistică este identificată alături de alte variabile demografice ale societăţii engleze. Reprezentanţi ai acestei instituţii vor participa, având un rol considerabil, la o cercetare ce îşi propune să refacă situaţia demografică a societăţii engleze pe o perioadă de 300 de ani. Cercetarea s-a finalizat prin publicarea lucrării An Introduction to English Historical Demography. From the Sixteenth to the Nineteenth Century21. Modelul propus a fost reluat de către Lawrence Stone22, în anul 1979, acesta publicând volumul The Family, Sex and Marrige in England 1500 – 180023. Ca şi concluzii ale acestei lucrări desprindem faptul că ritmul dezvoltării social-economice, politice şi culturale influenţează în mod direct mutaţiile historique, Librairie Droz, Geneva-Paris, 1967; John T. Noonan, Contraception et mariaje, Paris, 1969, etc. 20 În anul 1965, la Londra, D.V. Glass şi D.E.C. Eversley editează volumul colectiv Population in History. Essays in Demography ce va continua să apară şi în anii următori. 21 E.A. Wrigley (coord.), An Introduction to English Historical Demography. From the Sixteenth to the Nineteenth Century, Weidenfeld and Nicolson, Londra, 1966. Această lucrare este considerată de către Pierre Chaunu drept o „imitare foarte reuşită a manualelor de demografie istorică franceză”. Pierre Chaunu, Histoire science sociale. La durée, l’espace et l’homme á l’epoque moderne, Edition SEDES, Paris, 1974, p. 296. 22 Bolovan, Familia în satul românesc, cit., p. 18. 23 Ibidem, p. 19.

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comportamentului individual faţă de familie, aranjamentele maritale, reflecţia asupra sentimentelor şi sexului. Căsătoria de conjunctură, menajul, numărul copiilor, divorţul sau concubinajul îl situează pe individ undeva între controlul social şi dorinţa lăuntrică. Lumea tradiţională începe să se ruineze pe propria structură, emanciparea individuală atrage după sine emanciparea comunitară, şi, implicit, naşterea unor noi modele mentale, acceptate drept valori de către generaţiile următoare.

O deosebită contribuţie în cercetarea căsătoriei şi fecundităţii familiei, alături de E.A. Wrigley24, şi-a adus J. Hajnal25 sau E. Shorter26. J. Hajnal, după o lungă perioadă de cercetare a registrelor parohiale de stare civilă, a ajuns la concluzia că Biserica latină occidentală a avut o contribuţie esenţială în conturarea modelului demografic specific Europei moderne. «Mariajul european», ca model conceptualizat de către J. Hajnal, în jurul căruia s-au raliat numeroşi demografi istorici occidentali, este considerat de către P. Chaunu «unic, fără precedent şi fără corolar»27. Modelul proiectat de Hajnal caracteriza ‘mariajul’ modern prin vârstă înaintată la căsătorie şi celibat feminin28. Această realitate, specifică mai degrabă Europei catolice şi protestante, este greu de identificat în Europa răsăriteană, inclusiv în spaţiul românesc, unde celibatul feminin este aproape inexistent, iar vârsta la căsătorie a rămas la valori nu prea ridicate. Un asemenea model, caracterizat drept „european”, este privit cu circumspecţie de către P. Chaunu, care, distanţându-se de el,

24 E.A. Wrigley, Société et Population, Hachette, Paris, 1969. 25 J. Hajnal, European marriage pattern in perspective, în Populations History, volum editat de D.V. Glass, D.E.C. Eversley, Londra, 1968, p. 101-148. 26 E. Shorter, The Making of the Modern Family, Londra, 1976. 27 Chaunu, Histoire science sociale, cit., p. 316; G. Ranki, The European periphery and industriliazation (1780-1914), Budapesta, 1982. 28 Horga, Consideraţii, cit., p. 434.

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precizează că mariajul european este socialmente omogen, existând submodele sau nuanţe, una de tip aristocratică, cealaltă populară29. Celibatul feminin se întâlneşte foarte rar în casele populare, spre deosebire de ceea ce se întâmplă în vârful ierarhiei sociale30.

Martine Segalen, plecând de la o prezentare denominativă a registrelor parohiale de stare civilă din localitatea Vraiville a ajuns la o reconstituire a familiei printr-o analiză ce includea şi aspecte ale dimensiunii socio-profesionale ale celor implicaţi31. Folosindu-se «analiza transversală»32 s-a putut urmări evoluţia curbei vârstei la căsătorie pe parcursul a două secole şi jumătate, dar şi variaţia sezonieră a căsătoriilor33. Trecând dincolo de datele statistice seci, Martine Segalen, prin metodologia la care apelează, oferă o perspectivă sociologizantă a fenomenelor demografice. Relaţiile inter-personale34, rolul căsătoriei în reproducerea familiei şi societăţii, cadrul comunitar sunt elemente ce evidenţiază ceea ce ea însăşi definea prin sociologia istorică a căsătoriei35. Apelând, apoi, la «analiza transversală»36 autoarea a putut urmării evoluţiile

29 Chaunu, Histoire science sociale, cit., p. 31. 30 Idem, Civilizaţia, cit., p. 222. 31 Martine Segalen, Nuptialité et alliance. Choix du conjoint dans une commune d’Eure, Maisonneuve et Larose, Paris, 1972. 32 Denumită şi analiza momentului. Prin aceasta se face o analiză a unui fenomen demografic pe parcursul unui an, neţinându-se seama de generaţii. Vidal, Démographie, cit., p. 36-37. 33 Horga, Consideraţii, cit., p. 433. 34 Martine Segalen, Mari et femme dans la société paysanne, Flammarion, Paris, 1980, p. 123-185. 35 Idem, Sociologie de la famille, ed. IV, Armand Colin, Paris, 1996, p. 116-123. 36 O asemenea metodă îşi propune să cuprindă un ansamblu de persoane (o generaţie), care au trăit acelaşi eveniment demografic pe parcursul aceluiaşi an. R. Pressat, L’analyse démographique. Concepts, methodes, résultats, ed. IV, Presse Universitaire de France, Paris, 1991, p. 26.

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generaţionale şi inter-generaţionale37. Preocupări oarecum similare au Yvonne Knibiehler38, J.L. Flandrin39, Edward Shorter40, Robert Muchembled41, Jack Goody42, M. Mitterauer, R. Sieder43, etc., dar şi mult mai cunoscuţii Philippe Ariès, George Duby, Michelle Perrot, Pierre Chaunu, Alain Corbin, François Lebrun, s.a. O incontestabilă contribuţie, atât calitativă, cât şi cantitativă, îşi aduc, promovând aceleaşi metode de abordare, volumele lucrării Histoire de la famille, coordonate de André Burguiére, Christiane Klapish-Zuber, Martine Segalen şi Françoise Zonabend44.

O cunoscută echipă de cercetare, un adevărat laborator de demografie istorică, a funcţionat la Sorbona începând cu anul 1972. Pe lângă reconstituirea familiilor, interesul acestei şcoli de la Sorbona a fost şi acela al «geografiei istorice»45. O altă echipă, coordonată de către Pierre Chaunu şi P. Gouhier, este creată la Universitatea din Caen.

37 Horga, Consideraţii, cit., p. 433. 38 Yvonne Knibiehler, Histoire des mères, du Moyen Age á nos jours, Montolba, Paris, 1980 (în colaborare cu Chaterine Fouguet); Idem, La femme au temps des colonies, Stock, Paris, 1985 (în colaborare cu Régine Goutalier); Idem, La Femme et les médecins, Hachette, Paris, 1983 (în colaborare cu Chaterine Fouguet); Idem, Les pères aussi ont une histoire..., Hachette, Paris, 1987; etc. 39 J.L. Flandrin, Familles. Parenté, maison, sexualité dans l’ancienne societé, Hachette, Paris, 1976. 40 Edward Shorter, Naissance de la famille moderne XVIIIe-XXe siècle, Édition du Seuil, Paris, 1977. 41 Robert Muchembled, Famille et l`histoire des mentalités (XVI – XVIIIe siècles). Etat present de la recherches, în «Revue des Etudes Sud-Est Europeenne», 1974, nr. 3, p. 349 – 369. 42 Jack Goody, La famille en Europe (ediţie în limba franceză tradusă de Jean-Perre Bardon şi prefaţată de Jacques Le Goff), Polirom, Paris, 2001. 43 M. Mitterauer, R. Sieder, The European Family. Patriarchy to Partnership from the Midlle Age to the Present, Blackwell, Oxford, 1982. 44 André Burguiére, Christiane Klapish-Zuber, Martine Segalen, Françoise Zonabend (coord.), Histoire de la famille, Armand Colin, Paris, 1986. 45 Dupâquier, Introduction, cit., p. 87.

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O importantă lucrare de referinţă pentru demografia istorică a publicat Jacques Dupâquier46 la Paris, în 1974, sub numele de Introduction à la démographie historique. Un remarcabil manual de demografie istorică, lucrarea reuşeşte să surprindă legăturile existente şi necesare între demografie şi istoria locală. Ne apare în faţă o metodă interesantă de despuiere a registrelor parohiale de stare civilă, urmărindu-se firul principalelor evenimente demografice din viaţa familiilor reconstituite.

Reconstituirea istoriei familiei a continuat să-i preocupe pe cercetători, metodele s-au diversificat în paralel cu utilizarea informaţiilor oferite de ştiinţele colaterale demografiei istorice. Demografia istorică încearcă astfel să depăşească stadiul cuantificării numerelor, urmărind practic emiterea de ipoteze şi concluzii menite să demitizeze istoria. Individul, actor al evenimentului istoric, nu poate fi, şi nu trebuie desprins din mediul şi lumea în care trăieşte. El se identifică cu viaţa şi traiul zilnic al comunităţii, cu mentalul grupului, cu mulţimea, mulţime care modelează şi sculptează valori, norme şi şabloane.

2. Aspecte generale cu privire la înregistrarea registrelor

parohiale de stare civilă în Transilvania La început, aceste registre nu s-au completat regulat,

preoţii având libertatea de a întocmi înscrisurile aşa cum

46 El este autorul unor importante lucrări de demografie istorică. Amintim, pe lângă lucrarea citată deja (Introduction à la démographie historique), studii precum: Sur la population française aux XVII-eme et XVIII-eme siècles, în «Revue Historique», nr. 485, ianuarie-martie 1968, p. 43-79; La population du Bassin parisien (XVII-XVIII), în Hommage a Marcel Reinhard. Sur la population française au XVIIIe et au XIXe siècle, Paris, 1973; Jacques Dupâquier, La population rurale du Bassin parisien à l'époque de Louis XIV, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris, 1979; Le mouvement saisonnier des mariages en France (1856-1910), în «Annales de demographie historique», Société de Démographie Historique, Paris, 1977; La population française aux XVII-eme et XVIII-eme siècles, Paris, 1979.

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doreau, neexistând un formular de înregistrare standard47. Primele registre de stare civilă au fost simple consemnări ale preoţilor cu privire la daniile primite şi la taxele percepute de către cler cu ocazia botezurilor, cununiilor şi înmormântărilor. De asemenea, nu erau înregistrate toate evenimentele demografice48. Până la sfârşitul secolului al XVIII-lea însemnările de stare civilă s-au făcut foarte sumar şi împreună, în ordine cronologică, pentru toate evenimentele demografice; după aceea, s-a trecut la înregistrarea în trei rubrici: pentru botezaţi, căsătoriţi şi morţi. Dacă în Occident înregistrarea obligatorie a acestor registre de stare civilă s-a făcut destul de timpuriu, statul implicându-se în controlul actelor bisericeşti, în spaţiul românesc ele se impun destul de târziu. Mai devreme în Transilvania decât în Moldova şi Ţara Românească, aceste registre ajung să fie înregistrate regulat, respectându-se totodată o anumită metodologie de completare a lor. Episcopii confesiunilor din Transilvania, începând de la sfârşitul secolului al XVIII-lea, la intervenţia statului austriac, au dat preoţilor instrucţiuni şi modele-tip privind completarea registrelor de stare civilă. Regulamentul de recrutare, emis de către Maria Tereza în anul 1773 şi pus în aplicare de către Iosif al II-lea în 1784, prevedea, într-un capitol întreg, instrucţiuni referitoare la întocmirea acestor acte de stare civilă49. Este prevăzută de asemenea obligaţia preoţilor de a

47 Dupâquier, Introduction, cit., p. 53. 48 La început preoţii înregistrau doar copiii care erau botezaţi, şi asta se făcea pentru a avea o evidenţă a enoriaşilor. A urmat înregistrarea cununiilor, respectiv a căsătoriilor, iar în cele din urmă a deceselor. Lipsesc informaţiile referitoare la mortalitatea infantilă sau la divorţuri. Lipsesc de asemenea informaţiile referitoare la familiile celor care erau protagoniştii acestor evenimente demografice. 49 Liviu Moldovan, Înregistrarea de către biserici a botezaţilor, cununaţilor şi înmormântărilor în Ţările Române în secolele XVIII – XIX, în Populaţie şi societate, III, cit., p. 137.

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trimite rapoarte trimestriale asupra creşterii sau descreşterii populaţiei. Menţionăm aici şi următoarele ordine, trimise preoţilor de către autorităţile de stat: preoţii să păstreze registrele matricole (7 ianuarie 1770); registrele matricole trebuie păstrate la locuri ferite de foc, iar în caz de incendiu vor fi întâi salvate aceste registre (10 mai 1774); registrele matricole se vor întocmi în două exemplare, din care unul se va înainta jurisdicţiei civile (legea 23 din 1827)50. Statul cedează bisericii acest rol, însă cere categoric episcopiilor să supravegheze întocmirea acestor registre51. Până pe la mijlocul secolului al XIX-lea, registrele de stare civilă erau liniate cu mâna de către preoţi, asta deşi tipărirea acestor documente începuse încă din 1784. Registrele ortodoxe sunt scrise în limba română şi sârbească (în Banat), cele romano-catolice în latină şi maghiară, cele ale calvinilor şi unitarienilor în maghiară, cele ale luteranilor în germană, cele ale greco-catolicilor în latină şi română, iar cele ale mozaicilor în maghiară, germană sau chiar ebraică52.

Conţinutul registrelor de stare civilă s-a îmbunătăţit tot mai mult, în primul rând datorită presiunii statului. Începând cu anul 1850 este introdusă în registrul botezaţilor o rubrică referitoare la născuţii-morţi, o alta pentru consemnarea legitimităţii sau nelegitimităţii naşterii. În registrul cununaţilor apare o rubrică nouă privitoare la starea cununaţilor (june, văduvi), iar în registrul morţilor s-a introdus o rubricatură în care era consemnată cauza morţii. În toate registrele o rubrică era rezervată pentru observaţii şi menţiuni speciale pe care preotul le putea face.

50 Ibidem. 51 Un exemplu în acest sens este Ordinul gubernial din 24 mai 1825 prin care era prevăzută obligaţia episcopilor de a supraveghea întocmirea registrelor de stare civilă din eparhiile lor. 52 Liviu Moldovan, op. cit., p. 139.

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3. Registrele parohiale de stare civilă în Transilvania – semnificaţie şi importanţă documentară

Registrele bisericeşti sunt singurele în măsură să ne ofere

o imagine asupra familiei în mediul rural, cel puţin pentru a doua jumătate a secolului al XIX-lea. Înscrisurile bisericeşti, sursele fundamentale pentru cercetarea vieţii familiale, sunt de două categorii: 1. registrele de stare civilă şi rapoartele anuale ale parohiilor; 2. fondurile autorităţilor bisericeşti, înscrisurile şi procesele verbale consemnate de către episcopii. Aceste înscrisuri sunt surse complexe pentru cercetătorul interesat de demografia istorică, de istoria socială, dar şi de istoria economică, de toponimie, onomastică etc. Prelucrarea datelor cuprinse în aceste registre necesită o metodologie specifică. Ele ne permit observarea tendinţelor ce s-au manifestat pe termen lung în privinţa evenimentelor demografice, respectiv: naşterea, căsătoria sau decesul. Aceste registre se prezintă, pentru o lungă perioadă de timp, ca unice surse de documentare în ceea ce priveşte statutul civil şi evenimentele demografice din viaţa personală a majorităţii populaţiei. Cercetând aceste registre putem să descoperim importante trăsături ale mişcării naturale a populaţiei, ale fenomenului natalităţii, ale nupţialităţii, ale divorţialităţii sau ale mortalităţii53. Apoi, o analiză asupra formei şi conţinutului acestor registre poate să surprindă universul cultural al preoţilor care completau aceste registre.

a) Registrele parohiale: surse de stabilire a identităţii etnice şi confesionale Pe teritoriul Ungariei şi al Transilvaniei, după primul

recensământ din 1784-1787, o nouă recenzare oficială şi generală a avut loc doar peste şase decenii şi jumătate, la

53 Ştefan Pascu, L`actualité de la démographie historique, în Populaţie şi societate, III, cit., p. 12-13.

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mijlocul secolului al XIX-lea. După înăbuşirea revoluţiei de la 1848/1849 din Ungaria şi, în special, după restructurarea politico-administrativă a Monarhiei, a devenit inevitabilă organizarea unui nou recensământ. Recenzarea a demarat în vara anului 1850, dar, din cauza pregătirilor de război împotriva Prusiei, derularea ei s-a întrerupt, ea fiind finalizată doar în vara anului 1851. Este singurul recensământ din Transilvania (până la unirea cu România) în conţinutul căruia a fost folosită naţionalitatea ca şi criteriu de înregistrare a populaţiei. Instrucţiunile recensământului nu au clarificat sensul noţiunii de naţionalitate, astfel că, în momentul completării rubricii respective, în determinarea ei s-au întrepătruns diverse puncte de vedere.

Ulterior s-au mai organizat recensăminte în anii 1857, 1869, 1880, 1890, 1900 şi 191054. Dacă în ceea ce priveşte confesiunea populaţiei există rubrici clare, în ceea ce priveşte naţionalitatea, lucrurile nu au mai stat la fel ca şi în 1850. Abia în 1880 se încearcă a se face o clarificare în acest sens. Organizatorii recensământului s-au mulţumit însă cu înregistrarea limbii materne declarate. Este ştiut faptul că nu în toate situaţiile limba maternă declarată era cea specifică grupului etnic căruia îi aparţinea o persoană. Apoi, copii care nu vorbeau au fost excluşi din această categorie (această situaţie s-a remediat la recensământul din 1890 când copii au primit limba maternă a mamei). În 1900, putea fi înscrisă drept limba maternă doar o limbă vie, deci latina, limba ţigănească şi ebraica nu au putut fi evidenţiate.

În condiţiile lipsei din cele câteva recensăminte efectuate de către statul maghiar a unei variabile de recenzare referitoare la naţionalitate propunem, pe baza analizei

54 Informaţiile referitoare la aceste recensăminte pe care le vom prezenta pe scurt au fost culese din Traian Rotariu (coord.), Maria Semeniuc, Mezei Elemér, Recensământul din 1910. Transilvania, Studia Censualica Transsilvanica, Editura Staff, Cluj-Napoca, 1999, p. 693-712.

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registrelor parohiale de stare civilă. Informaţiile ecleziastice ne oferă o imagine relativ clară asupra structurii confesionale, nu însă şi asupra celei etnice. Aceste informaţii trebuie să le analizăm cu mare atenţie, dacă este posibil chiar să fie comparate cu informaţii ce provin din alte surse, deoarece de cele mai multe ori aceste informaţii se referă doar la enoriaşii respectivei confesiuni; nu în ultimul rând putem observa un anumit subiectivism care s-a strecurat atunci când au fost înregistrate aceste date. O comparaţie între informaţiile provenite din mai multe surse documentare este, considerăm, binevenită în vederea atingerii scopului propus, şi anume de determinare a structurilor etnice, dar şi confesionale, a legăturilor dintre acestea.

Documentele pe care le avem la dispoziţie nu ne permit să stabilim cu exactitate etnicitatea unei persoane. Chiar dacă am dori să evidenţiem doar etnia, nu o să putem face acest lucru pentru că la nivelul secolului al XIX-lea nici măcar recensămintele oficiale nu folosesc ca variabilă de recenzare naţionalitatea, ci doar limba maternă. Registrele sau rapoartele parohiale de stare civilă permit stabilirea identităţii etnice a unei persoane într-o şi mai mică măsură, aici criteriul după care se ţine evidenţa populaţiei este confesiunea. În acest ultim caz, stabilirea unei relaţii între etnie şi confesiune are o marjă de eroare şi mai mare.

Plecând de la informaţiile pe care le avem în recensăminte şi folosind registrele parohiale pentru completarea şi verificarea acestor informaţii propunem următoarea modalitate de stabilire a identităţii etnice: a. verificarea limbii materne; b. stabilirea identităţii confesionale; c. studiul onomastic.

Criteriile prin care se poate determina apartenenţa etnică în această regiune sunt, pe lângă declaraţia individuală de apartenenţă etnică (date de care dispunem însă în mică măsură), limba, religia, precum şi numele persoanei (în

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principal numele de familie). Este evident că, folosind aceste criterii, trebuie să ţinem cont de toţi aceşti indicatori nu doar de unul. Un individ poate să cunoască sau nu limba poporului de care aparţine. El îşi pierde identitatea religioasă sau, pur şi simplu, se converteşte la o altă confesiune sau religie. Variabila numelui este şi mai relativă. O persoană, cel mai adesea prin căsătorie, îşi schimbă numele. La începutul secolului al XX-lea se intensifică procesul de modificare lingvistică a numelor sub influenţa legii Apponyi55. Dar, atunci ce înseamnă identitatea etnică? Un individ care îşi pierde religia, numele şi limba (în mod special) nu îşi pierde şi această identitate etnică? Identitatea etnică, naţională este mult mai complexă decât este chestiunea religioasă sau cea lingvistică56. Tocmai, din acest considerent, trebuie să ţinem cont de toţi factorii şi condiţiile socio-politice, economice sau culturale care imprimă o anumită realitate de factură etnică.

Este necesar să folosim cel puţin două dintre criteriile amintite. Dacă luăm în considerare religia, putem spune că românii sunt ortodocşi şi greco-catolici. Nu excludem, chiar se poate dovedi acest fapt, posibilitatea ca unii maghiari să fie greco-catolici sau chiar ortodocşi57. Trebuie să avem în vedere toţi factorii, toţi indicatorii posibili. Faptul că găsim în documente maghiari de confesiune greco-catolică sau ortodoxă se explică, într-o mai mică măsură prin convertirea maghiarilor la aceste confesiuni, deşi găsim numeroase astfel de cazuri, ci

55 Gheorghe Şişeştean, Etnie, confesiune şi căsătorie în nord-vestul Transilvaniei, Editura Caiete Silvane, Zalău, 2002, p. 15. 56 Nicolae Bocşan, Ideea de naţiune la românii din Transilvania şi Banat - Secolul al XIX-lea, Presa Universitară Clujeană, Cluj-Napoca, 1997, p. 130. 57 Un bun exemplu în acest sens este cel al localităţii Şuncuiuş de Beiuş (comitatul Bihor), unde, la 1900 erau, potrivit recensământului maghiar 370 români, iar numărul greco-catolicilor era de 388, la care se adaugă şi cei 19 ortodocşi. De aici putem lesne să deducem că o parte din cei declaraţi maghiari, populaţie majoritară în localitate, erau greco-catolici sau chiar ortodocşi.

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mai mult prin maghiarizarea unor români, care nu renunţă însă la religie. Mulţi dintre români, maghiarizaţi fiind, au trecut apoi la romano-catolicism sau protestantism.

O altă problemă, ce intervine în stabilirea identităţii etnice după religie, este în această zonă, dar nu numai, cea a evreilor. La 1880, de exemplu în plasa Beiuş şi Vaşcău sunt 621 izraeliţi58, iar la 1900, în toată Ţara Beiuşului, sunt 1.709 izraeliţi59. Toţi aceştia sunt în fond evrei. În recensămintele efectuate de statul austro-ungar însă, în regiune nu apare niciun evreu (asta datorită procedeelor de recenzare). Majoritatea dintre ei se declară ca fiind de limbă maghiară, dar şi română, depinde de situaţie.

Folosirea ambelor criterii, asociate cu antroponimele, este necesară după cum am văzut. De altfel, se pare că în procesul de pierdere a identităţii etnice, la început se pierde limba, apoi religia şi, în fine, antroponimul.

b) Registrele parohiale: surse de reconstituire a ciclului

vieţii de familie În a doua jumătate a secolului al XIX-lea în Transilvania

domina o societate rurală tradiţională, excepţie făcând puţinele centre urbane şi zonele imediat învecinate ale acestora. Satul era o lume a constrângerilor şi eşaloanelor la care trebuiau să se conformeze toţi indivizii apartenenţi grupului. Devianţele sociale, de orice natură, erau privite cu scepticism, iar perceptele morale şi religioase reprezentau norme sociale şi societale definitorii ale acelor vremuri. Comunitatea controla strict familia, prin diversele „ritualuri” ale imixtiunii în problemele interne ale acesteia. Orice dereglare a relaţiilor din familie putea

58 Traian Rotariu (coord.), Recensământul din 1880. Transilvania, Studia Censualica Transsilvanica, Editura Staff, Cluj-Napoca, 1997, p. 50-82. 59 Alexandru Ilieş, Etnie, confesiune şi comportament electoral în Crişana şi Maramureş, Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1998, p. 327.

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însemna, în condiţiile coexistenţei în interiorul unei mici comunităţi a ambelor grupuri de rudenie a celor doi parteneri, o perturbare majoră a mecanismelor comunitare. Tocmai aceste „derapaje” trebuiau evitate. În acest sens, se declanşa o întreagă suită atitudinală şi comportamentală colectivă menită să prevină apariţia unor asemenea situaţii. Comunitatea regla, astfel, prin diversele constrângeri şi determinisme, întregul mecanism ce asigura respectarea ordinii şi normelor sociale. Evenimente majore din viaţa familiei, precum botezul, căsătoria (inclusiv raporturile prenupţiale ale celor doi parteneri) şi înmormântarea, erau strict supravegheate de comunitate. Relaţia familie-comunitate este una profundă, iar aceasta nu poate fi înţeleasă printr-o analiză fragmentară şi secvenţială. Din perspectiva familiei, comunitatea este cadrul general ce oferă „modelul”. Pe de cealaltă parte, comunitatea îşi găseşte trăirea emoţiilor şi sensibilităţilor tocmai în momentele cruciale ale vieţii de familie.

Punctul de plecare al familiei este căsătoria. Este momentul în care se creează grupul social cel mai important al unei societăţi. Comunitatea celebrează prin căsătorie biruinţa asupra timpului, iar cu această ocazie sensibilitatea umană se apropie de «perfecţiunea dorită»60. Prin diverse mecanisme reglatorii, comunitatea intervine cel mai profund în viaţa indivizilor cu ocazia căsătoriei, a nunţii. Plecând de la această realitate, în cercetarea de faţă, căsătoria a devenit punctul de referinţă la care am raportat întreaga dezbatere iniţiată pe seama relaţiei comunitate-familie. Cei doi sunt învăţaţi şi pregătiţi să accepte ierarhiile ce asigurau ordinea comunitară. Cu ocazia fiecărei căsătorii sunt repetate, nu numai pentru cei doi, ci şi pentru restul comunităţii, elementele definitorii ale relaţiilor inter-personale cerute de comunitate. Familia era locul unde trebuiau implementate toate normele de conduită la care se raporta întregul grup comunitar.

60 Chaunu, Civilizaţia, cit., p. 222.

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În perioada analizată, familiile celor doi tineri nu mai controlau în totalitate actul căsătoriei. Dacă în perioadele anterioare căsătoria era decisă exclusiv de către familiile tinerilor, caz în care sentimentele de afecţiune sinceră treceau în plan secund, acum tinerii au posibilitatea alegerii partenerului. În ciuda acestei radicale transformări de mentalitate, comunitatea are încă pârghiile necesare unui control asupra actului de constituire al unei noi familii. Acest control este mai vizibil la sat, unde caracteristicile unei existenţe tradiţionale sunt mai puternice, şi mai diluate la oraş, unde şi relaţionarea dintre familie (de regulă nucleară) şi comunitate era clădită pe alte norme.

Asupra familiei din această regiune nu au acţionat doar factori sociali. Familia a stat sub efectul realităţilor demografice, al transformărilor politico-legislative survenite pe parcursul perioadei analizate. Familia a fost afectată direct, prin diversele măsuri legislative ce stabileau cadrul formal al existenţei acesteia, şi indirect, prin conturarea unor serii întregi de condiţionări, care s-au dovedit adesea foarte puternice. Legislaţia laică şi ecleziastică cu privire la familie a impus, în condiţiile în care Biserica era gestionara publică exclusivă a problemelor familiale în a doua jumătate a secolului al XIX-lea, un anumit cadru în care se puteau dezvolta relaţiile de familie. Administrarea familiei a întreţinut adesea starea tensionată şi rivalităţile confesionale. Bisericile romano-catolice şi greco-catolice, sub influenţa părtinitoare a statului austriac, au avut adesea câştig de cauză în competiţia cu celelalte confesiuni. În realizarea unei familii, sub efectul major al influenţei comunitare, constrângerile şi determinismele etno-confesionale s-au dovedit a fi puternice şi determinante. Realitatea politică şi evenimentele cu conotaţie politică, care s-au petrecut pe parcursul celei de-a doua jumătăţi a secolului al XIX-lea, au

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avut o influenţă directă în ceea ce priveşte modul de derulare a proceselor şi fenomenelor legate de evoluţia etno-confesională a populaţiei din spaţiul avut în vedere.

Momentele importante care au condus la formarea şi conturarea familiei sunt surprinse de înregistrările din registrele parohiale de stare civilă. Căsătoria, căreia i se asociază şi naşterea copiilor, a deţinut rolul constructiv principal al familiei. Pornind de la bogăţia informaţiilor furnizate de registrele parohiale de stare civilă putem să reconstituim ciclul vieţii familiale (naştere, căsătorie, deces), iar pe de altă parte, să dăm viaţă trăirilor ascunse în spatele cifrelor. Descoperirea dorinţelor, asociate adesea neputinţelor consemnate în viaţa de toate zilele a familiilor din acest spaţiu, a reprezentat nu doar o doleanţă, ci şi un imperativ al prezentei cercetări. Pătrunderea în intimitate se poate face printr-o analiză a mai multor reacţii şi posibilităţi comportamentale ale celor implicaţi, dar şi printr-o analiză conexă asupra transformărilor survenite la nivelul societăţii (tendinţele principale au fost acelea de diluare a perceptelor tradiţionale etno-confesionale şi comunitare, asociate unor tot mai vizibile mobilităţi socio-profesionale).

O atenţie deosebită poate fi acordată şi elementelor de eroziune, de disoluţie a familiei. Divorţul, concubinajul sau ilegitimitatea naşterilor sunt atent monitorizate de către Biserică, preoţii transilvăneni fiind obligaţi să trimită episcopiilor rapoarte anule privind numărul şi evoluţia acestor fenomene. Imaginea tradiţională a familie se schimbă mult în această perioadă sub efectul culturii citadine tot mai prezente. Modernitatea îşi spune şi ea cuvântul, nu doar prin impunerea familiei nucleare, ci şi prin apariţia unei mentalităţi mai permisive în privinţa derapajelor. Concubinajul, legitimitatea sau divorţul, prin abordarea lor, s-au dovedit importante posibilităţi de descoperire a realităţilor familiale şi cotidiene.

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c) Registrele parohiale: surse de reconstituire a transformărilor mentale, social-economice şi profesionale

Registrele parohiale de stare civilă constituie o sursă

importantă de documentare în ceea ce priveşte statutul socio-profesional al membrilor unei comunităţi religioase. Dacă în cazul copiilor botezaţi aflăm informaţii despre starea socială a părinţilor, în cazul tinerilor care se căsătoresc sau a persoanelor decedate avem posibilitatea de a reconstitui statutul socio-profesional al persoanelor respective. O analiză complexă asupra unei perioade mai lungi de timp, care să permită comparaţia între diferite tipuri de localităţi (rural, preurban sau urban), între localităţii din regiuni diferite, între regiunii cu profil socio-economic diferit, conferă unei cercetări posibilitatea documentări asupra transformărilor de natură socială, economică şi profesională.

La oraş se produc mutaţii socio-profesionale importante ce ţin de epoca pre-industrială şi de debutul epocii industriale, care favorizează mobilităţi umane nu numai în cadrul citadin, ci şi dinspre rural spre citadin. Ori aceste mobilităţi erau însoţite de dezrădăcinări, de alterităţi ale tradiţiei sau de conflict cu constrângerile patriarhalului rural.

Sub efectul modernităţii societatea influenţează familia nu doar în forma ei ci şi în rolurile şi funcţiile pe care aceasta le-a îndeplinit. Mentalităţile se schimbă odată cu forma şi natura societăţii. Familia nu mai este una extinsă, nu mai acceptă amestecul comunităţii de rudenie şi cu atât mai puţin a celei săteşti. Schimbările sunt mai evidente la oraş, dar ele, cu trecerea timpului sunt vizibile şi în mediul rural. Familia nucleară este noul model familial în care amestecul din exterior este nesemnificativ. Odată cu trecerea spre o societate modernă, se constată o restrângere a rolului social al familiei, rol preluat, în mai multe domenii, de alte instituţii (piaţa, statul, şcoala etc.). Familia nu mai domină viaţa socială.

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Cu trecerea timpului, identificăm câteva mutaţii semnificative în mentalul colectiv. Familia nu mai este o unitate de producţie economică: soţii nu mai desfăşoară munca productivă în gospodărie, această legătură economică, care să-i ţină împreună practic nu mai există. Se constată reducerea dimensiunii familiei prin restrângerea numărului de copii ai unui cuplu şi prin cvasigeneralizarea familiei nucleare. Familiile restrânse sunt mai apte pentru mutaţiile sociale ale modernizării. Micşorarea dimensiunii familiei a provocat schimbări importante în stilul de viaţă, în comportamentele familiale. Un alt efect important al modernităţii este legat de mobilitatea matrimonială, de scăderea autorităţii parentale a clanului în general şi de creşterea rolului individului în decizia asupra momentului căsătoriei şi a alegerii partenerului. Datorită transferării unor funcţii ale familiei către alte instituţii sociale, raţiunile economice şi politice ale căsătoriei încep să-şi piardă din importanţă. Deşi considerentele legate de avere joacă un rol mai puţin important, similitudinea statusurilor socio-culturale ale soţilor predomină în constituirea cuplurilor.

Faţă de statutul social tradiţional de inferioritate, femeia modernă începe să capete drepturi sociale şi politice, mergând până la legiferarea egalităţii cu bărbatul în toate sferele vieţii sociale. Munca în afara domiciliului face ca spaţiul acordat comunicării între soţi, între părinţi şi copii, să se micşoreze. Părinţii încearcă să compenseze acest fapt prin “răsfăţul” copiilor (cadouri, bani de buzunar). Obligaţi în societatea tradiţională să lucreze de la vârste fragede (în gospodăria rurală sau în ateliere), copiii încep treptat să fie percepuţi nu ca forţă de muncă, ci ca valoare în sine61. Constatăm aşadar ameliorarea statutului social al femeii (independenţă economică, drepturi social-politice), care nu mai este obligată să accepte o viaţă de

61 J.C. Chesnais, La transition démographique, Presse Universitaire de France, Paris, 1986, p. 93-141.

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cuplu nesatisfăcătoare. Efectele unei asemenea evoluţii sunt între cele mai diverse. De altfel, cu cât o societate recunoaşte mai multe drepturi femeilor, cu atât instabilitatea conjugală creşte.

Fenomenul este mai vizibil la oraş, iar spre începutul secolului al XX-lea, şi în unele localităţi rurale unde tradiţionalul lăsa loc, sub influenţa înmulţirii activităţilor neagricole, unui proces de modernizare socio-economică. Aceste transformări au condus, aşa cum uşor se poate anticipa, la noi percepţii mentale, iar de aici la o altă reacţie a comunităţii. Normele sociale se schimbă.

d) Registrele parohiale: surse pentru identificarea

modelelor şi tendinţelor demografice Analizând mişcarea naturală a populaţiei din această

perioadă, unii cercetători vorbesc despre revoluţia demografică pe care o asociază trecerii de la modelul demografic vechi, caracterizat prin valori ridicate ale mortalităţii şi natalităţii, spre modelul nou ce se exprimă prin nivele scăzute de mortalitate şi natalitate. Trecerea spre acest model, aşa cum am putut şi noi remarca din analiza făcută asupra mortalităţii şi natalităţii, s-a făcut prin reducerea la început a ratei mortalităţii, urmată apoi şi de o reducere a natalităţii. O atare formă de exprimare a condus către aşa-numita „creştere tranzitorie” 62. Odată cu transformările socio-economice, culturale şi medicale s-a impus pentru scurtă vreme, în ultimele două decenii ale secolului al XIX-lea, tot mai mult (întâi la oraş) modelul demografic de tranziţie. Caracterizată printr-o natalitate ridicată şi o mortalitate scăzută, această tranziţie a contribuit la creşterea substanţială a populaţiei.

62 Cfr. Ioan Bolovan, Transilvania între Revoluţia de la 1848 şi Unirea din 1918. Contribuţii demografice, Centrul de Studii Transilvane, Fundaţia Culturală Română, Cluj-Napoca, 2000, p. 158.

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Evoluţia naşterilor, deceselor şi a sporului natural în comitatul Bihor63

1866 1868 1870 1877 1879 1881 1885 1887 1889 1901 1905 1910Naşteri 18.686 19.01118.91617.80620.54619.23022.19423.28524.12716.11317.15818.016Decese 13.885 14.94115.00516.35614.78315.71217.52217.19117.19111.56013.04512.429

Spor natural 4.801 4.070 3.911 1.450 5.763 3.518 4.672 6.094 6.936 4.553 4.113 5.587

La nivelul comitatului Bihor, raportat la anii luaţi în

cercetarea noastră drept piloni de eşantion asupra cărora s-au efectuat corelări între numărul naşterilor şi cel al deceselor (rezultând aşadar nivelul excedentului natural), sporul natural a fost unul pozitiv. În ciuda mortalităţii ridicate, care în unele cazuri a şocat prin amploare, nivelul şi mai ridicat al natalităţii a condus către o creştere naturală situată între 1.450 persoane (anul 1877) şi 6.094 persoane, cât a reprezentat sporul natural din anul 1889.

Acest spor natural pozitiv nu a caracterizat întregul spaţiu al comitatului. Numeroase localităţi s-au confruntat în această perioadă cu profunde şi violente forme de exprimare ale unor crize de mortalitate ce au generat un spor natural negativ în ansamblul perioadei analizate. Efectul major al mortalităţii ridicate (mai puţin a nivelului ratei natalităţii, care rămâne şi el ridicat) asupra sporului natural se poate constata în cazul a numeroase localităţi, asta cu atât mai mult cu cât perioada analizată a surprins câteva crize de mortalitate a căror efecte au fost de-a dreptul devastatoare pentru populaţia acestor sate. Crizele economice profunde întâlnite în aceşti ani în

63 Anuarele Magyar Statistikai Évkönyv. Szerkeszti és kiadja. Az országos Magyar Kir. Statistikai. Hivatal I Füzet (1877 – Budapesta, 1878; 1879 – Budapesta, 1881; 1881 – Budapesta, 1883; 1885 – Budapesta, 1887; 1887 – Budapesta, 1889; 1889 – Budapesta, 1891; Iosif I. Adam, I. Puşcaş, Izvoare de demografie istorică, vol. II, Secolul al XIX-lea – 1914. Transilvania, Direcţia Generală a Arhivelor Statului, Bucureşti, p. 236-237, 652-655; Recensământul din 1880, cit., p. 50-51, 274-275; Traian Rotariu (coord.), Recensământul din 1900. Transilvania, Studia Censualica Transsilvanica, Editura Staff, Cluj-Napoca, 1999 p. 110-113, 474-477.

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întreaga monarhie, coroborate cu epidemiile (avem în vedere în special epidemia de holeră din anii 1872-1873, dar şi prelungirea acesteia) exercită o presiune demografică fantastică. Efectele epidemiei de holeră din anii 1872-1873 au fost bunăoară de-a dreptul catastrofale: în comitatul Bihor s-au îmbolnăvit 30.447 persoane, dintre care 10.980 persoane au murit (dintre acestea 1.096 persoane doar în Oradea), ceea ce reprezintă 2,28% din totalul populaţiei comitatului; în Sătmar se îmbolnăvesc 17.330 persoane din care mor 5.268, reprezentând 2,13% din totalul locuitorilor din acest comitat64. Oferim spre exemplificare, cazul a două localităţi în care efectul unor epidemii regionale a fost devastator sub raportul creşterii ratei mortalităţii.

Evoluţia naşterilor, deceselor şi a sporului natural în parohia greco-catolică Abrămuţ

-20

-10

0

10

20

30

40

Nr. naşteri 24 12 20 18 14 16 15 18 15 19 12 18 11 8 16 18 16 14 13 24 18Nr. decese 17 19 21 34 22 7 10 10 14 14 19 30 26 23 28 11 12 12 11 13 13Spor natural 7 -7 -1 -16 -8 9 5 8 1 5 -7 -12 -15 -15 -12 7 4 2 2 11 5

1860 1861 1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 1869 1870 1871 1872 1873 1874 1875 1876 1877 1878 1879 1880

Sursă: Arhivele Naţionale, Direcţia Judeţeană Bihor (în continuare A.N-D.J.

BH), Colecţia Registrelor de Stare Civilă, dos. 7, f. 6-22, 37-55

În parohia greco-catolică din Abrămuţ, pe parcursul perioadei 1860-1880, sporul natural a fost negativ (mor cu 27 de persoane mai mult decât numărul celor care s-au născut). Sporul negativ nu a caracterizat întreaga perioadă, ci a fost efectul crizelor de mortalitate surprinse de noi cu ocazia cercetării mortalităţii din această parohie. Identificăm astfel

64 Izvoare de demografie istorică, cit., p. 243-244.

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două perioade cu nivele negative ale sporului natural: 1. perioada 1861-1864, când nivelul scăzut al excedentului natural s-a datorat, atât scăderii natalităţii, cât şi creşterii mortalităţii; 2. perioada 1870-1874, ce se caracterizează prin majore crize de mortalitate generate de numeroasele epidemii ale căror efecte au atins apogeul în perioada epidemiei de holeră din anii 1872-1873.

Evoluţia naşterilor, deceselor şi a sporului natural în

parohia greco-catolică Beiuş

-50-40-30-20-100102030405060

Nr. naşteri 27 29 19 20 17 32 33 26 21 17 27 32 13 21 15 15 24 24 24 23 21Nr. decese 24 23 26 23 26 21 22 32 30 27 29 34 43 54 52 21 23 21 18 26 22Spor natural 3 6 -7 -3 -9 11 11 -6 -9 -10 -2 -2 -30 -33 -37 -6 1 3 6 -3 -1

1860 1861 1862 1863 1864 1865 1866 1867 1868 1869 1870 1871 1872 1873 1874 1875 1876 1877 1878 1879 1880

Sursă: A.N-D.J. BH, Colecţia Registrelor de Stare Civilă, dos. 91, f. 24-45;

dos. 94, f. 25-49

În comunitatea greco-catolică din Beiuş, pe parcursul perioadei 1860-1880 au murit cu 117 persoane mai mult decât numărul persoanelor care s-au născut. În ciuda progreselor sociale şi economice (pe care cel mai adesea am fi tentaţi să le asociem unei existenţe mai bune, care ulterior să se traducă într-o mortalitate mai redusă), în parohia greco-catolică din Beiuş mereu au murit în această perioadă mai multe persoane decât s-au născut.

Apoi, la oraş modelul demografic care se impune diferă substanţial de cel consemnat în mediul rural: aici scăderea natalităţii mult mai vizibilă. În ciuda unor progrese evidente în ceea ce priveşte scăderea ratei mortalităţii, sporul natural este unul redus, chiar negativ.

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Evoluţia numărului naşterilor şi al deceselor evidenţiază, în cazul localităţii Oradea de exemplu, mai degrabă un spor natural negativ pentru perioada celei de-a doua jumătăţi a secolului al XIX-lea. Valoarea negativă a sporului natural din Oradea, oarecum surprinzătoare, s-a datorat unui interesant proces de transformări demografice.

Evoluţia naşterilor, deceselor şi a sporului natural în oraşul

Oradea 1877 1879 1881 1885 1887 1889 1901 1905 1910 Naşteri 1.172 1.183 1.302 1.326 1.330 1.442 1.540 1.597 1.763 Decese 1.271 1.363 1.390 1.433 1.362 1.316 1.305 1.644 1.732 Spor natural -99 -180 -88 -107 -32 126 235 -47 31 Surse: Anuarele Magyar Statistikai Évkönyv..., 1877, 1879, 1881, 1885,

1887, 1889; Izvoare de demografie istorică..., p. 236-237, 652-655; Recensământul din 1880..., p. 50-51, 274-275; Recensământul din 1900...,

p. 110-113, 474-477. Oraşul, prin mediul cultural, socio-profesional şi

mental, a fost mediul ce a condus la crearea unei tipologii familiale noi. Familia urbană începe a fi una modernă. Numărul copiilor care se nasc în oraş sunt tot mai puţini (dovada o constituie şi faptul că natalitatea în Oradea era mai scăzută cu până la 10‰ decât valoarea înregistrată în ansamblul comitatului Bihor). Transformările pozitive, ce aveau ca şi efect diminuarea ratei mortalităţii, nu au ţinut însă pasul cu această reducere a natalităţii: la oraş natalitatea scade mult mai vizibil şi mai timpuriu decât mortalitatea. Din acest punct de vedere, familia orădeană era una în care se năşteau tot mai puţini copii. Această emancipare a familiei, survenită în primul rând datorită emancipării femeii, nu a fost însă însoţită şi de o reducere pe măsură a ratei mortalităţii. Prima impresie este, în acest context, că familia se emancipează mai devreme decât permiteau realităţile din societate. Mai mult, progresele sociale, economice şi medicale nu fac faţă noilor provocări care să conducă la “însănătoşirea” societăţii în ansamblul ei. Abia

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spre sfârşitul secolului al XIX-lea acest fenomen a cunoscut o turnură aşteptată. În anii 1901-1910 sporul natural din Oradea a fost în ansamblul perioadei pozitiv, înregistrându-se un excedent natural de 1.405 persoane65. Această transformare a fost posibilă tocmai datorită diminuării cu aproape 15‰ a ratei mortalităţii din oraş, în perioada 1880-1910.

Această perioadă denumită sub raport demografic drept “tranzitorie” consemnează comportamente diferite ale populaţiei: în acelaşi timp coexistă expresii ale tradiţionalului cu cele ale modernizării şi emancipării acestor comunităţi. Oferim spre exemplificare cazul unei localităţi rurale supuse de noi acestei analize. Am ales ca şi indicator pentru emanciparea personală şi familială numărul de copii al familiilor.

Sursă: A.N-D.J. BH, Colecţia Registrelor de Stare Civilă, dos. 461, f. 32-50,

64-75; dos. 462, f. 4-101; dos. 463, f. 1-21.

După cum se poate observa, în conformitate cu numărul copiilor/familie există categorii numeroase de familii ce au: 1-4 copii (reprezentând 51,2% din totalul familiilor şi 23,07% din totalul copiilor), respectiv 7-9 copii (reprezentând în total 28,05% din totalul familiilor, iar din numărul copiilor nu mai puţin de 44,23%). Între cele două categorii de familii („lumi” parcă!), familiile cu 4 şi 5 copii sunt mai reduse

65 Izvoare de demografie istorică, cit., p. 656.

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numeric (câte 5 cazuri de fiecare). În ciuda celor două tendinţe amintite, evidente prin numărul mare al familiilor care au 1-2 copii şi a celor care au 7-9 copii, majoritatea copiilor se nasc în această parohie tot în familii numeroase. Deşi numărul familiilor cu 1-2 copii sunt tot mai multe spre sfârşitul perioadei analizate, ponderea acestor copii rămâne redusă, asta deoarece majoritatea copiilor rămân concentraţi în familiile cu mai mulţi copii, cu toate că aceste familii sunt tot mai puţine ca număr.

Faptul că se nasc mulţi copii în familiile din Transilvania nu însemnă că aceste familii aveau în realitate mulţi copii. O mare parte dintre aceştia mureau la o vârstă fragedă. Copiii sunt cei mai expuşi vicisitudinilor sociale sau economice, dar şi celor meteorologice. Pe toată durata celei de-a doua jumătăţi a secolului al XIX-lea şi începutul secolului al XX-lea rata mortalităţii infantile s-a menţinut la valori foarte ridicate. Mai mult, aşa cum s-a constatat şi pentru spaţiul vechiului Principat al Transilvaniei66, în unele regiuni rata mortalităţii infantile a fost chiar în creştere pe parcursul acestei perioade. Cauzele unei mortalităţi infantile atât de ridicate erau foarte numeroase şi complexe. Ele îşi aveau originile în condiţiile precare de viaţă, în alimentaţia insuficientă şi inadecvată, în lipsa igienei şi a personalului medical calificat, apoi în condiţiile de locuire inadecvate nou-născuţilor, în lipsa de îngrijire specială necesară copiilor de aceste vârste, nu în cele din urmă în încercarea de tratare a bolilor copiilor după „tratamente” aplicate de medicina tradiţională adulţilor etc. Mulţi copii, aşa cum se poate constata şi din analiza registrelor de stare civilă, mor în timpul naşterii sau imediat după aceasta. Nu în ultimul rând, mortalitatea infantilă ridicată îşi are

66 Valoarea ratei mortalităţii infantile din spaţiul transilvănean (fără a fi incluse aici regiunile Banatului, Crişanei şi Maramureşului) a fost în anul 1865 de 178,3‰, pentru ca în primul deceniu al secolului al XX-lea să ajungă la 193‰. Bolovan, Transilvania, cit., p. 156.

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originea şi într-o mentalitate colectivă păguboasă a populaţiei, în atitudinea faţă de medic şi sistemul sanitar.

4. Concluzii Registrele parohiale de stare civilă se dovedesc a fi

surse de documentare importante atât pentru istorici, cât şi pentru demografi, sociologi, antropologi, etnografi, lingvişti etc. Aceste înscrisuri bisericeşti şi-au dovedit însemnătatea mai ales acolo unde alte surse documentare (în special cele din categoria înregistrărilor făcute de către stat) s-au dovedit insuficiente, lacunare şi neclare. Registrele parohiale de stare civilă se pretează în acest caz pentru o analiză calitativă, dar şi cantitativă la nivel comunităţilor locale. Dincolo de utilitatea şi semnificaţia lor documentară, aceste înscrisuri trebuie privite sub rezerva subiectivismului introdus de faptul că ele erau gestionate de către preoţi (fiecare preot este astfel exponentul promovării unor „realităţi” demografice şi confesionale privite din perspectiva propriei sale convingeri religioase). Registrele parohiale se dovedesc însă a fi singurele documente ce ne permit să pătrundem în intimitatea indivizilor fiecărei comunităţi. O asemenea zestre documentară este incontestabil un bun pe care cercetătorii ar trebui să-l promoveze şi să-l utilizeze în cercetărilor lor nu doar la nivel local, ci şi pentru a verifica şi demonstra anumite comportamente şi tendinţe la nivel general.

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III.

CONCETTI

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ROBERTO SCAGNO

Le nozioni di românism e suflet românesc nella cultura romena

tra le due guerre mondiali e le loro derivazioni postbelliche Nella storia della Romania moderna, il problema dell’identità nazionale, il problema del românism, è presente in maniera costante anche se non sempre esplicitamente tematizzato. Nei decenni successivi alla costituzione della Grande Romania, e in particolare nel corso degli anni Trenta, il dibattito su tale tema assume tonalità sempre più aspre, contrapponendo uomini di cultura, filosofi, sociologi, teologi e letterati - basti pensare alla polemica suscitata dal saggio di Constantin Rădulescu-Motru (1868-1957), Românismul. Catehismul unei noi spiritualităţii (1936) – e si viene a intrecciare in modo indissolubile con la storia politica del Paese in un periodo particolarmente drammatico. Tale intreccio ha significato la dissoluzione del problema in quello della componente ultranazionalista sia del «fascismo» guardista, sia delle dittature reale di Carol II e militare del maresciallo Antonescu. Di conseguenza, gli studi storici successivi al 1989 dedicati al periodo interbellico hanno preso in considerazione il «românism» come nucleo centrale di una dottrina politica, o meglio di alcune dottrine politiche, varianti romene del «radicalismo di destra» europeo. Ne hanno quindi colto la valenza strumentale legata a un particolare contesto storico-politico, trascurandone la persistenza ossessiva al di là delle contingenze storiche. Dopo il 1948, la nozione di românism con le sue due componenti (il problema dell’identità nazionale e il nucleo dottrinario ultranazionalista) vengono celate per motivi ideologici durante il periodo stalinista, e compaiono manipolate

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e mistificate negli anni del nazional- comunismo di Ceauşescu. Dicţionarul limbii romîne moderne del 1958 riporta soltanto le due accezioni «sentiment naţional al românilor» e « (rar) cuvînt sau expresie specifică limbii române». Le stesse definizioni sono presenti nella prima edizione (e nelle successive) del DEX (Dicţionarul explicativ al limbii române del 1975. Nello stesso anno, Dicţionarul Limbii Române (DLR) edito dall’Accademia della Repubblica Socialista Romania presenta la voce românism (con la variante rumânism) sotto l’accezione principale sentimentul naţional al românilor; spirit românesc. Tutta la storia ultracentenaria della nozione è esemplificata soltanto con le citazioni di alcuni autori ottocenteschi, a partire da George Bariţiu (1839): «Vorbele …lui Lazăr asupra rumânismului aflară în răposatul Bălăceanu un protector înrîvnat»; «Tradiţia orală a neamului nostru, cuprinsă în cînticele vechi, …ne dă tot românismul cărţilor bisericeşti şi a hronicarilor» (Alecu Russo); «Cîţiva boieri, ruginiţi în românism…jăleau pierderea limbii, uitîndu-se cu dor spre Buda sau Braşov, de unde le veneau pe tot anul calendare cu poveşti» (Negruzzi); «Deşteptarea românismului din letargia în care îl afundase grecismul fanariot» (Ghica). Viene anche presentata un’accezione linguistica: «(rar) Termen, expresie sau construcţie specifică limbii române împrumutată de altă limbă (dar neadaptată la sistemul acesteia) „Românismele intrate în limba saşilor sunt mai numeroase în regiunile în care ei sunt tare amestecaţi cu românii” Puşcariu»1. L’interferenza tra queste due accezioni avrebbe potuto essere evitata se nella lingua romena si fosse affermato il termine românitate (învechit, rar, dice il DLR), che ha invece assunto il senso prevalente di totalitatea românilor, poporul român, «Opera noastră va fi …o prismă generală a românităţii […] Aici a fost totdeauna măduva românităţii (Hasdeu)»2.

1 Dicţionarul Limbii Române (DLR), serie nouă, tomul IX, litera R, Bucureşti, Editura Academiei Republicii Socialiste România, 1975, p. 537. 2 Ibidem.

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Da notare ancora che il termine românism non compare nel Dicţionar politic (1975)3 e neppure nel Dicţionar de filozofie (1978)4. Il problema dell’identità nazionale e i contrastati dibattiti interbellici dovevano essere nascosti, e questo per un preciso motivo. Il nazional-comunismo romeno degli anni Settanta si basava su due pilastri ideologici: da un lato sul «protocronismo» e dall’altro sull’esaltazione di una presunta specificità antropologica romena (gli «oameni de omenie» secondo un grottesco sintagma intraducibile in altre lingue), che ricostruiva in maniera secolarizzata la tradizione orale popolare (il folclore) e la storia culturale secondo le rigide norme dell’ateismo scientifico (di fatto, un antiteismo militante e dogmatico). La formazione dell’«uomo nuovo» implicava la manipolazione censoria del passato «borghese». Dopo il 1989, il problema è riemerso alla luce del sole, sono stati pubblicati testi e antologie degli autori che avevano animato il dibattito interbellico (tra gli altri Constantin Rădulescu-Motru, Nichifor Crainic, Nae Ionescu, Dumitru Stăniloae, Mihai Ralea, Constantin Noica, Emil Cioran, Mircea Eliade, Mircea Vulcănescu), ma la rilettura di questi testi è stata sovente coinvolta nelle polemiche attuali tra nazionalisti e occidentalisti, nella fase di transizione all’Unione europea, e continua ancor oggi. Si impone pertanto una visione oggettiva, attenta alla contestualizzazione storica con la prospettiva di un superamento di una empasse sempre più sterile. La «primavera dei popoli» del 1848 collocava al centro dell’attenzione la rinascita delle singole identità nazionali europee sulla base degli Statuti costituzionali liberali che implicavano i diritti delle minoranze etniche e religiose, e ponevano le basi di dialogo e di confronto filosofico e interconfessionale prima che politico. Tali basi teoriche non

3 Dicţionar politic, Bucureşti, Editura politică, 1975. 4 Dicţionar de filozofie, Bucureşti, Editura politică, 1978.

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sono crollate nei decenni successivi, nonostante la crisi degli Stati liberali, il massacro europeo della Prima Guerra Mondiale sino all’affermazione degli Stati totalitari fascisti. In buona parte dell’Europa centro-orientale nello stesso periodo è invece andata crescendo l’attenzione verso i problemi identitari, nella ricerca, a volte ossessiva, della «specificità nazionale» (nel senso dello «specifico etnico»), e tutto ciò ha comportato il rifiuto acritico dei valori liberali e lo sviluppo irrefrenabile dell’etnonazionalismo. Il caso romeno è da questo punto di vista assai interessante. Mi limiterò qui a tracciare alcune linee generali e a presentare alcuni esempi significativi. Nel 1927, Nichifor Crainic (1889-1972) pubblica sulla rivista «Gândirea» il saggio Sensul tradiţiei che verrà a costituire il manifesto dell’ortodossismo gândirista. Tradizione autoctona folclorica, suflet românesc, credenza religiosa ortodossa e rinascita bizantina sono componenti dello specifico nazionale.

Dacă menirea poporului românesc este aceea de a crea o cultură după chipul şi asemănarea lui, afirmaţia aceasta implica şi soluţia unei orientări. Cine preconizează orientarea spre Occident rosteşte un non-sens. Orientarea cuprinde în sine cuvântul Orient şi înseamnă îndreptarea spre Orient, după Orient. […] Şi cum noi ne aflăm geografic în Orient şi cum, prin religia ortodoxă, deţinem adevărul luminii răsăritene, orientarea noastră nu poate fi decât spre Orient, adică spre noi înşine, spre ceea ce suntem prin moştenirea de care ne-am învrednicit. […] Occidentalizarea înseamnă negarea orientalismului nostru, nihilismul europenizant înseamnă negarea posibilităţilor noastre creatoare. Ceea ce înseamnă negarea principală a unei culturi româneşti; negaţia unui destin propriu românesc şi acceptarea unui destin de popor născut mort5.

Questo saggio era stato preceduto da una serie di articoli dello stesso Crainic a partire dal 1926, l’anno della svolta ortodossista della rivista, che avevano destato una lunga

5 N. Crainic, Sensul tradiţiei, in Puncte cardinale în haos, Bucureşti, Editura Albatros, 1998 (ed. or. 1936), p. 64.

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polemica implicando in primo luogo il gruppo della rivista «Viaţa românească», e in primis Mihai Ralea (1896-1964). Nel saggio Fenomenul românesc (1927), Ralea contrappone alla visione ortodossista dello specifico nazionale una visione laica e razionale:

Dacă observăm bine, cu toată atenţia, moravurile, instituţiile, felul de a reacţiona al poporului nostru, vom ajunge uşor la concluzia că psihologia sa intră în acest fel de comportare echidistant între voluntarismul activist al Apusului şi pasivitatea fatalistă a Orientului. Aşezaţi geograficeşte şi sufleteşte între influenţe care ne vin dintr-o parte şi din alta, sufletul nostru şi-a alcătuit un echilibru din caractere luate şi dintr-o parte şi din alta. Aceste influenţe duble n-au rămas însă între ele în conflict, în dualism. În sufletul nostru s-au topit formând o sinteză nouă, un echilibru. Echilibrul nostru sufletesc se cheamă adaptabilitate. Prin el ne deosebim de toată lumea Orientului dar şi de aceea a Apusului6.

Ralea individua poi altre componenti della psicologia etnica romena: saggezza, scetticismo, bontà, mancanza di ingenuità, senso del relativo, debole sentimento religioso. Adattabilità nel contesto della modernizzazione significa apertura all’Occidente. Si sviluppa così una polemica che viene ad approfondire la frattura fra autoctonisti e occidentalisti. Rammentiamo che il 1924-25 vede l’uscita dell’importante studio di Eugen Lovinescu (1881-1943), Istoria civilizaţiei române moderne, che costituirà il punto classico di riferimento occidentalista nei decenni seguenti. La posizione teorica di Ralea implicava comparazioni generalizzanti e stereotipi sulla base di una psicologia dei popoli di matrice positivista7.

6 M. Ralea, Fenomenul românesc, in Fenomenul românesc, Bucureşti, Editura Albatros, 1997, p. 76. 7 Ralea si collocava sulla linea sociologica durkheimiana, iniziata in Romania da Dumitru Drăghicescu (1875-1945) con il suo studio Din psihologia poporului român (1907), ma era al contempo influenzato dalla Völkerpsychologie di matrice wundtiana.

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Appare evidente dalla lettura in parallelo delle due posizioni l’impossibilità di mediazioni, di un terreno comune di dialogo e di confronto. L’impianto teorico di Ralea era aperto all’Occidente ma utilizzava categorie psicologiche datate e improduttive nel tentativo di presentare uno specifico etnico razionalmente fondato. Nella posizione di Crainic è evidente l’influsso spengleriano nella distinzione tra Kultur e Zivilisation, nelle tesi dell’organicismo sociale e nei concetti di missione e destino specifici di ogni comunità nazionale8. Quella che è mancata in quegli anni e nel successivo decennio è una voce autenticamente liberale che, riprendendo le fila del dibattito risorgimentale (renaşterea paşoptistă), fungesse da mediazione riportando il tema dell’identità nazionale sul terreno della tradizione storica romena ma nel contempo anche su quello dei diritti individuali del cittadino e delle minoranze nazionali linguistiche e confessionali, al di là della chimerica ricerca di uno «specifico etnico» razionalmente o misticamente inteso. A mio parere, la debolezza della riflessione teorica democratica e progressista ha aperto la strada al consolidarsi delle teorizzazioni etnonazionaliste fino alle drammatiche derive verso la destra radicale e totalitaria di una parte consistente dell’élite intellettuale romena interbellica. L’analisi critica dell’ampio e variegato spettro concettuale dei diversi rappresentanti dell’etnonazionalismo romeno è riservata a uno studio in gestazione, mi limiterò qui a

8 Convinzione profonda di Crainic, sviluppata nei suoi scritti degli anni Trenta, è che la tradizione spirituale del cristianesimo ortodosso sia intrinseca alla cultura popolare romena; il folclore conserverebbe pertanto le basi profonde dell’essenza del neam, le radici nel tempo e nello spazio carpato-danubiano, quegli elementi fondamentali da sviluppare nella direzione di un destino storico specificamente romeno. Romanticismo herderiano e teologia ortodossa per la costruzione di un românism politico nel Programma dello Stato etnocratico del 1937. Cfr., N. Crainic, Ortodoxie şi Etnocraţie, Bucureşti, Editura Albatros, 1997 (ed. or. 1938), pp. 239-271.

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presentare il nucleo teorico comune o almeno largamente condiviso, che si può così riassumere: il problema dell’identità nazionale (il românism) consiste nella determinazione di uno «specifico nazionale» che rimanda a uno «specifico etnico»; l’etnos ha caratteristiche di unità e unicità (neam vs popor) e si fonda su una tradizione (preistorica, storica, folclorica, religiosa, mitica); tale tradizione ha come sua sostanza l’«anima romena» (sufletul românesc), essenza inesprimibile concettualmente e incomunicabile, più vicina alla nozione di Seele che a quella di Geist (secondo la teorizzazione di Ludwig Klages). Nella trappola etnonazionalista sono caduti molti dei più validi rappresentanti della «giovane generazione» (la cosiddetta «generazione del ’27»), la generazione di Mircea Eliade (1907-1986), che hanno fatto il passo dal dibattito teorico sul românism alla militanza politica ultranazionalista. Emblematico è il caso di Eliade che, nel biennio 1937-1938, si impegna politicamente scrivendo una quindicina di articoli nazionalisti e prolegionari. Una attenta analisi dei testi rileva un equivoco politico di fondo: Eliade presenta l’immagine idealizzata di una élite militante e il modello ideale di una rivoluzione cristiana gandhiana in cui sono assenti le componenti violente, ereticali e antiebraiche. Negli stessi anni, tuttavia, il suo românism ha assunto anche le caratteristiche di un personale Kulturkampf vitale e produttivo che aveva come obiettivo la sprovincializzazione della cultura romena al di là delle chiusure autoctoniste e del mimetismo occidentalista, attraverso la valorizzazione del patrimonio arcaico romeno e più in generale della spiritualità romena con i metodi e gli strumenti scientifici occidentali e la collaborazione di studiosi stranieri9. La parabola finale negativa del românism politico interbellico ha avuto un testimone critico, lucido e feroce, in Eugen Ionescu (non ancora Eugène Ionesco) che, nel febbraio

9 Cfr. R. Scagno, Prefazione a M. Eliade, Diario portoghese, Milano, Jaca Book, 2009, pp. VII-XXXVI.

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del 1944, scriveva da Parigi a Tudor Vianu: «”Cultura naţională”, “tradiţionalismul”, “necazul contra francezilor şi democraţiilor apusene”, “superioritatea spiritualităţii ortodoxe contra celei papistaşe” şi toate multiplele semănătorisme, thracismele, gardismele etc. sunt, cum bine ştim, de fapt, semnele unei adânci maladii intelectuale - refuzul culturii»10. Se teniamo conto, ora, del contesto storico e passiamo sopra alla violenza della polemica interna alla «giovane generazione», non possiamo non affermare che ogni dibattito sull’identità nazionale debba sempre includere il dialogo con i valori liberali della civiltà.

10 Scrisori către Tudor Vianu II (1936-1949), Bucureşti, Editura Minerva, 1994, p. 234.

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ANTONIO V. FAUR

Consideraţii în legătură cu termenii de bandiţi, duşmani şi

terorişti utilizaţi de autorităţile comuniste împotriva adversarilor politici (1947-1950)

Una dintre direcţiile relativ noi ale cercetării istorice interdisciplinare este şi aceea care se ocupă de studiul limbii, al sensului cuvintelor. Analiza semantică a limbajului şi cuvintelor utilizate de oficialităţile unui regim politic de orice tip, dar mai ales de cele totalitare, în lupta dusă împotriva opozanţilor politici, poate duce la concluzii care pot servi la explicarea schimbărilor produse în societate, la nivelul mentalităţii deţinătorilor puterii, şi poate ajuta la descifrarea mecanismului de impunere a puterii, şi al controlului exercitat de aceasta asupra societăţii.

Un astfel de demers dincoace de «cortina fier», în ţările satelite Moscovei, a fost- multă vreme - imposibil. În România, numai după căderea regimului comunist au apărut primele lucrări de acest fel. În schimb, în lumea liberă, după al doilea război mondial, regimurile politice, discursul şi limbajul politic, au fost examinate de cercetători. Astfel, din anii ’50 au început să apară volume consacrate acestei problematici istorice1.

1 Enumerăm câteva dintre acestea: Arne Naess şi colab., Democracy, ideology and objectivity: studies in the semantics and cognitive analysis of ideological controversy, Oslo University Press, 1956; Harold D. Lasswell şi Nathan Leithes, Language of politics: studies in cantitative semantics, Cambridge, Massachusetts Institute of Technology, 1968 şi Jens A. Cristopherson, The Meaning of «Democracy» as Used in European Ideologies from French to the Russian Revolution: an historical study in political language, Oslo, Universitetforlaget, 1968.

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În anii ’70 era deja conturată direcţia de analiză a discursului politic, cu lucrări precum cele a lui Régine Robin (Histoire et linguistique, 1973) sau Maurice Tournier, care, în articolul Des mots en histoire, îşi declara preocuparea pentru o lingvistică a istoricilor, urmată de Des mots en politique. Propos d’étimologie sociale, (1997). În limba română a fost tradusă cartea cercetătoarei franceze Françoise Thom, La Langue de bois, lucrare considerată clasică. De asemenea, au fost editate şi cărţi care conţin capitole destinate limbajului2.

După începutul ocupaţiei sovietice, societatea din spaţiul central-est-european a trecut printr-un proces de transformări radicale, conforme cu modelul sovietic. În acest context, limbajul politic a devenit, în mod inevitabil, un instrument esenţial în impunerea noii puteri. Parafrazând, am putea spune: la început trebuia să fie cuvântul care legitimează şi justifică acţiunea.

Deoarece cuvintele nu puteau fi - pur şi simplu - inventate, regimurile comuniste, în cele mai multe cazuri, au păstrat formele lor vechi, însă le-au conferit alte sensuri, fiind chemate a servi «făuritorilor» noii societăţi, «mai bună şi mai dreaptă», pretindeau ei, decât cea veche, capitalistă). Acest lucru a fost evident de la bun început, aşa cum reiese din chiar denumirea noilor state («democraţii populare»), adoptată de ţările est-europene. Adică, se afirmă că noile regimuri erau cu adevărat democratice, fiind populare, nu liberale, o tautologie prin care Moscova încerca să impună conţinutul nou al «democraţiei» exportată de ea.

Cuvântul şi limbajul oficial au devenit, prin urmare, mijloace de înfierare a adversarilor, de demonizare a lor, cureaua de transmisie a noului mesaj al puterii politice către societate.

2 Vladimir Volkoff, Tratat de dezinformare. De la calul troian la Internet, Bucureşti, Editura Antet, f.a., care abordează tehnicile de dezinformare şi manipulare a opiniei publice. La acestea se adaugă lucrarea lui Bogdan Ficeac, Tehnici de manipulare, Bucureşti, Editura Nemira, 2001.

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Având în vedere asemenea schimbări semantice, ne-am propus să ne referim – cu această ocazie - la câteva din cuvintele care au apărut, în mod frecvent, în dosarele instituţiei securităţii. Cauzele fenomenului sunt multiple: mai întâi, desfiinţarea partidelor politice tradiţionale în anii 1947-1948, apoi măsurile luate împotriva adversarilor politici (naţional-ţărănişti, liberali, legionari, ofiţeri daţi afară din armată) şi acţiunile represive (ca declanşarea arestărilor şi condamnărilor abuzive), care au intensificat exodul în munţi şi păduri. Sub acest raport, sunt de menţionat: legislaţia care pregătea terenul pentru construcţia socialismului, care a contribuit la extinderea mişcării de rezistenţă anticomunistă: Legea privind naţionalizarea mijloacelor de producţie (11 iunie 1948) şi rezoluţia Plenarei Comitetului Central al P.C.R. din 3-5 martie 19493, cu privire la socializarea agriculturii.

Din seria de cuvinte aparţinând acestei realităţi, ne vom opri asupra celor de «bandit», «terorist» şi «duşman al regimului democratic», care au fost cel mai des utilizate. Lor li se pot adăuga şi altele ca: reacţionari, fugari sau chiaburi.

Dimensiunea rezistenţei armate este demonstrată de numărul de grupări pentru perioada 1945-1959, care se ridică la cifra de 11964. Împotriva acestor rezistenţi s-a declanşat, de către trupele de securitate şi miliţie, o campanie de urmărire şi prindere, cei mai mulţi fiind organizaţi în celebrele bande «teroriste», ascunse în pădurile şi munţii României.

Revenind la substantivul bandit, precizăm că în dreptul comun acesta desemnează o persoană care comite infracţiuni de toate felurile, de la furt până la crimă. Aşadar, banditul era un răufăcător, în categoria aceasta intrând hoţii,

3 ***, Bande, bandiţi şi eroi. Grupurile de rezistenţă şi Securitatea (1948-1968), Editura Enciclopedică, Bucureşti, 2003, p. 9. 4 Ibidem, p. 9.

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tâlharii, briganzii, nelegiuiţii, criminalii sau asasinii. Prin urmare, sensul consacrat al cuvântului bandit a fost modificat, autorităţile comuniste, transformându-l într-un instrument politic, după modelul sovietic5.

Autorii acestei transformări se bazau şi pe o altă realitate avantajoasă pentru ei, anume pe faptul că în epoca postbelică mai acţionau încă atât «grupurile de bandiţi la drumul mare», cât şi organizaţiile de rezistenţă anticomuniste6, de unde se putea naşte uşor confuzia, prin confundarea primei categorii cu a doua «mizându-se pe teama şi repulsia firească a populaţiei faţă de acest gen de infractori de drept comun»7.

După unii cercetători, suprapunerea acestor termeni a făcut ca, şi după căderea regimului comunist, o parte dintre foştii ofiţeri de securitate să creadă «…şi azi că luptătorii anticomunişti nu au fost altceva decât…lotri»8. Simplu spus, se punea semnul de egalitate între adversarul politic şi răufăcătorul condamnat de dreptul comun.

În realitate, în documentele oficialităţilor termenii de bandit, terorist sau duşman îi desemnau pe adversarii regimului politic comunist, chiar şi pe cei aflaţi în detenţie, «…indiferent de forma în care aceştia îşi manifestaseră opoziţia»9. Referindu-se la ceea ce înţelegeau autorităţile sovietice - al căror model îl copiau şi restul ţărilor satelite - prin bandit, Jacques Rossi arăta că era etichetat astfel

5 Florian Banu, Contribuţii la un dicţionar al limbii de lemn : „banditul” în documentele regimului comunist , în «Cetatea Bihariei», 2007, nr. 2, p. 98. 6 Ibidem. 7 Ibidem, p.98. 8 Ochii şi urechile poporului. Convorbiri cu generalul Nicolae Pleşiţă. Dialoguri consemnate de Viorel Patrichi în perioada aprilie 1999- ianuarie 2001, Bucureşti, 2001, p. 86 (apud Florian Banu, op. cit., p. 98). 9 Florian Banu, Contribuţii la un dicţionar…, p. 98.

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orice individ care a fost tentat să reziste prin forţă, chiar şi neînarmat, violării drepturilor sale civile, naţionale sau de altă de către autorităţi 10. Indiferent dacă erau numiţi bandiţi, duşmani, terorişti,

adversarii politici aveau un numitor comun: erau reacţionari, adică, conform accepţiunii date de comunişti, toţi aceia care se opuneau, în orice formă, revoluţiei bolşevice, comunismului. Iată ce răspuns concis şi clar dădea un cekist, în ziarul Izvestia (martie, 1921), la întrebarea: Ce este banditismul? «O activitate contra-revoluţionară!»11.

În continuare, exemplificăm afirmaţiile cu câteva citate despre bandiţi şi bande, din sutele care abundă în documentele securităţii:

Banda Uţă a fost distrusă printr-o operaţiune de capturare în cursul căreia acesta a fost ucis. Au fost arestaţi şase membri ai bandei, şase bandiţi au fost împuşcaţi în cursul operaţiei şi şase sunt urmăriţi12; Au fost reţinuţi 14 membri ai bandei Spiru Blănaru şi Ionescu Gheorghe, 120 de gazde, favorizatori şi complici; şapte bandiţi au fost împuşcaţi în operaţiune 13; În Munţii Apuseni sunt semnalate bande formate din manişti, legionari, ofiţeri deblocaţi, bandiţi de drept comun etc.; un exemplu din Bihor: Banda doctorului Capotă era ajutată de gazde şi iscoade recrutate dintre preoţi, funcţionari şi pădurari de la Stâna de Vale, de pe muntele Vlădeasa, care au fost arestaţi cu prilejul unor arestări făcute de D.R.S.P. Oradea în legătură cu D.R.S.P. Cluj la 30 noiembrie 194814; Situaţie (din 24 iunie 1950) cu «evidenţa

10 Jacques Rosii, Le manuel du Goulag. Dictionnnaire historique, préface de Nicolas Werth, Le cherche midi editeur, f.a., p.30-31 (apud Florian Banu, op. cit., p. 98). 11 Florian Banu, op. cit., p. 98. 12 Ibidem, p. 59. 13 Ibidem, p. 61. 14 ***, Bande, bandiţi şi eroi…, p. 63.

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bandelor» care se urmăresc din punct de vedere informativ de către Direcţia Generală a Securităţii Poporului, în care avem referiri şi la bandele din judeţul Bihor15; în

concluzia la raportul său din 28 noiembrie 1950, un ofiţer de securitate afirma următoarele:

În urma acţiunilor desfăşurate de organele Ministerului Afacerilor Interne la sfârşitul anului 1948 şi la începutul anului 1949, bandele din munţi au primit puternice lovituri, fiind lichidate majoritatea grupurilor importante. Elemente răzleţe au reuşit să scape urmăririi organelor noastre şi să rămână ascunse în munţi. Spre sfârşitul anului 1949 şi începutul anului 1950 a urmat o perioadă de regrupare a bandiţilor16. La finele aceluiaşi an, situaţia numerică pe ţară era de

450 de arestaţi şi 27 de rezistenţi ucişi în luptă, din care 24 de arestaţi şi un rezistent ucis erau din judeţul Bihor17.

Viziunea comunistă asupra societăţii era maniheică, totul fiind divizat în alb sau negru, bine sau rău, reacţiune sau progres. În dihotomia care rezultă din limbajul utilizat, comuniştii erau, în mod indubitabil, exponenţii binelui, ai progresului, iar rivalii lor reprezentau contrariul, răul, «reacţiunea». Arogarea abuzivă şi exclusivă, într-o manieră tipic bolşevică, a binelui a dus, conform logicii luptei de clasă, la includerea tuturor adversarilor politici în categoria generală a răului, cu diverse forme de manifestare. Această premisă eronată, dar singura posibilă pentru extremiştii politici, repetată cu obstinaţie şi dusă la patologic, avea consecinţe asupra limbajului politic, în sensul că acesta devenea o armă redutabilă în arsenalul liderilor de partid sau ai anchetatorilor Securităţii.

Distrugerea totală a adversarului începea cu eticheta care i se aplica. Ca urmare, sensurile multor cuvinte au fost

15 Ibidem, p. 91. 16 Ibidem, p. 115. 17 Ibidem, p. 117.

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deformate, denaturate, aşa cum a fost şi cazul celor în discuţie: (bandit, duşman sau terorist), care au fost intens politizate.

Perversiunea consta în faptul că, aşa cum se ştie azi şi era cunoscut şi în epoca respectivă, minoritatea comunistă se pretindea, în mod abuziv, legitimă, însă autoritatea sa se sprijinea doar pe tancurile sovietice şi NKVD, nu pe adeziunea românilor, care erau în majoritate anticomunişti. Cu un număr de 1.000 de membri în momentul reintrării în legalitate (la 23 august 1944), Partidul Comunist din România nu reprezenta nici măcar interesele muncitorimii române, categorie socială atrasă, în măsură mai mare, de Partidul Social-Democrat. La nivelul percepţiei societăţii româneşti, ei erau văzuţi ca o forţă străină de spiritul şi tradiţiile naţionale, o agentură de spionaj a Moscovei, împânzită cu alogeni, care au luat, de la începutul existenţei lor, oficial, o poziţie împotriva unităţii statale a României, motiv pentru care, pe bună dreptate, au fost scoşi în afara legii de autorităţile statului român în anul 1924.

Semnificaţia expresiei «duşmanul poporului» (folosită şi consacrată de revoluţia franceză) se referea la elementele din clasele sociale privilegiate, care se opuneau răsturnării stării de lucruri caracteristice «vechiului regim». Termenul a început să facă carieră, fiind preluat de revoluţia bolşevică şi, după încheierea celui de-al doilea război mondial, exportat în ţările «eliberate» de Armata Roşie. Însă, acum termenul nu mai avea acoperire în realitate. «Poporul» era – în viziunea comuniştilor – reprezentat de o minoritate politică extrem de agresivă şi foarte bine organizată, susţinută de Moscova, care se substituise poporului real. Deci, o «sectă» politică exclusivistă, cu pretenţii de deţinere a adevărului absolut, încerca să reinventeze legitimitatea politică cu ajutorul limbii. Comuniştii se considerau a fi reprezentanţi ai unui «regim democratic» (de fapt, antidemocratic, dacă judecăm realitatea după standardele democraţiei clasice), iar rezistenţii din popor înfundau închisorile sau erau lichidaţi.

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Reprezentanţii noii puteri, ca şi instrumentele lor represive, s-au străduit ca, prin limbajul introdus în viaţa publică, să înfiereze - cu o uşurinţă surprinzătoare - acţiunile celor implicaţi în mişcarea de rezistenţă anticomunistă, care era prezentă în toate regiunile ţării (în diverse forme şi cu un diferit potenţial de manifestare, dar, în esenţă, o expresie vie a spiritului antitotalitar al românilor). Astfel, documentele vremii (de la cele păstrate în arhive şi până la presa de orientare comunistă) sunt pline de formulări precum: duşman al regimului democrat, duşman al poporului (care suna sinistru şi descalificant), elemente duşmănoase şi atitudine duşmănoasă18 faţă de regimul impus de Moscova.

Altă sintagmă utilizată, pe care o supunem atenţiei, este aceea de terorist, adică persoană care foloseşte mijloace violente pentru răsturnarea sau influenţarea ordinii legitime a statului. Dacă percepţia asupra teroriştilor ar fi aparţinut autorităţilor unui stat democratic, atunci, într-adevăr, aceştia puteau fi consideraţi ca atare. În realitate, luptătorii anticomunişti refugiaţi în munţi au devenit eroi ai unei rezistenţe anticomuniste. Ei au fost, cu o evidentă intenţie defăimătoare, etichetaţi – de către autorităţile comuniste şi de securişti – drept bandiţi, terorişti şi duşmani. Anchetatorii securişti şi gardienii din închisori recurgeau, adesea, la termenul de «bandiţi»19. Chiar şi procurorii au utilizat acest apelativ, pentru a putea propune pedepse exemplare. Un întreg arsenal incriminatoriu s-a constituit pornindu-se de la formulări ca bandit, bande, terorişti, menite să ţină sub teroare un popor întreg, a cărui ţară era ocupată de trupele sovietice, iar instituţiile se aflau sub control bolşevic.

Exemplificăm cu citate din documente edite:

18 Antonio Faur, Ştefan Popescu – liderul grupului de rezistenţă anticomunistă din sudul Bihorului (1946-1950), Oradea, Editura Universităţii din Oradea, 2007, p. 69, 71, 73, 77, 167. 19 ***, Bande, bandiţi şi eroi…, p. 90.

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Referat în legătură cu banda teroristă a colonelului c.d. Arsenescu Gheorghe, aflată în Munţii Muscelului…20; La Timişoara s-a descoperit o organizaţie teroristă intitulată Organizaţia naţional creştină de luptă împotriva comunismului, care-şi mai spunea şi Vulturul Negru şi Bastonul Negru 21; un raport al securităţii dintr-un judeţ se intitula: Sinteză asupra evoluţiei «bandelor teroriste» de pe teritoriul judeţului Tulcea întocmită de Serviciul Judeţean de Securitate Tulcea, în mai 1949 22, sau un altul: Situaţia bandelor existente la 24 iunie 1950, care se urmăresc din punct de vedere informativ”23 (de către Direcţia Generală a Securităţii Poporului); titlul unei alte dări de seamă, întocmite de securitate la

28 noiembrie 1950: Dare se seamă de rezultatele obţinute în urma acţiunilor întreprinse de organele de securitate, cu sprijinul organelor de miliţie, în vederea depistării şi lichidării bandelor teroriste şi a organizaţiilor subversive semnalate în munţi şi păduri24; Banda teroristă Şuşman Leon s-a format în anul 1948 …susnumitul desfăşoară…o serie de acţiuni pentru a organiza legionarii în scopul subminării regimului democrat- popular. În anul 1948, simţindu-se urmărit, formează o bandă teroristă înarmată, în cadrul căreia îşi asumă rolul de conducător25. Avem, într-un singur fragment citat, toate calificativele:

bandă, bandiţi, bandă contrarevoluţionară şi terorişti. În condiţiile în care comuniştii nu apelau la dialogul

politic, nici la o altă pârghie democratică, s-a ajuns ca sistemul 20 ***, Bande, bandiţi şi eroi…, p. 96. 21 Ibidem, p. 61. 22 Ibidem, p. 73. 23 Ibidem, p. 91. 24 Ibidem, p. 99. 25 Ibidem, p. 273.

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să se bazeze pe cunoscuta regulă: cine nu-i cu noi, este împotriva noastră, adică duşmanul nostru, care trebuie anihilat prin cele mai dure mijloace.

Astăzi, într-un alt context istoric, marcat de lupta occidentului democratic împotriva unui fenomen global, terorismul naşte imediat reacţii împotrivă, la nivel planetar, deşi, în cele din urmă, este cunoscut relativismul percepţiei şi faptul că fiecare parte vede lucrurile doar din punctul lui de vedere, dar, după unele opinii,

atunci, în faţa adevăratelor hecatombe provocate de armate de ocupaţie şi de organele de represiune, în faţa abandonării Europei de Est de către Aliaţii occidentali, calea violentă rămânea aproape unica soluţie. Cei care şi-au pus viaţa în joc, luând drumul munţilor şi al pădurilor, au dat în primul rând o probă de curaj şi demnitate…, deopotrivă individuală şi naţională 26. Este firesc să ne punem întrebări, azi, cu privire la scopul

utilizării acestor termeni? În primul rând trebuie spus că, pentru a-şi realiza obiectivele politice, autorităţile comuniste au procedat la pervertirea limbii, devenită doar un alt instrument în mâna lor. Ele au modificat sensurile consacrate ale cuvintelor, în favoarea noului mesaj politic. Starea de anormalitate a substituit normalul, societatea fiind atinsă de boală, noile formule lingvistice folosite în discursul oficial fiind dovada acesteia, iar cei care doreau să supravieţuiască aveau doar o singură şansă: adaptarea la noua realitate.

În ţările Europei de Est, partidele comuniste aflate la putere au recurs la un discurs politic gata format, imitat după modelul sovietic.

Concluzia – cercetând limbajul - în ceea ce priveşte conceptul «reacţionar» este că, la o lună după ieşirea la suprafaţa scenei politice, comuniştii veneau cu un limbaj stabil din punct de vedere

26 Ibidem, p. 22.

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ideologic, repetitiv, vehiculau concepte fără să simtă nevoia să le argumenteze şi fără să creadă că ar trebui argumentate 27. Această constatare cu privire la termenul de reacţionar

poate fi extinsă şi pentru ceilalţi termeni în discuţie. După unii cercetători avizaţi, scopul urmărit de

autorităţi, prin schimbarea sensului propriu al acestor cuvinte, a fost acela de a-şi arunca în derizoriu adversarii politici, incriminându-i ca pe nişte reprezentanţi ai «răului» precum: duşmani, terorişti, fugari (organizaţi în bande sau acţionând pe cont propriu).

Cuvintele utilizate au suferit mutaţii, servind mai bine intereselor noilor conducători politici. Această modificare a fost, fără îndoială, o încercare de câştigare a legitimităţii politice, sau măcar crearea aparenţei acesteia.

Încheiem cu o opinie, la care subscriem: Cuvintele de acest tip, asemenea unui seismograf pertinent, indică procesualităţi şi încorporează factori esenţiali: gradul de toleranţă a unui regim politic, de intoleranţă a altuia, raporturile de clasă, lupta de clasă, structuri politice, anormalitate şi anormalitate, idiosincraziile şi sensibilităţile unei epoci şi ale unui regim politic28. Sursele de informare (edite şi inedite), dar şi mărturiile

supravieţuitorilor, ne dau posibilitatea ca, bazându-ne pe semantică, să relevăm toxicitatea metodelor şi a propagandei efectuate de un regim totalitar de stânga şi să demontăm:

Uriaşa clădire a minciunii, edificată timp de patru decenii…Aşa cum s-a spus, secolul al XX-lea a fost secolul minciunii….Din acest motiv, imperativul intelectual şi moral actual, al fiecărui cetăţean responsabil, ar trebui să fie: «nu te lăsa minţit!»

27 Corneliu Crăciun, Contribuţii de semantică istorică: reacţiune şi reacţionar în discursul politic românesc, în «Cele trei Crişuri», 2009, nr. 1-3, p. 69. 28 Corneliu Crăciun, op. cit., p. 71.

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Pentru aceasta, este însă necesară o bună cunoaştere a tehnicilor de manipulare, de dezinformare, a modalităţilor insidioase de pervertire a limbajului, de transformare a eroilor în anti-eroi, a albului în negru29. Mai adăugăm faptul că analiza acestor tactici ale

securităţii şi comuniştilor din România atrag atenţia cetăţeanului asupra riscului ca un asemenea tip de limbaj să nu mai intre în uzul şi altor regimuri, chiar în zilele noastre, fără a fi imediat amendate.

29 Florian Banu, op. cit., p. 100.

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RIASSUNTI / REZUMATE

ALVARO BARBIERI, Ideologia e persuasione: la parola dei capi in Geoffroy de Villehardouin Per entro il quadro epistemologico che fa da sfondo ai nostri abituali protocolli scientifici, siamo abituati a considerare come un dato ovvio la coesistenza, in un qualunque testo, di molteplici livelli di senso, analizzabili separatamente ma spesso intimamente collegati e in ogni caso concorrenti alla costruzione complessiva del senso. Da ciò discende un altro fatto comunemente accettato, vale a dire la legittimità e, anzi, l’opportunità di avvicinarci ai testi secondo una strategia interpretativa che preveda una pluralità di punti d’attacco implicanti diverse angolature disciplinari. Va detto però che l’adozione di una prospettiva di ricerca integrata, sempre possibile e raccomandabile, appare particolarmente remunerativa per alcuni oggetti d’indagine dal carattere ‘anfibio’. Uno di questi è certamente La conquête de Constantinople di Geoffroy de Villehardouin, opera che rappresenta la più completa e informata fonte sulla Quarta Crociata e, in pari tempo, uno dei primissimi esempi di prosa francese. Insostituibile documento sulla spedizione franco-veneziana e precoce testimonianza delle scritture prosastiche d’oïl, il resoconto del Maresciallo di Champagne reclama accostamenti critici capaci di valorizzare la sua natura ancipite, tra le ragioni della letteratura e quelle della storia. Esaminando il modo in cui Villehardouin ‘tratta’ i discorsi dei capi della Crociata, il presente lavoro aspira a dimostrare la fertilità euristica di un approccio misto, che sappia far reagire lo specifico letterario con la cornice storico-sociale e le poste in gioco ideologiche del testo.

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Parole chiave: Storiografia medievale, Letteratura francese del Medioevo, Quarta Crociata ALVARO BARBIERI, Ideologie şi persuasiune: cuvintele comandanţilor în Geoffroy de Villehardouin În interiorul cadrului epistemologic folosit de obicei în studiile noastre ştiinţifice, ne-am obişnuit să considerăm drept evident faptul că în oricare tip de text sunt prezente mai multe nivele de sens, care, deşi analizabile separat, de cele mai multe ori se întrepătrund şi colaborează la construcţia generală a semnificaţiei. De aici provine şi legitimitatea de a studia textele prin strategii interpretative multiple şi din mai multe perspective disciplinare. Desfăşurarea demersului critic pe mai multe planuri, oricând posibilă şi folositoare, devine rentabilă cu atât mai mult în cazul în care obiectul cercetării are un caracter multiplu şi amfibiu. Un exemplu excelent, în acest sens, este La conquête de Constantinople de Geoffroy de Villehardouin, o operă care este în acelaşi timp cea mai completă şi informată sursă istorică asupra Cruciadei a Patra şi unul dintre primele exemple de proză literară în franceza veche. Document indispensabil asupra expediţiei franco-veneţiene şi mărturie precoce a prozei în langue d’oïl, cronica Mareşalului de Champagne are nevoie de o abordare critică în stare să pună în valoare atât aspectele sale istorice cât şi cele literare. Articolul de faţă cercetează modul în care Villehardouin reproduce discursurile comandanţilor Cruciadei şi încearcă să confrunte specificitatea literară a operei cu mizele sale ideologice şi cadrul istorico-social. Cuvinte cheie: Istoriografie medievală, Literatura franceză medievală, Cruciada a patra

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FLORIN SFRENGEU, Istoriografie şi arheologie: informaţii din Gesta Hungarorum a lui Anonymus privind ducatul lui Menumorut şi cercetările arheologice de la Biharea Articolul prezintă informaţiile din opera lui Anonymus, Gesta Hungarorum privind pătrunderea ungurilor pe teritoriul ducatului condus de Menumorut, cu reşedinţa în castrum Byhor, asediul şi cucerirea fortificaţiei, precum şi istoricul cercetărilor arheologice efectuate în cetatea de pământ din localitatea Biharea. Gesta Hungarorum (Faptele ungurilor) este considerată o lucrare importantă pentru desluşirea unor evenimente şi realităţi referitoare la maghiarii nou veniţi în Europa centrală, precum şi la alte populaţii aflate în zonă, care au avut de suferit în urma acţiunilor întreprinse de aceştia. Cercetările arheologice din anii 1998-2004 confirmă constatările şi concluziile anterioare, întărindu-le în ceea ce priveşte momentul în care a fost construită cetatea de pământ. Acest moment poate fi plasat în răstimpul dintre locuirea de epocă romană şi locuirea feudală timpurie din nivelul mai vechi. Cercetările istorico-arhologice efectuate până în prezent au arătat că fortificaţia principală din ducatul lui Menumorut, castrum Byhor, din cronica lui Anonymus, poate fi localizată pe teritoriul localităţii Biharea, unde masivele valuri de pământ ale cetăţii impresionează şi în prezent. Cuvinte cheie: Cronica lui Anonymus, Biharea, cercetări arheologice, cetate de pământ FLORIN SFRENGEU, Storiografia e archeologia: le informazioni delle Gesta Hungarorum di Anonymus, riguardanti il ducato di Menumorut e le ricerche archeologiche di Biharea L’articolo presenta le informazioni riportate nelle Gesta Hungarorum di Anonymus riguardanti la penetrazione degli

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ungheresi sul territorio del ducato di Menumorut, nonché l’assedio e la conquista della sua principale sede fortificata, il castrum Byhor. Viene inoltre ripercorsa la storia delle ricerche archeologiche condotte sul sito dell’attuale Biharea. Gesta Hungarorum è un’opera importante per riuscire a chiarire alcuni eventi e realtà riguardanti i magiari appena giunti nell’Europa centrale e le altre popolazioni della zona, che hanno subíto le conseguenze della loro espansione. Le ricerche archelogiche degli anni 1998-2004 a Biharea hanno confermato i risultati ottenuti precedentemente, rafforzandoli per quanto riguarda la datazione della costruzione delle fortificazioni. Tale evento può essere collocato nel lasso di tempo tra l’insediamento di epoca romana e l’insediamento feudale di epoca alto-medievale di livello più antico. Le ricerche hanno inoltre dimostrato che la fortezza principale del ducato di Menumorut, il castrum Byhor citato nella cronaca dell’Anonymus, può essere localizzata sul territorio dell’attuale Biharea, dove ancora oggi si può ammirare il massiccio vallo di terra delle fortificazioni. Parole chiave: Cronaca di Anonymus, Biharea, archeologia, fortificazioni di terra

* DAN OCTAVIAN CEPRAGA, Storia, retorica e linguaggio del patriottismo: la battaglia di Călugăreni in Românii supt Mihai-Voievod Viteazul di Nicolae Bălcescu Românii supt Mihai-Voievod Viteazul è il capolavoro della storiografia romantica romena, nonché un imperituro best-seller del patriottismo nazionale, esposto a incessanti ri-usi ideologici e identitari, di cui il più aberrante è stato, come è noto, quello della propaganda comunista. Non solo: è anche uno degli esempi più riusciti e artisticamente compiuti della prosa romena di primo

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Ottocento, forse il frutto più originale e convincente della stagione letteraria paşoptistă. L’ampio sforzo di documentazione, il rigore del metodo, la discussione critica delle fonti ne fanno una delle punte più avanzate della storiografia romena dell’epoca. Allo stesso tempo, l’opera è anche un’operazione imponente di riscrittura mitica e letteraria del passato nazionale, trasfigurato in valore simbolico nelle forme eroiche dell’epos. A partire da questa duplice natura del libro di Bălcescu, l’articolo propone una lettura retorica del celebre episodio della battaglia di Călugăreni, all’interno del quale vengono analizzate le diverse strategie argomentative messe in atto, verificando la fisionomia complessiva dell’impianto persuasivo e i modi in cui questo si intreccia con il racconto storico. Figlia di una vera e propria età dell’eloquenza, la prima e, forse, l’unica che abbia veramente interessato l’intera res litteraria romena, l’opera di Bălcescu è anche il luogo in cui il linguaggio del patriottismo romantico romeno ha raggiunto le sue forme più nobili e raffinate. Parole chiave: Storiografia romantica, Nicolae Bălcescu, retorica, teoria dell’argomentazione DAN OCTAVIAN CEPRAGA, Istoria, retorica şi limbajul patriotismului: bătălia de la Călugăreni în Românii supt Mihai-Voievod Viteazul de Nicolae Bălcescu Capodoperă a istoriografiei romantice româneşti, Românii supt Mihai-Voievod Viteazul este, totodată, un veşnic best-seller al patriotismului naţional, supus, de-a lungul timpului, unor neîncetate manipulări idelogice şi identitare, dintre care cea mai aberantă, după cum ştim, a fost cea săvârşită de propaganda comunistă. În acelaşi timp, cartea lui Bălcescu este un text literar de mare forţă oratorică şi de o incontenstabilă împlinire stilistică, poate exemplul cel mai reuşit şi convingător al prozei literare paşoptiste. Dacă din punctul de vedere al istoriografiei, opera se remarcă prin efortul de

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documentare, rigoarea metodei şi selecţionarea critică a surselor, într-o perspectivă literară, ea este în schimb o impresionantă transfigurare retorică a trecutului naţional în forme mitizante şi epice. Plecând de la această natură duplicitară a operei, articolul propune o analiză retorică a episodului bătăliei de la Călugăreni, în care sunt descrise şi analizate principalele strategii argumentative utilizate şi modul în care structura persuasivă se întregeşte în naraţiunea istorică. Rod al unei adevărate epoci a elocvenţei, limbajul patriotismului romantic atinge în opera lui Bălcescu forme nobile şi rafinate, care marchează o etapă majoră în devenirea prozei literare româneşti. Cuvinte cheie: Istoriografie romantică, Nicolae Bălcescu, retorică, teoria argumentaţiei

* SORIN ŞIPOŞ, Silviu Dragomir e la Securitate: le note informative del dossier di pedinamento (1957-1962) Silviu Dragomir, importante storico e, per un certo periodo, anche uomo politico nei governi interbellici, è stato arrestato dalle autorità comuniste il 1 luglio 1949 a Cluj e quindi trasferito nel Penitenziario di Caransebeş, per scontare una condanna a sei mesi di carcere correzionale per reati contro la Legge bancaria, a cui si aggiungeva un’ammenda di 2 600 000 lei. In seguito, verrà portato nel carcere di Sighet, accanto agli altri uomini politici e intellettuali ivi incarcerati dal regime. Ne uscirà soltanto il 6 luglio 1955. Dopo la sua scarcerazione, Dragomir cerca di riprendere la propria attività scientifica e di continuare a pubblicare, ma finisce nel mirino della Securitate, che non si fidava degli ex detenuti politici. In un primo momento gli ufficiali tentano di reclutarlo, poi, sospettandolo di spionaggio a favore degli inglesi, aprono sul suo conto un fascicolo di pedinamento. Per ottenere le informazioni di cui aveva bisogno, la Securitate si serve di una nutrita serie di informatori piazzati nell’ambiente di lavoro e

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familiare di Dragomir. L’articolo propone, quindi, un’analisi dettagliata delle note informative redatte da informatori e ufficiali della Securitate, dalle quali si possono trarre le seguenti conclusioni: le informazioni fornite dagli agenti sono in generale ben articolate, per tutte le epoche, dagli studi universitari all’attività accademica, attraverso i momenti principali della storia contemporanea: l’unione del 1918, Il Diktat di Vienna, il rifugio a Sibiu, il ritorno. Gli informatori evidenziano anche l’attività scientifica di spicco svolta da Silviu Dragomir nel periodo interbellico. Allo stesso modo, il suo impegno politico è presentato correttamente, come un’attività di importanza secondaria, se confrontato con la sua professione di storico. Al di là di questi aspetti, i documenti ci mostrano come la Securitate abbia sorvegliato Silviu Dragomir, ricorrendo spesso a mezzi e metodi illegali e immorali. Allo stesso modo, ci mostrano che gli oppositori, i nemici o i sospetti nemici del regime comunista non hanno mai guadagnato la piena fiducia delle nuove autorità politiche. Il caso di Silviu Dragomir non è, del resto, l’unico, numerosi romeni essendo stati pedinati, imprigionati, uccisi dalle autorità comuniste. Parole chiave: Silviu Dragomir, Securitate romena, fascicolo di pedinamento, note informative, spionaggio SORIN ŞIPOŞ, Silviu Dragomir şi Securitatea: notele informative din dosarul său de urmărire (1957-1962)

Istoric şi om politic Silviu Dragomir s-a remarcat într-o manieră diferită în cele două calităţi. Profesorul este arestat în 1 iulie 1949 la Cluj şi, mai apoi, e transferat în penitenciarul din Caransebeş, pentru a-şi ispăşi pedeapsa de şase luni de închisoare corecţională pentru delict la Legea băncilor, la care se adăugase şi o amendă corecţională de 2 600 000 de lei. În data de 6 mai 1950, Silviu Dragomir a fost transferat la

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închisoarea de la Sighet, alăturându-se oamenilor politici şi intelectualilor arestaţi şi închişi aici. După ieşirea din detenţie, istoricul Silviu Dragomir încearcă să-şi continue activitatea ştiinţifică, să publice. Securitatea însă nu avea încredere în foştii deţinuţi politici. Într-o primă fază, Securitatea a încercat să-l recruteze pe Silviu Dragomir. Apoi, el a intrat în atenţia organelor de represiune ca suspect de spionaj în favoarea englezilor. În consecinţă, ofiţerii de securitate propuneau ca istoricului Silviu Dragomir să-i fie deschis un dosar de urmărire informativă, pentru a se stabili dacă este vinovat de spionaj în favoarea englezilor. Securitatea a reuşit să obţină cu ajutorul informatorilor, plasaţi în anturajul lui Dragomir, toate informaţiile de care avea nevoie. Din notele informative se pot desprinde următoarele concluzii: în general, biografia este corect realizată, informatorii surprind principalele momente din activitatea lui Silviu Dragomir. Un argument în plus că îl cunoşteau bine. Informaţiile furnizate de agenţi sunt în general bine articulate, pentru toate epocile, despre studiile sale universitare, despre activitatea din cadrul universităţii, punctându-se momentele principale din istoria contemporană, unirea din 1918, Dictatul de la Viena, refugiul sibian, reîntoarcerea. De asemenea, informatorii evidenţiază activitatea ştiinţifică remarcabilă desfăşurată de Silviu Dragomir în perioada interbelică. Activitatea politică este, în linii generale, corect prezentată, neînsemnată în comparaţie cu cea ştiinţifică. Dincolo de aceste aspecte, documentele ne arată cum securitatea l-a supravegheat pe Silviu Dragomir utilizând, adesea, mijloce şi metode ilegale şi imorale. De asemenea, ne arată că opozanţii, inamicii şi suspecţii regimului comunist nu s-au bucurat niciodată de încrederea noilor autorităţi politice. Cazul Silviu Dragomir nu a fost unul singular în România comunistă, numeroşi români fiind ucişi, închişi şi urmăriţi de autorităţile comuniste. Cuvinte cheie: Silviu Dragomir, securitatea română, dosar de urmărire, note informative, spionaj

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* ALVISE ANDREOSE, Dalla voce alla scrittura: problemi di transcodificazione nella stesura della Relatio di Odorico da Pordenone Il resoconto (Relatio) che il francescano Odorico da Pordenone elaborò nel 1330 al ritorno dal suo viaggio in India e in Cina, è il frutto della collaborazione tra il viaggiatore e uno scriba, il confratello Guglielmo da Solagna. Numerosi indizi inducono a ritenere che, durante la dettatura, Odorico abbia fatto uso non del latino, ma della propria lingua materna. Nel testo si incontrano, infatti, varie lezioni inesatte che si giustificano soltanto partendo dall’ipotesi che il Solagna, nel momento della mise en écrit, abbia frainteso sintagmi e espressioni che erano state pronunciate in volgare. Questa ipotesi, oltre a precisare le fasi di elaborazione dell’opera, permette di fornire contributi importanti alla sua interpretazione, per ciò che concerne in particolare l’identificazione dei toponimi e la decifrazione dei termini esotici. Parole chiave: Odorico da Pordenone, letteratura di viaggio medievale, toponimi orientali ALVISE ANDREOSE, De la rostire la cuvântul scris: probleme de transcodificare în redactarea operei lui Odorico da Pordenone Relatarea (Relatio) franciscanului Odorico da Pordenone a fost elaborată în anul 1330, la întorcerea din călătoria pe care Odorico o făcuse în India şi China. Ea este rodul unei colaborări între călugărul călător şi confratele său Guglielmo da Solagna, care a avut rolul de scrib. Numeroase indicii ne fac să credem că Odorico a dictat textul nu în latină, ci utilizând propria limbă maternă. În această privinţă, există în text o

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seamă de lecţiuni eronate, care nu pot fi explicate decât prin ipoteza că Guglielmo da Solagna, în pasajul de la rostire la cuvântul scris, a răstălmăcit unele sintagme şi expresii care au fost pronunţate în italiană, sau mai bine zis în varianta dialectală friulană (sau venetă veche). Această ipoteză ne-a permis să conturăm, cu mai mare precizie, fazele de elaborare a operei şi să oferim, de asemenea, unele contribuţii la interpretarea ei, mai ales în ceea ce priveşte identificarea toponimelor şi descifrarea cuvintelor exotice. Cuvinte cheie: Odorico da Pordenone, literatura medievală de călătorie, toponime orientale

* BARBU ŞTEFĂNESCU, Însemnările olografe de pe cărţile bisericeşti - puterea de informare asupra sensibilităţii lumii rurale La modul general, ţăranul este perceput istoriografic drept o fiinţă discretă, datorită situării sale, dacă nu în afara, cel puţin la periferia cuvântului scris. Mai ales, discursul lumii ţărăneşti despre ea însăşi este unul precar, istoricul găsind cu dificultate mijloace documentare pentru a străpunge carapacea închiderii între limitele oralităţii cvasigenerale, prin mărturisiri despre sine a ţăranului însuşi. Un tip de sursă care are asemenea calităţi o reprezintă modestele însemnări („adnotări”) marginale făcute pe cărţile bisericeşti la nivelul secolelor XVI-XX, fascinante prin umanitatea trăirilor, prin sensibilitatea exprimată simplu şi direct, cu mare forţă de convingere, de cei care scriu sau de semenii lor, ţărani, despre şi pentru care scriu. Aparenţa de viaţă ţărănească cenuşie, monotonă, spre care conduce o privire superficială, de sus şi de la distanţă, asupra satului românesc transilvănean la începuturile modernităţii, este dezminţită, prin prisma acestei categorii de documente mai puţin convenţionale pentru istoric, de fapte, atitudini, gesturi şi cuvinte ce dezvăluie o lume structurată

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în jurul unor valori simbolice, între care aspiraţia spre Dumnezeu şi spre Împărăţia Cerurilor transpare din grija pentru Biserică, pentru destinul postum al sufletului. Cuvinte cheie: sensibilitate rurală, însemnări olografe, cărţi bisericeşti, sociabilitate, ritual. BARBU ŞTEFĂNESCU, Le annotazioni olografe sui libri di devozione:la loro forza d’informazione sulla sensibilità del mondo rurale In genere, i contadini sono percepiti, da un punto di vista storiografico, come creature discrete, data la loro posizione, se non esterna, per lo meno marginale rispetto alla parola scritta. In particolare, gode di uno statuto alquanto precario il discorso che il mondo contadino ha prodotto su se stesso, giacché lo storico fatica a trovare gli strumenti documentari per penetrare la corazza di una quasi assoluta oralità, attingendo a testimonianze dei contadini stessi sulla propria vita. Un tipo di fonte che presenta tale caratteristica, sono le modeste annotazioni in margine ai libri di devozione datate tra i secoli XVI-XX, affascinanti per l’umanità che lasciano trasparire e per la sensibilità espressa in modo semplice e diretto, con grande forza di convinzione, da chi le ha vergate. Alla luce di questi documenti, invero poco frequentati dagli storici, viene smentita l’immagine di una vita contadina grigia e monotona, verso cui ci condurrebbe uno sguardo superficiale, da lontano e dall’alto, sui villaggi romeni della Transilvania alle soglie della modernità. In essi vi sono testimoniati fatti, attitudini, gesti e parole che svelano un mondo fortemente strutturato intorno a valori simbolici, tra cui segnaliamo l’aspirazione religiosa, che traspare nelle preoccupazioni per la Chiesa e per il destino postumo dell’anima. Parole chiave: sensibilità rurale, annotazioni olografe, libri ecclesiastici, sociabilità, rito

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* MIRCEA BRIE, Registrele parohiale de stare civilă din Transilvania în a doua jumătate a secolului al XIX-lea. Semnificaţie documentară

Registrele parohiale de stare civilă, deşi sunt surse principale de documentare pentru demografia istorică, ele sunt folosite cu rezultate considerabile şi de către alte ştiinţe precum: istoria, etnografia, sociologia, antropologia, lingvistica etc. Până la sfârşitul secolului al XVIII-lea însemnările de stare civilă s-au făcut foarte sumar şi împreună, în ordine cronologică, pentru toate evenimentele demografice; după aceea, s-a trecut la înregistrarea în trei rubrici: pentru botezaţi, căsătoriţi şi morţi. Conţinutul registrelor de stare civilă s-a îmbunătăţit tot mai mult, în primul rând datorită presiunii statului. Registrele bisericeşti sunt singurele în măsură să ne ofere o imagine asupra familiei în mediul rural, cel puţin pentru a doua jumătate a secolului al XIX-lea. Înscrisurile bisericeşti, surse fundamentale pentru cercetarea vieţii familiale, sunt de două categorii: 1. registrele de stare civilă şi rapoartele anuale ale parohiilor; 2. fondurile autorităţilor bisericeşti, înscrisurile şi procesele verbale consemnate de către episcopii. Aceste înscrisuri sunt surse complexe pentru cercetătorul interesat de demografia istorică, de istoria socială, dar şi de istoria economică, de toponimie, onomastică etc. Înscrisurile bisericeşti şi-au dovedit însemnătatea mai ales acolo unde alte surse documentare (în special cele din categoria înregistrărilor făcute de către stat) s-au dovedit insuficiente, lacunare şi neclare. Registrele parohiale de stare civilă se pretează în acest caz pentru o analiză calitativă, dar şi cantitativă la nivel comunităţilor locale. Cuvinte cheie: registre parohiale, Transilvania, familie, etnie, confesiune, comunitate.

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MIRCEA BRIE, I registri parrocchiali di stato civile nella Transilvania della seconda metà del XIX secolo. Significato documentario I registri parrocchiali di stato civile sono tra le principali fonti di documentazione della demografia storica. Essi sono, tuttavia, utilizzati con risultati degni di nota anche da altre discipline, come la storia, l’etnografia, la sociologia, l’antropologia, la linguistica, ecc. Fino alla fine del XVIII secolo le annotazioni di stato civile erano redatte in modo sommario e indistinto, in semplice ordine cronologico, per tutti gli eventi demografici. In seguito si è passati alla suddivisione in tre rubriche: battesimi, matrimoni, decessi. È stata soprattutto la pressione esercitata dallo Stato che, nel corso del tempo, ha portato ad una migliore e più completa annotazione dei dati all’interno dei registri. Tali registri ecclesiastici sono di importanza fondamentale per chi volesse ricostruire, ad esempio, un’immagine attendibile della famiglia rurale nella Transilvania della seconda metà del XIX secolo. Le registrazioni sono sostanzialmente di due tipi: 1) i registri di stato civile ed i rapporti annuali dei parrochi; 2) i fondi delle istituzioni ecclesiastiche, le annotazioni e i processi verbali dei vescovi. Entrambe queste tipologie costituiscono un insieme complesso di fonti per lo studioso di demografia storica, storia sociale ed economica, di toponimia, di onomastica, ecc. Esse sono particolarmente rilevanti nei casi in cui altre fonti documentarie si sono rivelate insufficienti, lacunose e poco perspicue. I registri parrocchiali di stato civile si prestano, in questi casi, ad analisi sia qualitative che quantitative riguardanti le comunità locali. Parole chiave: registri parrocchiali, Transilvania, famiglia, etnia, confessione religiosa, comunità

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* ROBERTO SCAGNO, Le nozioni di românism e suflet românesc nella cultura romena tra le due guerre mondiali e le loro derivazioni postbelliche Nella storia della Romania moderna, il problema dell’identità nazionale, il problema del românism, è presente in maniera costante anche se non sempre esplicitamente tematizzato. Nei decenni successivi alla costituzione della Grande Romania, e in particolare nel corso degli anni Trenta, il dibattito su tale tema assume tonalità sempre più aspre, contrapponendo uomini di cultura, filosofi, sociologi, teologi e letterati, e si viene a intrecciare in modo indissolubile con la storia politica del Paese in un periodo particolarmente drammatico. L’articolo intende ricostruire, nelle sue linee generali, la storia di nozioni quali românism e suflet românesc, tenendo conto non solo dei particolari contesti storico-politici in cui sono state elaborate e discusse, ma anche della loro persistenza ossessiva nella cultura romena, al di là delle contingenze storiche. Una serie di esempi significativi presentano alcuni dei modi in cui è stato inteso il românism, nella sua duplice accezione, da una parte come espressione del problema identitario e della ricerca della «specificità nazionale» (nel senso dello «specifico etnico»), dall’altra in quanto nucleo dottrinario ultranazionalista di alcune varianti romene del «radicalismo di destra» europeo. Parole chiave: românism, identità nazionale, cultura romena interbellica ROBERTO SCAGNO, Noţiunile de românism şi suflet românesc în cultura română interbelică şi derivările lor postbelice Problema identităţii naţionale a fost o prezenţă constantă de-a lungul istoriei României moderne, chiar dacă de mult ori

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această tema nu a fost abordată în mod explicit. În deceniile care au urmat înfăptuirea României Mari, şi mai ales în anii Treizeci, dezbaterea despre românism căpătase tonuri din ce în ce mai aspre, fiind antrenaţi în discuţie mulţi oameni de cultură ai vremii, filozofi, sociologi, teologi şi scriitori. Chestiunea identitară devenise o controversă politică, intersectând o perioadă dramatică a istoriei naţionale. Articolul încearcă să reconstituie, în linii mari, istoria unor noţiuni precum românism şi suflet românesc, ţinând cont nu numai de contextele istorico-politice în care ele au fost elaborate şi puse în discuţie, dar şi de stăruinţa lor obsedantă în interiorul culturii române, dincolo de contingenţele istorice. O seamă de exemple semnificative prezintă câteva aspecte ale problemei, punând în lumină cele două componente principale ale noţiunii de românism: pe de o parte, problema identităţii şi a «specificului naţional» (în sensul de «specificitate etnică»), pe de alta constituirea unui nucleu doctrinar ultranaţionalist în unele variante politice româneşti ale «radicalismului de dreapta» european. Cuvinte cheie: românism, identitate naţională, cultura română interbelică

* ANTONIO V. FAUR, Consideraţii în legătură cu termenii de bandiţi, duşmani şi terorişti utilizaţi de autorităţile comuniste împotriva adversarilor politici (1947-1950)

Una dintre direcţiile relativ noi ale cercetării istorice interdisciplinare este şi aceea care se ocupă de studiul limbii, al sensului cuvintelor. Analiza semantică a limbajului şi cuvintelor utilizate de oficialităţile unui regim politic de orice tip, dar mai ales de cele totalitare, în lupta împotriva

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opozanţilor politici, poate duce la concluzii care facilitează explicarea schimbărilor produse în societate, la nivelul mentalităţii deţinătorilor puterii. Folosind documente de arhivă create de oficialităţile statului comunist, autorul face o analiză semantico-istorică a termenilor de „bandiţi, duşmani ai poporului” şi terorişti utilizaţi de autorităţile comuniste (mai cu seamă de Securitate), împotriva adversarilor lor politici în perioada 1947-1950.

Cuvinte cheie: autorităţi comuniste, adversari politici, securitate, duşmani, terorişti. ANTONIO V. FAUR, Considerazioni sui termini banditi, nemici e terroristi, utilizzati dalle autorità comuniste contro gli avversari politici (1947-1959) Una delle direzioni relativamente recenti della ricerca storica, in prospettiva interdisciplinare, è quella che comprende tra i suoi oggetti di indagine anche la lingua e il senso delle parole. L’analisi semantica del linguaggio e delle parole utilizzate dalle autorità di un regime politico, di qualsivoglia tipo, ma in particolare di quelli totalitari in lotta con i propri oppositori, è in grado di chiarire nel migliore dei modi i mutamenti sociali e la mentalità dei detentori del Potere. Utilizzando documenti archivistici prodotti dalle istituzioni dello stato comunista, l’autore procura un’analisi di storia semantica dei termini ‘banditi’, ‘nemici del popolo’, ‘terroristi’, impiegati dalle autorità comuniste nei confronti dei propri avversari politici, nel periodo 1947-1950. Parole chiave: autorità comuniste, avversari politici, Securitate, nemici del popolo, terroristi

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BIOGRAFIE DEGLI AUTORI / BIOGRAFIILE AUTORILOR

ALVISE ANDREOSE è nato a Bassano del Grappa (Vicenza) nel 1973. Ha studiato all’Università di Padova e si è perfezionato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Docente di ruolo nella scuola secondaria di secondo grado, dal 2004 al 2009 è stato Assegnista di ricerca presso l’Università di Padova. I suoi interessi di ricerca vertono sulla linguistica italiana in prospettiva sincronica e diacronica, e sulla letteratura medievale, in ambito mediolatino, italiano e francese. La sua produzione scientifica ha toccato finora i seguenti temi: la letteratura di viaggio medievale (ha curato l’edizione del “Libro delle nuove e strane e meravigliose cose”. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell'Itinerarium di Odorico da Pordenone, Padova, Centro Studi Antoniani, 2000 e assieme ad Alvaro Barbieri quella de Il "Milione veneto". Ms. CM 211 della Biblioteca Civica di Padova, Venezia, Marsilio, 1999 e, più di recente, assieme a Philippe Ménard, Le Voyage en Asie d’Odoric de Pordenone, traduit par Jean le Long OSB, Iteneraire de la Peregrinacion et du voyaige (1351), Genève, Droz, 2010), la letteratura religiosa italiana del Trecento (edizione critica di Enselmino da Montebelluna, Lamentatio Beate Virginis Marie - Pianto Della Vergine Maria, Roma - Padova, Antenore 2011), la letteratura allegorica in lingua d’oïl (Raoul de Houdenc, Huon de Méry, Guillaume de Lorris), la fonologia, la morfologia e la sintassi del latino volgare, del romeno, dell’italiano antico e contemporaneo. ALVARO BARBIERI insegna Filologia romanza nell’Università degli Studi di Padova. Egualmente spartita tra lavori ecdotici e ricerche di etnografia letteraria, la sua produzione scientifica si addensa in prevalenza attorno a due fuochi d’interesse: le

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scritture di viaggio del Medioevo romanzo e la letteratura arturiana in lingua d’oïl. Per la collezione de “I Meridiani” Mondadori ha tradotto e commentato le grandi relazioni francesi sulla Quarta Crociata: Roberto di Clari, La conquista di Costantinopoli; Goffredo di Villehardouin, La conquista di Costantinopoli (ambedue i testi sono inclusi in Crociate. Testi storici e poetici, Milano, Mondadori, 2004). Con riguardo al corpus odeporico dell’Età di Mezzo, ha pubblicato criticamente due redazioni del libro di Marco Polo: Marco Polo, Milione. Redazione latina del manoscritto Z, Milano, Fondazione Pietro Bembo / Ugo Guanda Editore, 1998; Marco Polo, Il “Milione” veneto. Ms. CM 211 della Biblioteca Civica di Padova, Venezia, Marsilio, 1999 (in collaborazione con Alvise Andreose). All’opera del viaggiatore veneziano ha consacrato inoltre numerosi studi, originariamente apparsi in varie sedi e poi confluiti, in forma riveduta e aumentata, nel volume Dal viaggio al libro. Studi sul Milione (Verona, Fiorini, 2004). MIRCEA BRIE, născut la data de 14.02.1977 în satul bihorean Ferice, este absolvent al Universităţii din Oradea, specializarea istorie-geografie (1999) şi sociologie (2003), a masteratului în istorie (2000); doctor în istorie din 2007 cu teza, Familie şi societate în nord-vestul Transilvaniei (a doua jumătate a secolului XIX – începutul secolului XX); lector universitar din 2008 în cadrul Universităţii din Oradea, Facultatea de Istorie-Geografie şi Relaţii Internaţionale, Catedra de Relaţii Internaţionale. Studii Europene. Între domeniile de interes amintim: istoria relaţiilor internaţionale, dialogul intercultural, demografia istorică, istoria socială, problematica frontierei. A publicat, ca unic autor sau în colaborare, cinci cărţi: O istorie socială a spaţiului românesc. De la începuturile statalităţii dacice până la întrezărirea modernităţii, Oradea, 2005; Relaţiile internaţionale de la echilibru la sfârşitul concertului european (secolul XVII – începutul secolului XX), Oradea, 2006 şi 2009 -

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ed. a II-a (în colaborare cu Ioan Horga); Familie şi societate în nord-vestul Transilvaniei (a doua jumătate a secolului XIX – începutul secolului XX), Oradea, 2008, Căsătoria în nord-vestul Transilvaniei (a doua jumătate a secolului XIX - începutul secolului XX). Condiţionări exterioare şi strategii maritale, Oradea, 2009 şi peste 40 de studii şi articole în reviste din ţară şi din străinătate, fiind editor al volumului From Smaller to Greater Europe: Border Identitary Testimonie (Revista Eurolimes), Oradea, 2006 (alături de Gabor KOSMA) şi coordonator al volumului Frontierele spaţiului românesc în context European, Editura Universităţii din Oradea/Editura Cartdidact, Oradea/Chişinău, 2008, (alături de Sorin Şipoş, Florin Sfrengeu, Ion Gumenâi). A prezentat comunicări la peste 30 de manifestări ştiinţifice în ţară şi în străinătate. DAN OCTAVIAN CEPRAGA, nato a Bucarest nel 1967, è professore di Lingua e letteratura romena all’Università degli Studi di Padova. Filologo romanzo e romenista, si è occupato di poesia popolare romena, indagando in particolare le fonti cristiane dei canti narrativi e rituali romeni (colinde e canti vecchi), i rapporti con le altre tradizioni europee e le analogie con le letterature dell’Occidente medievale. A questo riguardo, ha pubblicato i volumi Graiurile Domnului. Colinda creştină tradiţională, Cluj, Clusium, 1995 e Le Nozze del Sole. Canti vecchi e colinde romene (in collaborazione con L. Renzi e R. Sperandio), Roma, Carocci, 2004. Ha quindi allargato i suoi interessi alla storia della lingua romena letteraria, occupandosi in particolare della formazione della lingua poetica romena dell’Ottocento. Nel campo della filologia romanza si è occupato principalmente di lirica provenzale e antico-francese, studiando la tradizione manoscritta dei canzonieri oitanici ed il sistema dei generi lirici romanzi medievali. Assieme a Zeno Verlato ha tradotto e commentato un’ampia scelta della poesia trobadorica: Poesie d’amore dei trovatori, Roma, Salerno Editrice, 2007.

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ANTONIO FAUR, născut în 09.09.1969, la Oradea, este absolvent al Facultăţii de Istorie-Filozofie a Universităţii Babeş-Bolyai din Cluj-Napoca (1995), specializarea istorie contemporană. Este doctor în istorie contemporană la aceeaşi universitate, din 2001. În prezent este profesor, la Facultatea de Istorie, Geografie şi Relaţii internaţionale a Universităţii din Oradea. Domeniul ştiinţific de interes: istoria contemporană a României şi universală. Teme de cercetare: raporturilor armatei sovietice cu populaţia şi administraţia din nord-vestul României; soarta refugiaţilor basarabeni şi bucovineni pe teritoriul României 1940-1945; raporturile minorităţilor etnice cu majoritatea în nord-vestul României în perioada 1944-1946; mişcarea de rezistenţa anticomunistă din sudul Bihorului; raporturi diplomatice româno-franceze 1944-1947. A publicat 11 cărţi, între care: Destinul tragic al românilor basarabeni şi bucovineni aflaţi pe teritoriul Bihorului (1944-1945), Editura Presa Universitară Clujeană, Cluj-Napoca, 1998, 336 p.; Comportamentul militarilor sovietici în judeţele din vestul României 1944-1945, Editura Universităţii din Oradea, vol. I, 2000, 401 p., vol. II, 2003, 336 p.; Raporturile armatei sovietice cu populaţia şi administraţia din vestul României (1944-1945), Editura Universităţii din Oradea, 2002, 454 p.; Ştefan Popescu – liderul grupului de rezistenţă anticomunistă din sudul Bihorului (1946-1950), Editura Universităţii din Oradea, 2007, 231 p.; Documente diplomatice franceze cu privire la Transilvania (1946-1948), Editura Universităţii din Oradea, 2007, vol. II, 286 p; vol. I,. 2008; Realităţi transilvănene în rapoartele unor diplomaţi francezi, Editura Universităţii din Oradea, 2008. ROBERTO SCAGNO, è professore di Lingua e letteratura romena all’Università degli Studi di Padova. Si è occupato del pensiero e dell’opera dello storico delle religioni di origine romena Mircea Eliade e ne ha curato, presso l’editore Jaca Book,

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l’edizione italiana degli scritti (di cui le uscite più recenti sono: Oceanografia, Milano, 2007; Fragmentarium, Milano, 2008; Diario portoghese, Milano, 2009). Ha pubblicato, tra l’altro, Libertà e terrore della storia. Genesi e significato dell’antistoricismo di Mircea Eliade, Torino, 1982; Mircea Eliade e l’Italia (con Marin Mincu), Milano, 1987, Veneti in Romania (con P. Tommasella e C. Tucu), Ravenna, 2008, nonché alcuni lavori dedicati alle relazioni culturali italo-romene e all’immaginario simbolico dell’ideologia comunista in Romania . SORIN ŞIPOŞ, s-a născut la 14 iunie 1969 în satul Cuzap, comuna Popeşti, judeţul Bihor. A absolvit Facultatea de Istorie-Filozofie din Cluj-Napoca, specializarea istorie medievală, în anul 1993. Şi-a susţinut teza de doctorat intitulată Silviu Dragomir – istoric, avându-l conducător de doctorat pe prof.univ.dr. Ioan-Aurel Pop, la Facultatea de Istorie-Filozofie din Cluj-Napoca, în anul 2001. Actualmente este profesor la Facultatea de Istorie, Geografie şi Relaţii internaţionale de la Universitatea din Oradea, unde predă istoria medie a României, istoria Transilvaniei, imaginea societăţii româneşti în relatările călătorilor străini, antropologie regională. A realizat stagii de cercetare şi documentare şi a susţinut cursuri şi conferinţe în Ungaria, Republica Moldova, Franţa, Spania, Italia. A publicat, ca unic autor sau în colaborare, 14 cărţi, între care: Etnie. Naţiune. Confesiune, Oradea, 1996; Silviu Dragomir, Studii de istorie medievală, Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca, 1998; Silviu Dragomir – istoric, Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca, 2002, 2008; Antoine-Françoise Le Clerc, Memoriu topografic şi statistic asupra Basarabiei, Valahiei şi Moldovei, provincii ale Turciei Europene, Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca, 2004 (în colaborare cu Ioan-Aurel Pop); De la „Mica la Marea Europă“. Mărturii franceze de la sfârşitul secolului al XVIII-lea şi începutul secolului al XIX-lea despre frontiera răsăriteană a Europei. Studii şi documente, Oradea,

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2006 (în colaborare cu Ioan Horga); Silviu Dragomir, Istoria desrobirii religioase a românilor din Ardeal în secolul XVIII, Oradea, 2007; Frontierele spaţiului românesc în context european, Oradea-Chişinău, 2008 (în colaborare cu Mircea Brie, Florin Sfrengeu şi Ion Gumenâi); Silviu Dragomir şi Dosarul diplomei cavalerilor ioaniţi, Academia Română, Centrul de Studii Transilvane, Cluj-Napoca, 2009 (în colaborare cu Ioan-Aurel Pop). Editor al volumelor Europa and its Borders: Historical Perspetives, Vol. I, Oradea-Debrecen, 2006, (în colaborare cu Ioan Horga) şi Religious frontiers of Europe. Volume 5, Oradea-Debrecen, 2008 (în colaborarea cu Enrique Banus şi Karoly Kocsis) şi peste 80 de studii şi articole în reviste din ţară şi din străinătate. A prezentat comunicări la peste 80 de manifestări ştiinţifice în ţară şi în străinătate. FLORIN SFRENGEU, născut în 16. 10. 1969 în judeţul Bistriţa-Năsăud, este absolvent al specializării istorie-geografie a Universităţii din Oradea în anul 1996, doctor în istorie la aceiaşi universitate din 2007. În prezent este lector în cadrul Departamentului de Istorie, Facultatea de Istorie, Geografie şi Relaţii Internaţionale a Universităţii din Oradea. Domeniul de cercetare: istoria şi arheologia secolelor VII-XII din nord-vestul României şi a regiunile învecinate. Coautor, alături de prof. Sever Dumitraşcu a cărţii Constantin Daicoviciu – o biografie, editor şi coautor a trei volume de studii şi articole şi autor a peste 40 de studii şi articole dintre care amintim: Settlements from 8th – 9th centuryes discovered within the soil fortress at Biharea, în Analele Universităţii din Oradea, Seria Istorie-Arheologie, XVIII, 2008, p. 7-12; Populaţia romanică din Pannonia în a doua jumătate a mileniului I A. D., în S. Şipoş, M. Brie, F. Sfrengeu, I. Gumenâi, (coord.), Frontierele spaţiului românesc în context european, Oradea-Chişinău, 2008, p. 57-61; Consideraţii istorico-arheologice privind perioada secolelor VIII-IX în nord-vestul României, în

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Svetlana Suveică, I. Eremia, S. Matveev, S. Şipoş (coord.), Istoriografie şi politică în estul şi vestul spaţiului românesc, Chişinău/Oradea, 2009, p. 93-106; Hungarians migration to Pannonian field in the light of the researches in the southern Poland în Analele Universităţii din Oradea, Seria Istorie-Arheologie, XIX, 2009, p. 13-20. BARBU ŞTEFĂNESCU, profesor universitar la Departamentul de Relaţii Internaţionale. Studii Europene, Facultatea de Istorie, Geografie şi Relaţii Internaţionale, Universitatea din Oradea. Preocupări ştiinţifice de bază, conducere doctorat, în istorie rurală şi antropologie istorică. Principalele lucrări: Tehnică agricolă şi ritm de muncă în gospodăria ţărănească din Crişana (sec. al XVIII-lea şi începutul sec. al XIX-lea), vol. I-II, Oradea, Fundaţia Culturală „Cele Trei Crişuri”, 1995; Ruperea tăcerii, Oradea, Editura Revistei „Familia”, 1998; Sociabilitate rurală, violenţă şi ritual, Oradea, Editura Universităţii din Oradea, 2004; Le monde rural de l’ouest de la Transilvanie du Moyen Age a la Modernité, Cluj-Napoca, Academie Roumanine, Centre d’Etudes Transylvaines, 2007; Tratat de sociologie rurală (coordonatori: Ilie Bădescu, Ozana Cucu Oancea, Gheorghe Şişeştean, (coordonatori), Editura Mica Valahie, Bucureşti, 2009 (coautor).


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